Il secondo mandato di Trump: tempi bui ma qualche luce
“È l’ora di mettere le divisioni degli ultimi quattro anni da parte. È arrivata l’ora di unirci”. Così Donald Trump la sera della recente vittoria al suo secondo mandato. Parole pacate che ricordano quelle espresse subito dopo la prima elezione del 2016. Poi però il suo discorso di insediamento il 20 gennaio del 2017 fu descritto dall’ex presidente George W. Bush come “some weird sh…t” (strana m…da) per i toni oscurantisti e minacciosi delle parole uscite dalla bocca di Trump.
Quale Trump governerà nel suo secondo mandato? Quello dell’unione del Paese oppure quello della campagna elettorale? Quante delle promesse minacciose metterà in atto?
Il primo mandato ottenuto da Trump quando sconfisse la candidata democratica Hillary Clinton nel 2016 fu storico. Il candidato repubblicano non aveva nessuna esperienza politica ma riuscì a conquistare la Casa Bianca facendo leva sulle sue qualità imprenditoriali. Si trattava di un mix tra successi e bancarotte ma il tycoon riuscì a vincere mediante il meccanismo costituzionale del Collegio Elettorale. Perse però il voto popolare, ricevendo circa tre milioni di voti in meno della Clinton, che lui spiegò, senza prove, che i clandestini avevano votato.
Tutte le schede della recente elezione non sono state ancora contate ma sembra che questa sua vittoria sarà più netta. Anche storica poiché Trump diventa il secondo presidente ad avere vinto due mandati non consecutivi. L’altro caso è rappresentato dal democratico Grover Cleveland che vinse la presidenza nel 1884, perse nel 1888, e poi vinse di nuovo nel 1892. Trump potrebbe prevalere anche sul voto popolare e il suo partito ha già vinto la maggioranza al Senato e ha anche buone possibilità di vincere quella alla Camera. Il 47esimo presidente avrebbe inoltre il supporto della Corte Suprema dove vige la maggioranza di 6 giudici con tendenze conservatrici, 3 dei quali nominati proprio da Trump. Le tre giudici nominate da presidenti democratici hanno dunque la minoranza. Una delle poche armi a disposizione dei democratici per frenare l’agenda legislativa di Trump sarebbe il filibuster al Senato. Come si sa, alla Camera Alta per procedere ai voti bisogna ottenere la maggioranza ad oltranza di 60 voti. I democratici avranno 47 senatori, quindi, votando compatti, potrebbero limitare i danni.
Trump ha ottenuto la sua vittoria nonostante un primo mandato poco brillante, caratterizzato da due impeachment alla Camera. I processi al Senato però hanno fallito di condannarlo. Nel secondo impeachment la fece franca al Senato di solo 3 voti perché solo 57 senatori votarono per la condanna invece del requisito 60. Il secondo impeachment fu dovuto, come si ricorda, per i suoi incitamenti agli assalti al Campidoglio il 6 gennaio del 2021 che lui incitò per ribaltare l’esito elettorale del 2020. Più di 1500 assalitori sono stati processati e parecchie centinaia di loro sono in carcere, alcuni per una ventina di anni.
Da candidato all’elezione del 2024 Trump si presentò macchiato da una condanna penale di 34 capi di accusa nel caso delle falsificazioni elettorali per silenziare la pornostar Stormy Daniels nell’elezione del 2016. La sentenza è stata rimandata dal giudice Juan Merchan fino al 26 novembre ma con l’esito dell’elezione non sorprenderebbe se Trump subisse una leggerissima pena. Inoltre il 45esimo presidente era stato condannato in due casi civili nello Stato di New York, e incriminato in un altro caso in Georgia e altri due federali. Il caso in Georgia è statale e continua a procedere a rilento. I due casi federali, uno a Washington dove era stato incriminato per i suoi sforzi di ribaltare l’esito elettorale del 2020, e il secondo in Florida per avere mantenuto in suo possesso documenti top secret, saranno certamente messi da parte dal nuovo Procuratore Generale che il neoeletto presidente nominerà.
Trump è riuscito a convincere più di 74 milioni di elettori che i suoi casi penali erano tutti motivati dalla politica dei democratici. Molti americani gli hanno creduto o almeno considerato le sue lacune professionali e quelle etico-morali lontane dalla squalifica per la carica più importante del governo.
In tutte e tre campagne presidenziali Trump ha usato un linguaggio fuori dalle righe, carico di insulti ai suoi avversari, ai media, ai magistrati, e le istituzioni. Nella terza campagna elettorale il suo linguaggio è divenuto ancora più oltraggioso. Gli insulti diretti alla sua avversaria Kamala Harris divennero ulteriormente ripugnanti. La campagna di Trump è stata descritta con toni misogini, razzisti, sessisti e dalla paura che una donna di colore potesse occupare la Casa Bianca. Carol Anderson, docente di studi afro-americani alla Howard University, ha persino collegato la campagna di Trump con la guerra civile, vedendo Trump come rappresentante della confederazione degli Stati del Sud.
Le incoerenze, gli insulti ai suoi avversari, le sue volgarità che in uno dei suoi comizi hanno incluso persino la simulazione di sesso orale, non hanno impedito al candidato di convincere la maggioranza degli americani di meritare un secondo mandato. Persino i gruppi minoritari afro-americani e latinos, che lui attaccò con ferocia, non si allontanarono da lui ma aumentarono il loro supporto. Trump è riuscito in questa campagna elettorale a migliorare il supporto dei latinos e dei maschi afro-americani.
La maggioranza degli americani ha rifiutato una candidata che ha condotto una campagna rispettabilissima. La Harris ha accettato la dolorosa sconfitta senza però rifiutare il concetto di una continua lotta. Da vicepresidente in carica avrà il doloroso compito nel mese di gennaio di presiedere alla lettura dei voti del Collegio Elettorale, leggendo i nomi dei due candidati presidenziali, annunciando la vittoria del suo avversario.
Trump non ha riconosciuto la sua sconfitta nel 2020 e quasi certamente avrebbe fatto altrettanto anche questa volta. Quando Trump vince non ci sono brogli e in un certo senso non ci saranno incitamenti alla violenza che sarebbero potuti avvenire se la Harris avesse vinto. Quindi un respiro di sollievo per il Paese. Un altro piccolo raggio di sole ci viene dall’elezione di Lisa Blunt Rochester (Delaware) e Angela Alsobrooks (Maryland), due donne afro-americane al Senato e l’elezione di Andy Kim (New Jersey), il primo senatore coreano-americano.
Trump farà molti danni al Paese ma anche al resto del mondo. Sorridono ovviamente i dittatori e altri leader di regimi autoritari. Gli europei dovranno rivalutare il loro ruolo poiché il secondo mandato di Trump accentua i dubbi sull’affidabilità dell’alleanza atlantica. Ne deriverà un’opportunità forzata ad agire considerando le scarse speranze che l’America li difenderà da possibili aumentate pressioni dall’Europa dell’Est.
Quanti danni altri potrà fare alla fine Trump? Molti. Il governatore della California Gavin Newsom ha convocato una sessione speciale della legislatura statale per programmare la resistenza. Si starebbero programmando piani per tutelare la politica energetica, l’ambiente e l’immigrazione da possibili attacchi da Trump. Anche la American Civil Liberties Union (ACLU) ha già annunciato che i suoi 500 avvocati sono pronti a sfidare il neo eletto presidente per la protezione dei diritti degli americani. Si pensa ovviamente alla deportazione di massa che affliggerebbe i migranti residenti in tutti gli Stati ma specialmente in California. Va ricordato che il 27 percento dei californiani sono immigrati, quasi 2 milioni di loro senza permesso di residenza legale. Potrebbe anche colpire i diritti della comunità LBGTQ+.
Non tutti la vedono con questi termini bui. Tom Nichols, in un articolo della rivista The Atlantic, scrive che la “venalità di Trump ci fornisce una ragione di speranza”. Nichols continua asserendo che Trump ha “l’anima di un fascista ma la mente di un bambino disordinato che si circonderà di gente terribile ma incompetente”. Alla fine questi potranno essere sconfitti dagli “Stati che hanno le risorse per proteggere i loro cittadini da un presidente canaglia” e che la democrazia “non scomparirà da un giorno all’altro”.
Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California.
Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications