Il sentiero dei disperati

Il sentiero dei disperati:

 
Il sentiero dei disperati:

 Nel 1956 Jacques Lanzmann, autore francese scrive il romanzo monografico dal titolo “Il topo d’America” da quello scritto ne esce un soggetto cinematografico tradotto in molti paesi al mondo, ed in diverse lingue, in Italia fu tradotto da Anna Arancia e fu stampato per la prima volta nel 1962 da In.Gra.Ro.

Jacques Lanzmann 

 Il libro non ebbe un grande successo soprattutto nel nostro paese, tuttavia il soggetto in sceneggiatura è tutt’oggi conservato alla Bibliomediateca “Mario Gromo” del Museo nazionale del cinema di Torino, e fu scelto nel 1963 per realizzarne un film, in collaborazione tra Francia e Italia con la regia di Jean Gabriel Albicocco, e come attori protagonisti Franco Fabrizi, Marie Laforêt e Charles Aznavour, che ne curò in parte anche la colonna sonora.
Il racconto descrive in maniera autobiografica ed in prima persona, un odissea di un migrante che proviene dall’Europa alla ricerca della fortuna nel Sud America del dopoguerra. Diviso in tre parti, si snoda tra il Paraguay, la Bolivia e il Cile e dà un’immagine di quel mondo latino americano e di quelle genti, con tutte le controversie e contraddizioni che ancora oggi, in quei posti sono presenti.
Come in Sudamericana, il romanzo di Ernesto “Che” Guevara si evince la situazione di un popolo ancora in cerca di riscatto e qualcosa in cui credere per crescere, evolversi ancora dopo più di 500 anni dalla sofferenza postcoloniale. Lungo la sua peregrinazione il protagonista, si alterna nel ruolo di eroe e disperato, che combatte la cruda realtà della sopravvivenza in quel mondo, tra condizioni miserabili di vita, e le traversie degli uomini che incontra sul suo cammino, molti senza alcuna moralità. 
Copertina del libro – Edizione USA

Per disperazione decide di darsi anche lui al contrabbando d’armi in favore dei guerriglieri, scoperto, negli scontri con l’esercito Paraguayano è coinvolto nella disfatta, per non essere preso dai regolari e finire in galera, fugge gettandosi nel fiume attraverso una cascata e finisce a La Paz, in Bolivia.

Locandina Italiana

Nel nuovo paese arriva ad essere costretto a rubare per vivere, e in cerca di espedienti finisce anche in carcere, poi uscito viene coinvolto in un omicidio e fugge ancora una volta dalla giustizia, il suo viaggio senza una meta ordinaria si snoda sulla cordigliera. Stavolta il viaggio si conclude in Cile dove a Santiago la capitale cerca lavoro, un immigrato gli consiglia di ritornare in Bolivia sulle montagne e di recarsi dove lui ha lavorato per guadagnare i soldi per fare ritorno in patria. Si tratta di una miniera d’argento, e lui vi si reca per lavorare, in condizioni bestiali, con lui migliaia di reietti, che vanno avanti sopravvivendo a 4000 mt sul livello del mare, masticando foglie di coca e bevendo un miscuglio di alcool e dinamite per tirarsi su. Tuttavia, malgrado i suoi sforzi, molte volte prodigiosi, non riuscirà mai ad elevare la sua condizione e deciderà alla fine di fare ritorno al suo paese natio.

Il romanzo è un racconto ancora attuale, nonostante siano passati 61 anni dalla sua pubblicazione, si inserisce fortemente nel contesto odierno dell’immigrazione e dei migranti,  che il continente Europeo sta cercando di controllare, ma anche nella situazione che si presenta ancora in molte zone di molte nazioni ed aree del terzo mondo, come il Sud America che presenta situazioni di estremo degrado e considerevole differenza sociale ed economica. Io personalmente ho avuto una zia che si recò anche lei alla ricerca di fortuna, più o meno in quel periodo in Argentina e vi visse per circa trent’anni, facendo poi ritorno in Italia negli anni 80. 

Locandina originale
Sebbene non abbia vissuto l’esperienza disperata del protagonista del romanzo, ricordo ancora molto bene alcuni racconti dei suoi viaggi in Sud America che lei mi descriveva, Paraguay, Uruguay, Bolivia, Perù e naturalmente Cile e Argentina.
 La carta dei confini
Proprio nei tre stati descritti anche da Lanzmann nel romanzo, la situazione era la più grave e problematica, con enormi disparità sociali ed economiche ed enorme stato di povertà della popolazione, il Paraguay e la Bolivia odierne soprattutto sono ancora due stati estremamente poveri, perchè lungamente sfruttati da chi li governava e storicamente comandati da regimi asserviti alle grandi potenze economiche che li sfruttano, il Paraguay soprattutto fatica costantemente a tirarsi fuori da circa sessant’anni di dittatura. 

E in quelle miniere di argento sulle Ande dove la vita era appesa ad un filo, che esistono da circa 450 anni e resistono ancora oggi, vi sopravvivono intere comunità di persone, le miniere più alte del mondo (così dicono gli abitanti e operai) si trovano in Bolivia e precisamente a Potosì, dove il poco argento rimasto è sfruttato da cooperative di minatori, a prezzo di un lavoro massacrante.

Infatti, la montagna che si staglia sulla città, il Cerro Rico, a partire dal XV secolo è stata letteralmente svuotata, facendo arrivare in Spagna (e da lì ai creditori del regno di Madrid, inglesi, tedeschi e fiamminghi) una quantità di argento tale che avrebbe permesso, dice un luogo comune non troppo lontano dal vero, di costruire un ponte in argento che superasse l’Atlantico e collegasse la Bolivia alla sua madrepatria di un tempo. 
Antica stampa Spagnola
delle miniere di Potosì

Nel XVII secolo la città fondata dagli Spagnoli nel 1545 si caratterizzò fin da subito come città mineraria, ben presto produsse ingenti ricchezze, diventando la più grande città delle Americhe dopo città del Messico con una popolazione di oltre 200.000 abitanti era non solo la più alta, ma anche la più popolata del mondo, con più abitanti di Parigi e Londra. Oggi, Potosì è profondamente cambiata, ha 167.438 abitanti (dato 2010) e già dall’ottocento l’argento ha cominciato ad esaurirsi, e con lui se n’è andato il benessere, che ha lasciato solo una piacevole architettura coloniale, la città ha meno abitanti che nel XVII secolo, ed il Cerro Rico, svuotato, ha iniziato a collassare, perdendo più di 500 metri d’altezza, qualcosa però, è rimasto simile ad un tempo, le gallerie che affondano nella montagna sono ancora percorse da migliaia di minatori che sopportano le durissime e pericolose condizioni di lavoro, per un guadagno da fame.

Reinaldo
Reinaldo oggi è un ex minatore, ha poco più di 30 anni ma sul viso porta i segni della fatica del lavoro in miniera dove ha faticato da quando aveva 13 anni, adesso organizza tour all’interno della miniera, portare i turisti in visita è sicuramente un lavoro più redditizio e meno faticoso ma Reinaldo non può così rinunciare mai, alla “sua miniera”. 

Proprio così siamo nel 2017  e non è cambiato nulla, la “città più alta del mondo”, come affermano orgogliosi i suoi abitanti, è infatti stato uno di quei luoghi chiave in cui è avvenuta quella che Marx ha chiamato “accumulazione originaria del capitale”, grazie alla quale le potenze europee hanno potuto mettere in campo quegli ingenti investimenti che hanno prodotto la nascita della rivoluzione industriale.

In spagnolo e in Sud America esiste ancora un detto, “vale un Potosí”, che significa “vale una fortuna”, perchè a quel tempo il Perù (la Bolivia faceva parte del vicereame del Perù ed era conosciuta come Alto Perù, prima di ottenere l’indipendenza nel 1825) era considerato ancora una mitica terra di ricchezze.

 Fin dalla propria fondazione ancora al tempo delle Misiones veniva sfruttato brutalmente il lavoro degli indios, e per le condizioni estreme ma anche per l’avvelenamento da mercurio, provocato dal contatto col metallo delle mani e dei piedi nudi, oltre che dall’inalazione dei suoi vapori tossici, provocò la morte di centinaia di migliaia di persone.  

Agli inizi del XIX secolo quando le miniere si iniziarono ad esaurire, la città contava solo 21.000 abitanti, in quel periodo il prodotto principale estratto nel territorio circostante era già divenuto lo stagno, dal 1952 le miniere sono passate al controllo diretto dei minatori, che si sono organizzati in cooperative e hanno quindi smesso di essere dei salariati, un calcolo del giornalista uruguayano Eduardo Galeano considera che il Cerro Rico, fra incidenti e malattie, abbia causato la morte prematura di circa 8 milioni di minatori dalla loro apertura nel XV secolo ad oggi, un dato agghiacciante che fa capire quanto, a queste latitudini le condizioni di vita non abbiano alcuna importanza come la vita stessa delle persone.    

E’ una vita che ti segna, la maggior parte dei minatori non arriva a 50 anni, gli incidenti mortali, come i carrelli impazziti, i crolli ed il contatto con gas tossici che uccidono all’istante, sono frequenti laggiù, quando sopravvivi a quelli, la silice che respiri ti distrugge i polmoni, quasi tutti quelli che non muoiono per gli incidenti lo fanno per la silicosi, malattia respiratoria dovuta all’inalazione di polveri. I proprietari delle miniere chiudevano perché l’argento era sempre più difficile da trovare e i giacimenti non rendevano abbastanza, i minatori hanno combattuto ed ottenuto dal governo di tenere le miniere funzionanti non certo per arricchirsi, ma perché non avevano altra scelta, non c’era altro modo di sfamare le loro famiglie.
Uno scavo in galleria

Oggi, lavorano in miniera ancora circa 10000 minatori, lo fanno per 8-10 ore al giorno, per 7 giorni la settimana senza sosta perchè il lavoro è vita per loro, sebbene la maggior parte di loro riesce a stento a comprarsi il cibo per sopravvivere e tornare dentro la miniera a scavare. Spesso l’operaio si può permettere solo quello, perché le cooperative continuano a usare attrezzature antiquate, che non hanno diminuito la fatica né migliorato la sicurezza, perché i guadagni non basterebbero e le spese sarebbero troppo elevate per mantenere aperte le miniere. 

Interno della miniera
In passato, quando bastava una picconata per trovare chili d’argento, si lavorava con salari fissi e bassissimi, oggi che il guadagno dipende dall’argento che si trova, bisogna scavare ore ed ore per raccoglierne solo le briciole. 

Tutti non fanno mai a meno però delle foglie di coca, che vengono masticate e tenute con la saliva sotto alla lingua come un bolo, si avete capito bene, non era una trovata romanzesca dell’autore, ma è la realtà, le foglie di coca a questa altitudine non fanno sentire la fatica e la fame, perché mangiare ed avere pieni stomaco ed intestino prima di entrare in quelle miniere è una follia, si rischierebbe di sentirsi male e vomitare.

Tra queste migliaia di operai anche qualche centinaio di bambini, alcuni dei quali hanno appena 10 anni, altro dato agghiacciante, ma non è un’informazione tenuta segreta, in questa parte del mondo il lavoro minorile è un dato di fatto e non si discute tanto se debba o meno esistere ciò, o quanto sia giusto, nè su quali leggi applicare per tutelare meglio i bambini costretti a lavorare. 
Giovani minatori

Alcuni dopo il turno in miniera vanno anche a scuola, sognando di poter un giorno uscire per sempre alla luce del sole, a giocare come ogni altro bambino libero del mondo, ma per tanti questo sogno non si avvererà mai, continueranno infatti per anni a lavorare in condizioni durissime, in spazi angusti, con l’aria resa quasi irrespirabile dalla polvere di arsenico, zolfo e altri minerali, con turni che possono durare anche 20 ore, e diventeranno adulti se sopravviveranno a tutto ciò. 

Camminare all’interno di una miniera attiva non è proprio una passeggiata, ci sono diversi momenti in cui bisogna accucciarsi, altre sdraiarsi per passare in spazi ristretti ed angusti, camminare nel fango e nell’acqua, evitare di picchiare la testa sui tubi che portano l’aria compressa ai macchinari, passare sotto travi rotte, pezzi di parete crollata o formazioni rocciose che fuoriescono, ma bisognerebbe esserci dentro per rendersi conto della pericolosità del luogo e delle orribili condizioni di lavoro. Dove un operaio in media ogni giorno cammina 45 minuti all’interno della montagna per raggiungere la vena a cui lavora, poi quando ha raccolto abbastanza minerale dopo ore di fatica, fa il percorso inverso per l’uscita con 40/50 chili di materiale sulle spalle, tenuto su “cavagni” o recipienti di fortuna. 

El Tio (uno dei tanti, in ogni galleria)

Dentro la miniera, il freddo si fa più pungente, scendendo in profondità la temperatura aumenta, l’inferno è un posto caldo e prima di addentrarsi i minatori, si fermano davanti a “El Tio”, questo il nome del diavolo che veglia sulla miniera, la sua bocca è piena di sigarette, il corpo è ricoperto di foglie di coca e nella sua mano tiene il suo enorme fallo eretto, simbolo di potenza e buon auspicio.  Non è altro che una statua rappresentante una divinità protettrice dei minatori, che i colonizzatori Spagnoli e Portoghesi imposero per spaventare gli indigeni, ma che oggi gli stessi onorano offrendogli foglie di coca e il miscuglio di gazzosa, alcool puro a 96°e dinamite, un cocktail che essi bevono fino allo stordimento, anche quello per riuscire ad andare avanti senza pensieri e preoccupazioni, fumando sigarette in continuazione. 

La paga di queste persone oggi è a giornata e dipende dalla quantità di minerali estratti e dalle fluttuazioni del valore nel mercato borsistico degli stessi, non ci sono giorni di riposo se non per scelta.  Nella miniera si estrae ancora argento, stagno, arsenico, bromo e rame, l’argento è considerato finito e anche i filoni di stagno trovati da non molto sono quasi esauriti, l’attività estrattiva del Cerro Rico, che ha fatto vivere in schiavitù ed ucciso milioni di persone, sta volgendo al termine dopo più di mezzo millennio. 
Una fumata con El Tio prima di entrare in miniera

Tra poco quando si esauriranno tutte le vene, le imprese a cui si vende l’argento si metteranno a cercare ciò che è avanzato nelle montagne di detriti ammassati sulle pendici del monte, questo darà lavoro per un’altra decina d’anni a molte persone e famiglie, poi non ci sarà davvero più niente da succhiare dalle viscere del Cerro Rico, che tra l’altro, è troppo svuotato per restare in piedi, tra al massimo cinquant’anni, al posto di questa montagna ricchissima ci sarà un cratere.

Il centro di Potosì con il Cerro sullo sfondo

Anche questo come quello di Lanzmann, è un racconto di reietti, disperati, di gente che sopravvive o cerca di farlo in questo mondo, arrangiandosi, rimanendo o andando via, alla ricerca di qualcosa di meglio, per sé e i propri familiari, come i tanti che cercano di farlo per avere un alternativa e si spostano dal loro paese natio in cerca di riscatto e fortuna, o per fuggire da chi gli tarpa le ali, da guerre e carestie,

ingiustizie e soprusi, perché ognuno dovrebbe avere il diritto di sognare e rivalersi riscattando se stesso, in completa libertà. 


 
Baracche dei minatori, sullo sfondo con un carrello e una donna Boliviana

PAOLO BONGIOVANNI

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