Il ritorno del latino nella scuola media
Il ritorno del latino nella scuola media
un primo passo per arrestare lo sfacelo del sistema formativo?
A scuola si studiano cose destinate ad essere dimenticate, cose che lasciano una traccia più o meno profonda, cose che serviranno ad alcuni e perfettamente inutili per altri, cose che aiutano ad orientare le proprie scelte future. A scuola si studia per mettere alla prova la propria capacità di capire e risolvere problemi, si studia per essere promossi, si studia per il piacere di apprendere, si studia per primeggiare nella classe.
Tutto vero ma la scuola ha anche e soprattutto una precisa funzione sociale e politica, che, in condizioni normali, si affianca a quella esercitata dalla comunità e dalla famiglia precisandola e formalizzandola: quella di dare all’individuo un’identità culturale in senso lato e in senso più ristretto nazionale. Ma la scuola come la conosciamo è un dato storico: in una forma semi privata e gestita a livello locale assicurava nel mondo antico – intendo romano – l’alfabetizzazione di massa, gli elementi base del calcolo e la continuità delle koinài ènnoiai, come i contenuti dei poemi omerici o l’aneddotica edificante della tradizione, decisiva per la formazione del civis romanus . e la sopravvivenza del mos maiorum. Con la cristianizzazione dell’Occidente la scuola pubblica scompare come scompaiono musei, biblioteche luoghi di incontro centri di alta formazione e di ricerca scientifica. Passerà un millennio prima che ricomincino timidamente a riprendere forma grazie al riemergere del fiume carsico della civiltà. Ma sia pure impoveriti e affidati alla tradizione orale i germi di quella civiltà, inquinata da pregiudizi e frenata dalla superstizione, continuavano a circolare anche in superficie garantendo una fondamentale unità linguistica e una coscienza identitaria alla nazione italiana.
E a garantirla non erano istituzioni esterne come la Chiesa ma quello che è il basamento della società civile: la famiglia. La mia nonna materna era nata nel 1876, quindici anni dopo l’unità d’Italia, nelle campagne di Castellina Marittima, allora provincia di Grosseto. Era analfabeta ma sapeva a memoria passi della Divina Commedia e conosceva bene le novelle che si raccontavano “a veglia”, molte delle quali comuni al sud e al nord d’Italia si trovano nella Novellaja fiorentina o nelle Veglie di Neri. E, lo dico con affetto, biascicava anche qualche frase latina oltre, ovviamente, al repertorio ecclesiastico. Insomma, se non ci fosse stata questa comunanza culturale di base povera quanto si vuole la comunità elitaria dei salotti letterari e delle società segrete non sarebbe bastata a dare corpo alla Nazione e il processo di unificazione nazionale non sarebbe mai avvenuto.

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È quella comunanza culturale di base che non esiste fra inglesi e italiani o fra polacchi e francesi, nonostante il collante del cristianesimo, che ha smesso di funzionare prime con la disgregazione organizzativa e dottrinaria seguita alla protesta di Lutero e dopo con la perdita di rilevanza sociale della religione iniziata con l’età dei Lumi. Viene da ridere di fronte all’unanime europeismo della politica e dei media italiani se pensiamo al regionalismo dei compagni che portò alla modifica del titolo quinto della Costituzione, al centralismo ispirato dalla nostalgia di missini e post missini, al separatismo nordista mai sconfessato della Lega: tutte posizioni concettualmente e storicamente deboli e incompatibili fra di loro ma soprattutto incompatibili con l’europeismo nel quale ora tutti si riconoscono. Che, non in cattiva ma in pessima fede, è fatto passare per l’utopia di un’Europa affratellata dopo secoli di guerre vagheggiata da Erasmo ma è in realtà l’attrattiva delle numerose tavole imbandite dall’Ue, una calamita formidabile che ha spinto verso Bruxelles e Francoforte tutti i mestieranti della politica. Un europeismo sovranazionale strettamente connesso con l’atlantismo e nobilitato sul piano dei valori dalla libertà e dalla democrazia, varianti contemporanee della “Civiltà Occidentale”. Un’idea questa che aveva un senso, seppure perverso, quando aveva coinciso con la pretesa dell’Europa allargata, bianca e cristiana, di dominare il mondo ed era servita per giustificare genocidi, sfruttamento, oppressione in America, in Africa, in Asia, in Oceania. Si cominciò sbandierando la parola di Cristo, l’evangelizzazione, che quanto meno si sapeva cosa fosse, si è approdato ai “valori” e alla “democrazia”, che non si sa bene cosa siano. -Ben altra cosa rispetto agli autentici valori che legittimavano sia pure a posteriori l’imperialismo romano: la pace, la legge, l’ordine, la libertà di professare qualsiasi credo.
E, a proposito di Roma antica, è particolarmente sgradevole l’atteggiamento dei politici italiani – Tajani in testa – che animati da patriottismo europeo smaniano di sciogliere l’Italia nel calderone di Bruxelles ma sono disposti a rischiare l’apocalisse nucleare per salvare l’integrità territoriale di uno Stato nato un secolo fa per volontà di Lenin con confini del tutto arbitrari disegnati a tavolino e successivamente rimpolpato grazie a Krusciov con la Crimea russa. Sgradevole ma mi vien da dire repellente quando mi risuonano negli orecchi i versi d Rutilio Namaziano che di fronte allo sfacelo provocato dalle invasioni e dalla cristianizzazione rivendica la grandezza dell’Italia “domina rerum”, una dalla “terra dei liguri” alla Sicilia, voluta e protetta dalla Provvidenza divina (non quella cristiana). Quell’Italia che si identifica con la Roma celebrata da Orazio nel pieno fulgore dell’impero, da Rutilio negli anni della catastrofe, dal Petrarca agli albori della sua rinascita civile e culturale fino all’appassionata dichiarazione d’amore di Vincenzo Monti e alla rabbia impotente di Giacomo Leopardi alla vigilia della ritrovata unità politica. Sono insieme cantori e testimoni di una realtà storica, civile, culturale -“una di lingua, di memorie, di sangue e di cor (ho saltato l’arme e l’altare)” come dice Manzoni, che solo la stupidità e l’ignoranza della autoproclamatasi classe dirigente può negare.
Insomma nonostante la varietà delle usanze locali, dei dialetti, delle radici, delle stesse caratteristiche antropologiche non esiste altro Paese in Europa che possa vantare una tradizione nazionale come quella italiana come non c’è lingua di cultura che possa stare alla pari con l’italiano. La furia antipatriottica e antirisorgimentale della sinistra (e non solo), la retorica dell’antiretorica del mainstream e soprattutto la crassa ignoranza che accomuna politici, opinionisti e, ahimè, accademici ha fatto sì che l’Italia, a differenza del Giappone e della Germania, rimanesse schiacciata dalla sconfitta e dallo stigma del fascismo. E alla irrilevanza politica si è aggiunta quella culturale culminata nella marginalizzazione della lingua di fronte non solo all’inglese ma al francese e al tedesco.
Ben venga allora il ritorno del latino nella scuola media se inizio di una inversione di tendenza che restituisce alla scuola la sua funzione di formazione nazionale. Non ho motivo di dubitare delle buone intenzioni e della buona fede di Valditara. Ma devo chiudere gli occhi, tapparmi le orecchie e turarmi il naso per non vedere e non sentire di che pasta sono fatti i politici italiani a cominciare da quelli dai quali dipende la realizzazione (loro dicono messa a terra) di quella inversione di tendenza. Ed è purtroppo illusorio che un ceto politico autoreferenziale formato da gente che si è buttata in politica per arricchirsi, priva di letture, di idee, di principi, gente che secondo le circostanze e le opportunità si è servita di un partito piuttosto che di un altro, possa impegnarsi per salvaguardare l’identità nazionale che ha contribuito a distruggere..
Infatti la cattiva politica, che ha bisogno dei media per mantenere il consenso e dell’accademia per accreditarsi, ha okkupato gli uni e l’altra provocando una reazione a catena: i giornalisti sono diventati gli scrivani del potere e i sacerdoti del pensiero unico, nelle università imperversano i politologi, vale a dire gli scienziati del nulla, e le humanae litterae si sono dissolte provocando la dissoluzione del sistema formativo di base che alla lunga ha compromesso la funzione formativa della famiglia. La mossa di Valditara potrebbe essere il segno della volontà di frenare questa deriva se fosse parte di un disegno strategico ma l’irrilevanza del ministro in una compagine governativa a dir poco imbarazzante rende poco plausibile questa possibilità.
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