Il regime compassionevole dalla lacrima facile quando fa comodo per annebbiare la vista

Sono ornai più di due settimane che prime pagine e telegiornali, per non dire dei programmi di cosiddetto approfondimento, sono occupati dalla tragedia di Crotone, dove un carico pieno di clandestini è andato a infrangersi nelle secche spezzandosi e almeno 72 persone sono morte annegate. Da uomo di mare sono allibito dal fatto che si possa azzardare una traversata dalla Turchia all’Italia in pieno inverno con 200 persone stipate in una barca nata per portarne al massimo un decimo e che con mare formato si faccia rotta e si tenti l’approdo su una spiaggia e non dentro un porto, foss’anche un porticciolo turistico. Prima degli scafisti dovrebbe essere arrestato per procurata strage, se scampato al naufragio, chi era al timone dell’imbarcazione. Detto questo, trovo abominevole che se ne tragga pretesto per attaccare non il governo, che sarebbe già grave, ma una sua componente, quella leghista, facendo leva sulla pietà che si deve alle vittime. Pessimo esordio per la nuova dirigenza piddina e conferma dell’inconsistenza non dico politica ma intellettiva del movimento Cinquestelle e del suo leader.
Che non si accorge che la clava della magistratura pende sulla sua testa come su quella del governatore lombardo o dei ministri leghisti. E che ancora una volta da un’inchiesta giudiziaria trarrà vantaggio il Pd, confermando il sospetto – sicuramente infondato – che la magistratura sia uno strumento di cui all’occorrenza il partito può sempre disporre. Dovrebbe essere chiaro a tutti, lippis atque tonsoribus, che il regime sotteso alla politica manifesta deve mettere a cuccia i sovranisti, quelli di una parte e quelli dell’altra e che il Pd ne è un interprete affidabile finché riesce a compattare l’opposizione (apparente) tenendosi stretti i grillini addomesticati e ridotti al rango di gregari.

Schlein e Conte

A quel punto, fatta fuori la Lega, il gioco è fatto. Infatti quel che interessa ai padroni di quest’Italia asservita è il convinto e compatto asservimento, che la maggioranza a cui è stato affidato questo ruolo non può garantire finché c’è il rischio che Salvini esca dal coma e faccia da sponda al Berlusconi che una mattina si alzi col piede sbagliato. Ma non può garantirlo nemmeno l’opposizione che ha passato il testimone della fedeltà atlantica alla Meloni se non si scongiura la possibilità che venga risucchiata dall’alleato grillino dato per morto alla vigilia delle elezioni e rianimato non dolo dal reddito di cittadinanza ma soprattutto dal seppur cauto dissenso sulla politica estera prima draghiana e ora meloniana. Quanto al rapporto fra i Fratelli d’Italia e i compagni piddini, se è vero che l’amico del mio nemico sovranista è mio nemico è anche vero che l’amico del mio amico americano è amico mio, anche se in pubblico fingiamo di fare a botte; e Il Pd e FdI fingono di fare a botte su questioni come la povertà, l’ambiente o l’immigrazione illegale alle quali nessuno dei due è in grado di dare altra risposta che non sia quella di coprirle con una coltre di chiacchiere mentre sono perfettamente allineati – e inchinati – davanti all’Europa, alla Nato e allo zio Sam.

Meloni e Schlein

Tre manifestazioni di un’unica divinità dai tanti nomi: la grande finanza, l’economia virtuale, la globalizzazione, l’imperialismo americano, che dall’empireo in cui il denaro si smaterializza, diventa sostegno di se stesso, causa prima e motore immobile del sistema delle transazioni, dei traffici, della produzione e dei consumi, divora l’ambiente, distrugge le diversità, mortifica lo spirito, trasforma le persone in zombi bulimici in perenne movimento, incapaci di fermarsi e di alimentare la propria esistenza con la linfa delle proprie radici. È il benessere, bellezza, è l’Occidente, la nostra civiltà, ci dicono. No, è la perdita della civiltà, regressione, analfabetismo culturale di massa e soprattutto infelicità e spreco. Spreco non solo di cibo, di risorse energetiche, di materiale ma della stessa opportunità che ci è data di vivere in modo appagante, di godere di quel che si ha e di quel che si è. Paccottiglia, volgarità, perdita del senso del bello quando tutto va bene.

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Ma in quel sistema di traffici, transazioni, produzione e, perché no, ricerca e tecnologia, l’industria bellica ha un ruolo trainante, che si alimenta per un verso con la tensione e lo spettro di un conflitto globale per un altro con la sperimentazione e il consumo sul campo di conflitti locali nella periferia del pianeta, di cui da noi arriva solo un’eco flebile che lascia l’opinione pubblica del tutto indifferente. Poi però accade che nell’empireo qualcosa si inceppa, la moneta impalpabile rischia di doversi mostrare in tutta la sua nuda materialità e i conflitti locali non solo non bastano più ma rischiano di rafforzare la concorrenza aliena. Diventa impellente riequilibrare il mercato globale attraverso una riorganizzazione geopolitica che parte dall’Europa, il cui asse va spostato verso est per spezzare le reni all’orso russo e stringere in una morsa il gigante cinese. Ossigeno per l’industria bellica e il suo indotto, grosso affare per chi dispone di fonti energetiche alternative a quella russa ma anche rischio che quegli zombi bulimici messi a dieta comincino a dare segni insofferenza. Ed ecco che scattano le contromisure per distrarli: una partenza in grande stile, bisogna riconoscere, con gli anarchici che devastano i centri cittadini sobillati da un governo che attraverso i media dà il massimo risalto al digiuno di Cospito e per provocarli incrudelisce su di lui oltrepassando i limiti di uno stato di diritto, il ritorno della piazza antifascista innescata da un pretesto ridicolo, una piazza in cui si è ricucito lo strappo fra Pd e Cinquestelle e dove viene impunemente consumato il reato di incitazione all’odio, alla violenza e addirittura all’omicidio (“uccidere un fascista non è reato”, scandivano i giovani studenti dementi e analfabeti che purtroppo diventeranno gli adulti di domani) senza che la magistratura ci trovi niente da ridire. E infine il boccone ghiotto della tragedia del mare, con l’opposizione che attacca e il governo che si difende e piagnucola ma è per tutti un ottimo distrattore e spalanca le porte a una spaventosa ondata di clandestini. Insomma il governo e finta opposizione sono terrorizzati dall’idea che gli zombi col morso della fame ritrovino vita e raziocinio e prendano coscienza dell’abisso verso il quale li stanno portando i signori della guerra col contributo fattivo della banda Crosetto. In tutto questo i media danno il peggio di sé senza che ci sia bisogno di veline o di esplicite minacce. Tutti convinti che l’integrità territoriale di uno Stato costruito a tavolino debba essere difesa a tutti i costi, che la guerra potrà finire solo, come dice la Meloni, con una pace “giusta” (giusta è la pace che piace a Zelensky) altrimenti è bene che ucraini e russi continuino ad ammazzarsi fra di loro e che città e villaggi vengano rasi al suolo, tanto poi a ricostruire ci penseranno anche le nostre aziende. E fin qui sarebbe già una cosa infame, se solo si riflette sul fatto che non si ventila nemmeno l’ipotesi di un referendum che faccia decidere agli abitanti delle repubbliche del Donbass con chi vogliono stare (non dico della Crimea, della quale solo un imbecille può mettere in dubbio l’appartenenza alla Russia). Il problema però solo in apparenza riguarda i confini dell’Ucraina perché nella sostanza quello in atto è un conflitto fra Nato e Russia le cui origini vanno cercate nell’implosione del’Unione sovietica e nel tentativo occidentale di dividersene le spoglie. Un tentativo che poteva avere qualche speranza di successo con Gorbaciov, che dell’Urss e del comunismo è stato il becchino, o con Eltsin, umanamente inaffidabile, ma non con Putin, l’uomo che lo stesso Eltsin ha avuto il merito – per i russi – di allevare. Ed è con Putin, che ha sottratto la Russia agli oligarchi e l’ha risollevata sotto il profilo economico, sociale e militare, che la Nato e l’Ue hanno dovuto fare i conti quando con la presidenza Obama quel tentativo si è rinnovato e si sono fomentate manifestazioni di piazza contro il presidente ucraino Viktor Yanukovych, colpevole di resistere alle pressioni interne delle bande neonaziste filoccidentali e liquidato con un colpo di stato eterodiretto.

Viktor Yanukovych

Era il marzo 2014 e l’immediata reazione russa colse di sorpresa i vertici Nato: il governo regionale della Crimea – regalata nel 1954 da Krushev ai compagni di Kiev -, forte del sostegno del Cremlino, indisse un referendum per decidere se tornare alla Russia o restare sotto l’Ucraina: il risultato del voto – del cui regolare svolgimento furono testimoni anche osservatori italiani – fu un plebiscito: siamo russi e vogliamo esserlo a tutti gli effetti e la Russia, nonostante i belati di Barroso e di Obama, si impegnò perché fosse rispettato. Contemporaneamente nelle oblast russofone di Doneck e Lugansk che si erano dichiarate indipendenti si scagliò la rabbia dei nuovi padroni dell’Ucraina con eccidi che videro come principali attori gli uomini del cosiddetto battaglione Azov e come regista Petro Poroŝenko, che dichiarava apertamente di voler annientare gli ucraini filorussi. Zelensky, che aveva vinto le elezioni del 2018 con la promessa della pacificazione, una volta eletto, spinto dall’Ue e dalla Nato, ne proseguì la “politica” – mi suscita ribrezzo chiamarla così – fino al fatidico 24 febbraio dello scorso anno, quando Putin, prendendo ancora una volta in contropiede l’alleanza occidentale che si illudeva di averlo messo all’angolo, dette inizio all’operazione militare speciale per la liberazione del Donbass. La risposta di Mosca, progressivamente accerchiata, può apparire tardiva rispetto al 2014, quando alla già delicata questione dell’invadenza americana nelle vicende interne all’Ucraina si aggiunse il fattore scatenante della repressione della minoranza russa. In questi otto anni Putin era consapevole che né l’amministrazione Obama né Trump avrebbero tirato la corda fino a strapparla; ma con Biden alla Casa Bianca e i falchi a capo della Nato ha pensato bene di intervenire prima che gli ucraini sferrassero un attacco decisivo contro le repubbliche separatiste del Donbass per poi occupare la Crimea con l’aiuto diretto della Nato. Che una simile operazione fosse pianificata e concertata con i vertici europei è difficile dirlo; resta il fatto che se c’era un piano la mossa di Putin lo ha scompaginato. Buon senso a questo punto avrebbe voluto che la parola passasse alla politica e alla diplomazia, che gli Stati Uniti uscissero allo scoperto e con un accordo diretto con la Russia si ponesse fine all’espansione della Nato, si garantisse la neutralità dell’Ucraina e si arrivasse finalmente a una definizione ufficiale e condivisa dei suoi confini dopo una nuova consultazione elettorale nelle regioni contese da tenersi questa volta sotto l’egida delle Nazioni unite. Ma al buon senso sfuggono le ragioni vere del conflitto, che poco hanno a che vedere con quei confini e con i problemi di nazionalità ma rinviano alla necessità di ritoccare l’assetto geopolitico mondiale per impedire che l’economia americana, non potendo più espandersi, finisca per soffocare. E quei ritocchi prevedono un ridimensionamento politico, militare e verosimilmente territoriale della Russia in vista di un confronto diretto con la Cina. Una diga allo straripamento dello yuan con l’obbiettivo di isolare il Dragone, frenarne la crescita economica, tagliarne i tentacoli che da tutta l’Asia si allungano sul continente africano e neutralizzare il naturale legame euroasiatico incompatibile con la dipendenza politica militare e finanziaria dell’Europa dagli Stati Uniti.

Una strategia che presuppone un’ottica grossolanamente manichea, tesa ad impedire con tutti i mezzi un mercato policentrico, il ritorno all’economia reale, alle monete nazionali, al contenimento dei consumi e degli sprechi e a bloccare i processi di aggiustamento nelle aree instabili del pianeta. Lungi da me l’auspicio che la dipendenza dagli Usa venga sostituita con la dipendenza dalla Cina; lo strapotere economico della Cina è un effetto perverso dell’imperialismo americano e del venir meno delle sovranità nazionali. Gli Stati Uniti hanno bisogno di una ipersemplificazione della geopolitica: un quadro politico articolato e dinamico ne mette a repentaglio l’assetto economico interno e il ruolo di superpotenza. È un fatto che dopo la seconda guerra mondiale si è creato un mostro che ha completamente stravolto la dialettica degli stati, delle culture, delle diversità che per secoli hanno contrassegnato il processo – evito intenzionalmente di chiamarlo progresso – della civiltà umana. Che, per carità, non è di certo un paradiso perduto ma è fatto anche di guerre, eccidi, prevaricazioni, calamità, tragedie, equilibri che continuamente si alterano per poi ricomporsi; ma quel mostro in continua crescita porta non solo all’appiattimento, all’omologazione, alla perdita di identità ma alla fine della civiltà, all’annientamento. Chi o che cosa può fermarlo? Non faccio neppure l’ipotesi che a fermarlo sia una conflagrazione totale, che segnerebbe la fine della vita sulla terra, una cosa di cui non si rendono conto i mentecatti ai vertici della Nato e di governi come il nostro. Se gli dei ci proteggeranno saranno gli stessi americani a bloccare la crescita di quel mostro e a farlo rimpicciolire, magari col ritorno di Trump alla presidenza. L’ America agli americani, tuonava James Monroe; che l’Europa, vivaddio, con tutte le sue diversità, torni agli europei e che ogni popolo del pianeta sia padrone di se stesso!

Pierfranco Lisorini

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