Il virus, la guerra e il 41bis quando la verità diventa eresia e l’evidenza un’opinione

Per una volta mi prendo la libertà di tornare al mio vecchio mestiere per esporre in modo didascalico, senza investimento personale e basandomi solo su fatti documentabili, tre questioni sulle quali si è operato un rovesciamento totale dell’evidenza fattuale,  fatta passare per opinione bizzarra di eccentrici  che si vogliono distinguere a tutti i costi o di pericolosi sociopatici che intendono scardinare lo Stato  attaccando le certezze condivise e seminando l’erba della discordia.

Si è iniziato col Covid e i vaccini.  Il virus sbarcato in Italia dalla Cina  provocò un’ecatombe e dette uno scossone tremendo a un sistema sanitario sopravvalutato. Fra tachipirina e vigile attesa si sono svuotate le residenze per anziani mentre l’adozione del modello cinese non solo fece passare per untori additati alla pubblica esecrazione i primi contagiati ma impedì ai familiari  degli ammalati morti in ospedale l’ultimo saluto, impose l’isolamento per un tampone positivo  e, come suprema idiozia, sessantanove interminabili giorni di arresti domiciliari per tutti, per la gioia di poliziotti  e vigili urbani sguinzagliati con radar e elicotteri alla caccia di canoisti  e podisti solitari. Provvedimenti assolutamente inutili perché il virus ha fatto tranquillamente il suo corso, ha raggiunto il suo picco e lentamente ha cominciato a perdere la sua virulenza, come hanno sempre fatto le epidemie, dalla peste al colera alla spagnola. Per fortuna i laboratori di ricerca di mezzo mondo a un anno dal suo esordio   hanno sintetizzato contro la malattia vaccini che ne hanno drasticamente ridotto diffusione e letalità, Accolti come un dono della divina provvidenza scatenarono una gara per accaparrarseli strappandoli agli anziani e ai soggetti fragili ai quali erano inizialmente destinati.

 Poi la produzione di vaccini acquista un ritmo industriale, l’Ue e il nostro Paese ne fanno incetta e li devono smaltire, cosicché da opportunità che avrebbe dovuto essere vaccinarsi diventa un obbligo, e vaccinarsi non una ma due, tre volte e, se non lo avesse fermato il rischio di una sollevazione di massa, il fortunatamente ex ministro Speranza ci avrebbe costretto a iniettarci una quarta e una quinta dose con un occhio speranzoso alla sesta. Ora io non intendo mettere in dubbio l’efficacia della vaccinazione e tengo per me tutti i dubbi  sulla legittimità di renderla obbligatoria ma mi preme rimarcare la circostanza incontrovertibile che i vaccini anticonvid hanno provocato “effetti avversi” anche gravissimi  con numeri statisticamente significativi  (tutti i vaccini, come tutti i farmaci comportano qualche rischio di cui chi li assume viene informato). Bene, l’evidenza di questi affetti avversi è stata spudoratamente  occultata e negata, alimentando per contraccolpo la nascita di un vero e proprio movimento no-vax, criminalizzato unanimemente dalla politica e dai media con l’eccezione del quotidiano diretto da Belpietro che ne ha fatto furbescamente il suo cavallo di battaglia.

Poi l’Ucraina. Sulla scia della rivoluzione che nel 1917 fece crollare l’impero russo e determinò il risveglio delle nazionalità che lo componevano  l’Ucraina, col favore di Lenin,  diventa uno Stato, sia pure  nell’ambito dell’Urss e si dava finalmente soddisfazione ai movimenti indipendentistici  dopo un paio di tentativi abortiti. Per secoli era stata semplicemente “terra di confine” rispetto ai protagonisti  dell’est Europa; slavi, lituani, polacchi, magiari, tedeschi. Una terra di confine percorsa da mongoli nomadi con un nucleo stabile di etnia e di lingua slavo orientale. E proprio in quella che è oggi la capitale ucraina prese forma l’embrione di uno stato russo, la Rus’ di Kiev, nel quale l’elemento slavo si mescolò con la massiccia immigrazione di popolazioni scandinave e  dette luogo a tre distinte varianti etnico-linguistiche: il russo, l’ucraino e il bielorusso (grandi russi, piccoli russi e russi bianchi). La Rus’ di Kiev raggiunse il suo acmè intorno all’anno mille per poi declinare fino alla sua estinzione agli inizi del tredicesimo secolo quando il  baricentro del mondo slavo orientale si spostò a nord con l’affermarsi del principato di Mosca. E con la conquista di Costantinopoli da parte turca il testimone della cristianità ortodossa passò nelle mani del nuovo Cesare, lo Zar moscovita, a capo di un impero autocratico multinazionale, caratterizzato dal centralismo amministrativo, dalla supremazia del patriarcato moscovita, dall’imposizione della lingua russa, con le minoranze nazionali, fra cui quelle di lingua ucraina, di volta in volta tollerate o represse. Poi la parentesi bolscevica seguita dal distacco delle minoranze nazionali più riottose, non senza grandi difficoltà per l’incerta definizione dei confini e la compresenza di etnie e culture differenti all’interno delle medesime aree geografiche.

Nessuno mette in discussione la legittimità di uno stato ucraino, ci mancherebbe. Il popolo ucraino, la nazione ucraina sono una realtà che si palesa nella lingua e nella stessa coscienza nazionale degli ucraini. Ma che cosa aveva a che fare la Crimea con la coscienza nazionale degli ucraini? La Crimea non è mai stata parte del processo storico che  dalla Rus’ di Kiev ha portato alla definizione di una componente nazionale ucraina. Repubblica sovietica autonoma costituita il 18 settembre del 1921, già oblast dell’impero moscovita, la Crimea è stata per secoli un ponte fra oriente e occidente, terreno di scontro fra islam e cristianesimo, contesa fra bizantini e turchi, conquistata dai mongoli, crogiuolo e riparo di popoli in fuga. Tatari sedentarizzati che l’hanno a lungo dominata, russi sospinti verso sud dalle scorrerie di popolazioni nomadi, zingari, greci, tedeschi, genovesi hanno composto un mosaico di razze, lingue, culture. Nel 1783  la penisola viene sottratta al protettorato turco ed  entra formalmente  entro i confini della Russia e a quel mosaico fa seguito una progressiva russificazione, accentuata in epoca sovietica, soprattutto  dopo l’espulsione dei tatari che si erano alleati coi tedeschi. Con un gesto che ha dell’incredibile per commemorare i trecento anni dal patto di pacificazione degli Zar con i cosacchi,  incurante delle proteste popolari, Kruscev nel 1954 la “regalò” alla Repubblica popolare ucraina  come fosse cosa sua. Su questa base l’odierna Ucraina pretende la sovranità sulla Crimea. E anche questo è un fatto, anch’esso tenuto al riparo  dagli occhi del popolo bue.

E veniamo al Donbass. La legittimità dello stato ucraino si fonda sull’esistenza di una nazione ucraina, di una lingua e di una cultura ucraine, sul principio di  autodeterminazione dei popoli e non sul delirante nazionalismo di stampo hitleriano che rivendica la sovranità ucraina dovunque ci siano stanziamenti ucraini mirando ad una Grosse Ukraine di ottocentomila chilometri quadrati. Se gli abitanti delle regioni russofone del Donbass, che è stato incorporato nell’attuale Ucraina dopo il crollo del regime comunista grazie alla debolezza politica di Eltsin, volevano l’indipendenza era loro diritto ottenerla: i confini sono sacri se vengono minacciati da un nemico esterno ma se sono disegnati contro la volontà dei popoli sono arbitrari. O vogliamo ridurre al silenzio, snazionalizzare, massacrare o espellere intere popolazioni? Le “autoproclamate”, come dicono i nostri media,  repubbliche del Donbass  sono legittimate dalla volontà popolare; personalmente non conosco altra forma di legittimazione.  Detto questo, che dal 2014 fosse in corso una guerra civile con la partecipazione massiccia di milizie dichiaratamente neonaziste è un fatto, non un’opinione, un fatto di cui commentatori politici e media non danno notizia. Come non danno notizia dell’olocausto perpetrato durante la seconda guerra mondiale  ad opera  delle truppe ucraine autonome o inquadrate nelle SS tedesche alle quali quelle milizie si ispirano. Che la federazione russa attraverso il suo presidente  abbia inutilmente intimato al governo ucraino di cessare le operazioni militari contro le repubbliche separatiste e di rinunciare formalmente all’ingresso nella Nato è anche questo un fatto. E che da parte della Russia siano stati semplici pretesti per giustificare un intervento armato per impadronirsi di tutta l’Ucraina questa sì è un’opinione, e padrone chiunque di farla propria e di portarne il peso.

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Un’opinione che non tiene conto della circostanza che l’alleanza atlantica è fatta passare per difensiva senza che si sappia da chi e da cosa si dovrebbe difendere.  Se l’Europa e l’occidente hanno un nemico che periodicamente li colpisce questo è il terrorismo islamista: è un fatto ma non è  questo il nemico contro quale la Nato si è attrezzata.   Che non esiste una potenza militare che minaccia l’Italia, la Spagna, la Francia, la Germania o il Regno unito non è un’opinione ma una evidenza; sostenere il contrario è da mentecatti. Quindi la Nato o non è un’alleanza difensiva o non serve a nulla e se serve a qualcosa vuol dire che è uno strumento offensivo. E se è uno strumento offensivo qual è fra i maggiori stati europei che ha intenti offensivi dal momento che hanno rinunciato ad una politica estera autonoma vincolandosi nell’Unione europea, che come tale non può avere intenti offensivi? Quindi se la Nato è uno strumento offensivo questo strumento è nelle mani degli Stati uniti.  In conclusione dovrebbe essere chiaro che sono gli Stati uniti a voler stringere un cordone sanitario intorno alla Russia o, se si vuole, un cappio intorno al collo dell’orso russo.  Il quale, dal canto suo, non chiede altro che il rispetto di accordi che ne garantiscono la sicurezza con la presenza di stati cuscinetto, fra i quali, per l’appunto l’Ucraina. E, nel momento in cui si concretizza l’ipotesi dell’ingresso nella Nato dell’Ucraina, quegli accordi vengono traditi  ed è ragionevole ritenere che Mosca si senta minacciata. E anche questi sono fatti, non opinioni, di cui i cittadini italiani ed europei dovrebbero essere informati.

Il terzo argomento sul quale si è esercitato l’unanimismo di regime riguarda il 41bis. La Corte europea dei diritti dell’uomo sentenziando che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti” non fa altro che recepire un principio di civiltà che si è affermato in Europa sull’onda più che della Rivoluzione francese, come spesso si dice, della laicizzazione del diritto e dell’etica che sono un portato dell’età dei lumi.
Per quanto riguarda i richiami costituzionali, l’art. 3  rivendica opportunamente l’uguale e incondizionata pari dignità di tutti i cittadini, quale che sia la loro condizione – quindi anche i carcerati –  mentre l’articolo 27  dichiara  l’inammissibilità della pena di morte e, con una dicitura discutibile che maleodora di sagrestia, riconosce sì giustamente che “le pene  non possono consistere in trattamenti  contrari al senso di umanità” ma vi aggiunge  l’ipocrisia che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un concetto orribile quello di “rieducazione”, degno dei peggiori regimi totalitari o confessionali.  E anche questa è un’evidenza.
Quale che sia l’efferatezza del reato compiuto la pena è la privazione della libertà, il carcere, con un’unica variabile quantitativa che è funzione della gravità del reato. Quantitativa, non qualitativa. Non devono esserci altre pene che aggravino la condizione di detenzione: lo escludono l’evoluzione della nostra civiltà, la costituzione, la legislazione europea. Ne consegue  che alla detenzione  non possano essere aggiunte altre restrizioni lesive della dignità umana del detenuto; semmai i luoghi di pena debbono rispondere a requisiti che  ne garantiscano il rispetto (igienico sanitari, di affollamento, sicurezza, accesso all’informazione). Emessa la sentenza e inflitta la condanna il reo  ha dato piena soddisfazione alla legge e allo Stato, che non può più infierire su di lui; è impegnato a saldare il suo debito nei confronti della società e una volta che abbia trascorso in carcere i mesi e gli anni che gli sono stati comminati  torna a essere un cittadino con pieni diritti. L’attività inquisitoria, che comprende la ricerca di una confessione, le chiamate di correo, le circostanze e le motivazioni dell’azione criminale, termina nel momento in cui il reo è nelle mani del giudice. L’idea che il carcere sia uno strumento per proseguire l’attività investigativa è un’aberrazione giuridica e morale e non c’è sentenza della corte costituzionale o parere di giurista che possa intaccare questa evidenza. Tanto basta per ritenere inaccettabile l’inasprimento ad personam o per fattispecie di reato della detenzione. Se è un mezzo per ottenere informazioni si tratta di una misura impropria e illegittima: le informazioni vanno cercate nella fase istruttoria, non dopo la sentenza, altrimenti il carcere non è lo scotto da pagare per saldare il debito – o, se si preferisce, per soddisfare la legittima vendetta della comunità – ma uno strumento di tortura per estorcere confessioni; per impedire contatti col mondo esterno attraverso i quali l’attività criminale può proseguire ci sono filtri sulla corrispondenza, controlli sulle comunicazioni telefoniche e sui colloqui anche senza bisogno di ricorrere a sofisticate tecnologie.  Insomma sull’evidenza della incompatibilità del “carcere duro” con l’ordinamento di un Paese civile non mi pare ci possano essere dubbi. Eppure anche questa evidenza – che non è un’opinione o un atteggiamento compassionevole – si abbatte il meccanismo di negazione e capovolgimento dei fatti del grande fratello. E se ti trovi costretto a parteggiare con gli studenti che okkupano le facoltà universitarie, con le grida cadenzate dei protestatari di professione, con gli anarchici fuori tempo massimo siamo veramente alla frutta.

Post scriptum

Il regime fa leva sulle pulsioni istintuali della massa accentuando la pericolosità sociale di mafiosi o terroristi. Con questo criterio di proporzionalità qualitativa della pena rispetto al delitto cosa bisognerebbe fare agli assassini di  Pamela: impalarli? crocifiggerli a testa in giù? tagliargli un po’ alla volta parte del corpo e fargliela mangiare?

Pierfranco Lisorini

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