Il potere delle parole

Il potere delle parole
Lo stile del linguaggio  indica la modalità con cui ci proponiamo al mondo

Il potere delle parole
Lo stile del linguaggio  indica la modalità con cui ci proponiamo al mondo

Che siano scritte o verbali le parole ci circondano: con queste costruiamo dialoghi, facciamo arte, speculiamo filosoficamente, intessiamo relazioni e stabiliamo rapporti di forza.

Lo stile del linguaggio (che compone la comunicazione insieme ad altri elementi) indica la modalità con cui ci proponiamo al mondo.

Semplice, ricercato, criptico, fluido, direttivo, pragmatico o debordante:

per certo siamo -o dovremmo essere- molto consapevoli delle ragioni per le quali ne scegliamo uno piuttosto che un altro. 

Facciamo un esempio di comunicazione, e nello specifico di comunicazione istituzionale. 

Chi ha avuto modo di attendere l’arrivo di un treno in stazione ha certamente ascoltato dagli altoparlanti la voce registrata che -oltre a comunicare l’arrivo o la partenza dei treni- snocciola una lunga e continuativa sequela di “istruzioni”;

queste contengono sempre ed in modo ossessivo la parola “vietato”,  spesso rafforzata da “severamente”: attraversare i binari, sostare, aprire le porte delle vetture, superare la linea gialla, ingombrare, salire o scendere, ecc. ecc.

Non vi è dubbio che vi siano regole da rispettare, ma il ricorso così pedante al concetto di divieto è significativo e colloca il viaggiatore in una condizione di asservimento e di subordinazione degno di un sistema totalizzante, come una caserma o un carcere.

Crea cioè un rapporto di forza, assurgendo la fonte come autorevole/autoritaria e designando il ricevente come passivo. Spesso, come nel caso citato, un passivo (viaggiatore) accompagnato da un vissuto di sconforto e rassegnazione causato da peripezie inenarrabili, che solo poche volte riesce ad assumere un connotato ribellistico. Confermando la disparità: difatti il cittadino, che non è più né utente né cliente, è trattato al pari di un bambino probabilmente disobbediente, al quale non restano che due strade: assoggettarsi o ribellarsi di fronte ad una autorità che diventa intollerabile.

Anche la comunicazione a contenuto politico negli ultimi anni sta seguendo la stessa sorte, e le condizioni drammatiche nelle quali ci ritroviamo come Società, non sembrano autorizzare il cittadino a sentirsi parte attiva ma semplice spettatore (quando va bene) o oggetto terminale di una lunga sequela di obblighi e azioni vissute come coercitive o addirittura persecutorie.

Ed anche questa volta l’autorevolezza politica non è riconosciuta né percepita come riferimento affidabile e credibile (non si contano le battute alle recenti nomine governative di personaggi con ruolo di controllori della spesa pubblica che godono di emolumenti che in un mese annoverano gli stipendi annuali medio alti di un lavoratore).

         Se è vero che la nostra Costituzione indica il “popolo come sovrano”, è altrettanto vero che esso non governa, ma agisce questo ruolo attraverso la delega esercitata col voto.

Le dichiarazioni, e quindi lo stile e le parole utilizzate in questi mesi dall’attuale governo, ci indicano con chiarezza i rapporti di forza, neppur calmierati da presenze parlamentari.

Si pensi -a puro titolo esplicativo- alle dichiarazioni recenti della ministra Fornero a Torino.

Gli esempi sono molti e tutti sembrano indicarci un capovolgimento sostanziale del ruolo delle persone, dei cittadini, che da “sovrani” si ritrovano -loro malgrado- sudditi. 

La campagna elettorale di queste amministrative è un altro fulgido esempio del linguaggio usato per designare -occultandoli- i rapporti di forza.

Parole o concetti come “insieme”, “con voi”, “uno di voi” e similia sembrano voler dare la sensazione di un coinvolgimento alla pari.

Ma in realtà rivelano l’esatto opposto.

Se infatti una formazione politica organizzata, come un partito, si presentasse alle elezioni dopo  aver agito in precedenza quello che potremmo definire un ruolo di coinvolgimento democratico dei propri aderenti e simpatizzanti non avrebbe nessuna ragione di richiamare concetti come “insieme”, (in quanto già risolto) poiché l’unico vero obiettivo sarebbe quello di farsi riconoscere, in quanto “rappresentativi” attraverso il marchio, il logo, il simbolo e anche le persone più rappresentative.        

         Si viene invece a creare una condizione nella quale l’elettore è consumatore di un evento, appunto la partecipazione al voto, senza aver modo e ragione di condivisione delle fasi precedenti e successive.

E si riprodurrà la forbice, la distanza tra l’elettore magari occasionale e chi agisce le leve del potere politico. 

         Ancora una volta il rischio è quello di comportamenti di ribellione (movimenti?), che contestano il rapporto di forza, ma -paradossalmente- lo confermano. 

Ma come tutte le relazioni umane, nelle sue specificazioni (sociali, politici, culturali, amorose, ecc), per agirle occorre essere in due: cioè a dire che rompere il rapporto di forza è possibile scegliendo, strutturando e agendo un piano completamente diverso, non episodico o causale, sottraendosi così al gioco perverso dominante/dominato.

Patrizia Turchi

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