Il punto di Alberto Bonvicini: 47… morto che parla

La rubrica firmata da Alberto Bonvicini, già comandante della Polizia Postale di Savona,  ci accompagnerà con riflessioni dedicate all’impatto dei social network, di internet e delle nuove tecnologie sulla nostra società.
Con lo sguardo esperto di chi ha vissuto in prima linea l’evoluzione (e le derive) del mondo digitale, Bonvicini ci offrirà analisi lucide e senza filtri su temi che toccano da vicino il nostro quotidiano: dalle devianze giovanili alla cultura dell’emulazione, dal web come strumento educativo o distruttivo fino al lento smarrirsi del senso critico.
Uno spazio di pensiero libero, per leggere con occhi diversi quello che ci succede intorno

47… morto che parla

Capita a tutti di tornare a casa stanchi, mangiare un toast al volo perché non si ha proprio voglia di prepararsi la cena. A me succede spesso, con mia madre che ha già cenato e il cane che ha il suo menù rapido.

Quel toast l’ho mangiato mezzo sdraiato, con una bottiglietta d’acqua e il telecomando pronto, preso in anticipo per evitare la fatica di dovermi rialzare. E in quei momenti, capita che il tempo rallenti e il pensiero corra. Per esempio, al fatto che ormai sono passati 47 anni da un giorno che è stato tutto tranne che normale. Oggi quella data sembra diventata quasi un fastidio, buona giusto per portare una corona di fiori o farci l’ennesimo servizio televisivo di circostanza. Due minuti sono troppi, meglio dedicarsi alle calamite di Vittorio Brumotti o ai monologhi da supereroe  Capitano Ventosa.

Vi chiederete: ma di cosa stai parlando? Scusatemi. Ora ve lo dico.

Il mio racconto si riferisce alla sera del 9 maggio 2025, ovvero al 47º anniversario del ritrovamento del cadavere dell’onorevole Aldo Moro. Non è un azzardo, considerando ciò che seguirà, intitolare questo tributo proprio come un vecchio proverbio, o un film di Totò: “47… morto che parla”. Ma stavolta, quel morto ha ancora qualcosa da dire.

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In un doveroso sussulto di gratitudine verso un uomo coraggioso, onesto, volenteroso e intraprendente, voglio lasciare spazio alla sua voce. Come se lui fosse qui, in questa breve riflessione, presente in spirito. Perché questa tragedia italiana ha colpito il cuore del nostro Paese, e molti – come me – ricordano esattamente dove si trovavano la mattina del 16 marzo 1978, quando tutto iniziò.

Io, ad esempio, ascoltando tempo fa le parole di Marco Biagi, mi ricordai all’istante del mio insegnante di italiano, professor Fiorito. Era il momento di entrare in aula per la seconda ora. Aveva ancora la bocca mezza sporca di uovo sbattuto con lo zucchero, che le preparava sua madre. Diceva sempre: “Bonvicini, Bianco, Celentano e Cervetto, preparatevi che tra poco interrogo!”.

Ma quella mattina, la professoressa di geografia – la Vivalda, appena uscita dalla prima ora – rientrò in classe, chiedendo attenzione. Annunciò che, pochi minuti prima, a Roma, in via Fani, c’era stato un assalto delle Brigate Rosse. La scorta dell’onorevole Moro era stata sterminata. Moro era stato rapito.

Le interrogazioni saltarono. Ne nacque un piccolo dibattito, e – incredibile ma vero – persino noi ragazzini di seconda media riuscimmo a dire qualcosa di sensato. Di solito si parlava della Juve, di Villeneuve, delle racchette di Borg o dei jeans strettissimi della supplente del corso femminile nel corridoio laterale. Ma quel giorno no.

Qualcuno chiese: “Perché lo hanno rapito? Per chiedere un riscatto?”
E un altro rispose: “Ma non è mica Agnelli… perché hanno ucciso tutti gli altri? Non bastava puntare un mitra?”

Domande ingenue, sì, ma non così scontate. Perché Moro non era ricco, almeno non nel senso moderno del termine. Era stato rapito per una ragione politica, per quel compromesso storico che stava cercando di costruire con pazienza, includendo il PCI nell’azione di governo. Una mossa inaccettabile per molti, in Italia e fuori. Lo si diceva già allora.

Moro e Kissinger

Alcuni sostengono che Kissinger, in persona, gli avesse detto: “Se fai il compromesso storico, non sai cosa ti succede”. Ma una minaccia del genere, all’epoca, sarebbe sembrata troppo imbarazzante da denunciare apertamente. La verità è che Moro – nelle sue lezioni all’Università La Sapienza – diceva ai suoi studenti: “Non lasciatevi usare da nostalgici del passato che vi spingono all’estremismo per puro egoismo ideologico”. Un modo elegante per dire: attenti ai burattinai.

Moro, spesso ritratto con le mani giunte, il capo chino, era in realtà un uomo forte, più di tanti altri che si atteggiavano a “forti”. Aveva capito che già dal ‘68 si stava formando una palude oscura: politici decaduti, ufficiali messi da parte, salotti influenti e logge potenti che volevano manipolare i giovani e destabilizzare il sistema – da sinistra come da destra.
Feltrinelli parlava di resistenza armata, ma anche dall’altra parte si preparava il caos.

Dopo l’attentato di Piazza della Loggia, Moro disse a Saragat“La nostra è una democrazia giovane e ha bisogno di aria per respirare”. Ma quella stessa aria stava diventando irrespirabile. Lui sapeva chi c’era dietro, ancora prima che si parlasse di Gladio, servizi deviati, loggia P2.
Era un uomo che ascoltava tutti, ma decideva secondo coscienza. Tutte le mattine andava in chiesa, solo, con al massimo il maresciallo Leonardi. E sua moglie, Adele, disse subito: “Bastava aspettarlo in chiesa e non sarebbe morto nessuno”. Ma non fu così. Per farne un “esempio”, ci voleva un’azione spettacolare e crudele.

In quei giorni ci furono lettere, trattative, veggenti, anonimi, persino soldi raccolti per un riscatto. Tutto inutile. In una delle sue ultime lettere, Moro scriveva: “È inutile bussare o suonare a una porta se sai che sono in casa ma non ti vogliono aprire.”

Una frase che dice tutto. Rabbia, lucidità, disperazione. Una frase che spiega perché fu lasciato morire. Tanto le B.R. c’erano già, il nemico perfetto. E tutti poterono dire: “Abbiamo provato, ma non c’è stato niente da fare.”

Mi piace ricordare anche il suo affetto per il nipotino Luca, che nei giorni del sequestro era proprio a casa sua, ospite. Una vita semplice, senza gossip, senza apericene, senza selfie con i VIP. Una vita dedicata seriamente alla politica, al servizio della comunità, non ai like e agli slogan.

E vi lascio con un quesito. In un’Italia in cui i politici avevano tutti più di 60 anni, come mai la telefonata agghiacciante in cui si annunciava dove si trovava il cadavere di Moro fu fatta a un ragazzo di nemmeno trent’anni, Franco Tritto? Non a un senatore, non a un ministro. A lui.
“Eh, ma i telefoni erano tutti intercettati…” – risponderanno.
Certo. Ma quello di Tritto no?

Franco Tritto e Moro

Forse, parlare di Moro era diventato pericoloso già prima del suo rapimento. Forse lo era ancora dopo. Forse lo è ancora oggi.

Ma che Dio lo abbia in gloria. E che il suo sacrificio non venga mai più ignorato. Perché, come diceva Totò, ma anche la verità:

47… è morto che parla. Ma parla ancora.

Alberto Bonvicini 

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