Il punto di Alberto Bonvicini: Sembrava guarito. Poi il vuoto: il lato più subdolo della depressione
La rubrica firmata da Alberto Bonvicini, già comandante della Polizia Postale di Savona, ci accompagnerà con riflessioni dedicate all’impatto dei social network, di internet e delle nuove tecnologie sulla nostra società.
Con lo sguardo esperto di chi ha vissuto in prima linea l’evoluzione (e le derive) del mondo digitale, Bonvicini ci offrirà analisi lucide e senza filtri su temi che toccano da vicino il nostro quotidiano: dalle devianze giovanili alla cultura dell’emulazione, dal web come strumento educativo o distruttivo fino al lento smarrirsi del senso critico.
Uno spazio di pensiero libero, per leggere con occhi diversi quello che ci succede intorno
Sembrava guarito. Poi il vuoto: il lato più subdolo della depressione
Quando si parla di depressione, bisogna essere informati, comprendere, avere il coraggio di affrontare situazioni che spesso risultano scomode, impertinenti o perfino invasive. Questo perché il “mal di vivere”, presente fin dalla notte dei tempi, è un dramma silenzioso: un serpente invisibile che colpisce rapido come un cobra quando si raggiunge il limite massimo, oltre il quale c’è solo il salto nel buio.
Quando una persona — che sia un conoscente, un amico o un familiare — ti dice o ti fa capire di sentirsi con “un groppo in gola”, è fondamentale non perdere l’attenzione. Spesso, dopo un po’, la tendenza è quella di banalizzare: “Non ha un tumore”, “Non ha perso il lavoro”, “Non si è rotto la schiena”, e così via. Non vedendo nulla di visibile o permanente, si finisce per pensare che stia esagerando.

PUBBLICITA’
Ci si rifugia in frasi come: “Ai miei tempi non succedeva” o “La gente oggi ha troppe fisime”. Tutto comprensibile, certo, ma l’indifferenza resta la reazione peggiore, verso giovani e adulti.
Affidarsi ai farmaci o, nei casi estremi, al ricovero psichiatrico o al TSO può essere utile per evitare pericoli immediati. Tuttavia, una volta superato l’effetto acuto, il mare torna a farsi agitato. Giorni più difficili si alternano ad altri più sereni, ma la tempesta emotiva resta in agguato, pronta a riemergere in qualunque momento, complice anche il maltempo o una giornata particolarmente uggiosa.
È qui che entra in scena l’amico, il familiare, la persona attenta che, senza giudicare, coglie i segnali e prova a trasformarli in qualcosa di utile, prendendo in mano la situazione. Mi colpì molto, negli anni, la spiegazione di un grande luminare del settore. Descrisse la depressione come un abbraccio invisibile e mortale: a tratti impercettibile, a tratti opprimente, sempre in agguato. L’imprevedibilità — spiegava — è il tratto più pericoloso: si può stare apparentemente bene, sentirsi “guariti”, e precipitare poi all’improvviso in un buco nero, subdolo come una buca nascosta in un prato verde e morbido.
Il professore sottolineava che non dare alcun segnale può essere il segnale più grave. Infatti, molte tragedie accadono proprio dopo periodi di apparente serenità e recupero. Si può precipitare anche in momenti felici, durante una prospettiva positiva, un viaggio imminente o dopo aver ricevuto un bel regalo. È come un killer alle spalle che spegne la vita per sempre.
Non è raro che, nelle cartelle mediche di chi ha messo fine alla propria vita, si legga la scritta “paziente guarito”. Proprio per questo motivo — come spiegava quel professore — il dolore può colpire anche all’improvviso, come nel recente e drammatico caso della madre di Misterbianco che ha lasciato cadere la sua bambina dal balcone. In quel momento, la donna si è trovata circondata, braccata, e ha visto nel buco nero l’unica via d’uscita.
Quando il male colpisce solo sé stessi, è già tragico, ma quando coinvolge anche un bambino, diventa crudele, straziante e lascia un senso di rabbia e impotenza. Ancora più terribili, in questi casi, sono le parole dei testimoni, come il farmacista che ha descritto la bambina come un “piccolo bambolotto”, o i vicini che parlavano dei problemi psichiatrici della madre.
E allora, cosa fare? Bisogna agire subito, senza trascurare alcun segnale. Serve coraggio, anche a costo di risultare invadenti o fastidiosi. È necessario coinvolgere familiari, amici, zii, nonni: chiunque possa offrire una presenza e un supporto. A volte, anche una piccola bugia — “Te la tengo io perché mi fa compagnia” — può salvare una vita.
Non dimentichiamo mai che, come recitava uno slogan degli anni ’80, “una telefonata salva la vita”. Una presenza concreta può scacciare ombre e spettri. La solitudine, invece, è il peggior alleato di queste patologie.
Esistono migliaia di casi, anche tra persone celebri, che si sono salvate grazie a un intervento tempestivo. Altri, purtroppo, no. Cito, tra questi, l’attore Libero De Rienzo — che ebbi modo di conoscere grazie al padre, il giornalista Fiore De Rienzo — e Olga Cerise, una madre che, per delusioni affettive, scelse di porre fine alla propria vita portando con sé le sue due piccole creature. Forse, in quel tragico momento, loro pensavano solo di fare il bagnetto con la mamma. Non sono più tornati.