Il PD sembra procedere in “direzione ostinata e contraria” dalla sua funzione originaria

Il PD sembra procedere
in “direzione ostinata e contraria”
dalla sua funzione originaria

Il PD sembra procedere in “direzione ostinata e contraria” dalla sua funzione originaria

Se scorriamo il dizionario della lingua italiana, o il dizionario dei sinonimi, e cerchiamo il significato delle parole “fedeltà” e “lealtà”, troviamo che, in taluni casi, tra le due parole ci può essere una alta affinità di significato, mentre in altri emerge una profonda differenza.

Si può essere fedeli senza essere leali, così come si può ritenere la lealtà un valore assoluto, che supera e travalica la stessa fedeltà, che, invece, si riferisce normalmente ad un sentimento, un afflato, verso qualcuno o verso qualcosa.


Si può mentire per la fedeltà, anzi a volte è necessario farlo. Non si mente per lealtà.

Molto spesso, in questa fase, mi sono trovato a riflettere su queste due parole, fedeltà e lealtà,  applicate alla politica, ai partiti, ai “modelli di partito”.

Ecco, mi sembra che la fedeltà si attagli meglio ai partiti personali, o con una fortissima impronta personale, mentre la lealtà sia più distintiva dei partiti con un alto tasso di dialettica interna e con una identità culturale prodotta dalla dinamica della dialettica democratica.

I partiti sono cambiati molto in questi ultimi 20 anni. E la differenza non è organizzativa, non insiste sullo stato “solido” o “liquido”, o sulla consistenza “leggera” o “pesante”.

E’ la loro funzione che si è radicalmente mutata.

E, in questa mutazione, quelle due parole hanno un loro peso. Su cui tornerò più avanti.


Il PCI aveva una norma di comportamento che si definiva “centralismo democratico”. La descrivo utilizzando le parole di Enrico Berlinguer del 1978: “ Questo principio non vuole assicurare unanimismo preventivo, ma è il metodo per garantire alla fine, dopo un confronto democratico su tutte le possibili alternative, l’indispensabile unità nell’orientamento e nel lavoro concreto del partito”

Il “centralismo democratico”, peraltro, era nato come  un tratto distintivo della struttura dei partiti comunisti, ideato e forgiato da Lenin, per assicurare la disciplina nel partito dei “rivoluzionari di professione”.  Il PCI, che da molti anni interpretava il suo essere comunista in modo originale, lo utilizzò non per garantire forme di fideismo (che pure esistevano), ma per cercare di condurre ad una unità le anime e le culture diverse che animavano il partito e che la scelta democratica e parlamentare che aveva compiuto, già da decenni, aveva sviluppato al suo interno.

Il centralismo democratico agiva quindi non da “compressore” delle identità, ma come strumento per definirne una nuova, che fosse la mediazione, virtuosa, di quelle esistenti. Si impediva la organizzazione delle correnti, proprio per evitare che le diversità si cristallizzassero inibendo la ricerca continua della identità nuova.

Poi, senza essere ipocriti, bisogna riconoscere che il PCI, pur non essendo un partito di quadri e dirigenti, ma avendo scelto la natura di partito di massa, era in realtà un partito fortemente elitario, con una selezione interna e una accessibilità degli organi dirigenti assai controllata e frutto di cooptazione e che le correnti, anche se non organizzate, esistevano eccome.

Era peraltro un partito molto “solido”, con una struttura organizzativa articolata e “pesante”, coerente ad un contesto sociale molto strutturato, nel quale le classi erano nettamente riconoscibili e i loro confini chiaramente definiti. Si agiva in un mondo nel quale la comunicazione era veicolata da pochi strumenti e i partiti erano tra questi.


L’altro grande partito di quel mondo era la DC. Totalmente diverso, ma anche assai simile, essendo a sua volta un partito di massa. Chiaramente la struttura del partito DC, articolato in correnti organizzate, rispondeva meglio alle due necessità che rendevano la DC centrale nel paese: la sua natura interclassista e la conseguente funzione di perno di tutti i governi prodotti da quel sistema politico “bloccato”.  Le correnti, oltre che strumenti per la gestione del potere interno (a volte con logiche deteriori), garantivano quindi anche quella funzione di rappresentanza universale  e trasversale di cui la DC era capace e che il PCI nemmeno cercava.

Questi partiti avevano un radicamento territoriale consistente e erano i centri nei quali si decidevano le scelte strategiche di governo sia locali che nazionali.

A Savona il PCI è stato la forza di governo principale dal dopoguerra.  Il suo erede diretto, il PDS, conobbe la sconfitta del 1994 che diede il la al governo del  centro destra con il Sindaco Francesco Gervasio.

Mi sembra di poter dire che quello fu un spartiacque tra due fasi totalmente differenti. Il PDS di Savona che fu sconfitto nel 1994 era ancora molto simile al PCI che lo aveva generato, pur avendo conosciuto una fase di conflittualità interna molto forte anche prima del congresso a mozioni contrapposte del 1991 e che, in buona parte, si riversò anche all’interno delle mozioni medesime.  Divisioni che avevano anche una natura territoriale e che si riferivano e avevano fondamento principale nel mutamento della struttura economica della provincia, sempre meno industriale e sempre più terziarizzata.


Pur in questo nuovo contesto caratterizzato da una conflittualità esplicita e palese interna, una novità, era sempre il partito il luogo delle decisioni e la sede di elaborazione della linea che gli amministratori applicavano.

Dopo la parentesi della amministrazione Gervasio, che peraltro ha posto le premesse di alcune delle scelte strategiche poi realizzate negli anni seguenti, le cose sono radicalmente mutate.

L’asse delle decisioni si è progressivamente e sempre più velocemente spostato dal partito a gruppi ristretti di dirigenti, agli amministratori. Le Amministrazioni sono sempre più diventate il centro della elaborazione politica e strategica, mentre il partito si è sempre più determinato più come comitato elettorale. Basti ricordare la modalità con cui si tenne il primo embrione di primarie interne, nel 2000, in occasione della scelta del parlamentare che sarebbe dovuto succedere a Maura Camoirano.

In qualche modo uno dei simboli, un prodotto di questa mutazione può proprio essere rappresentata nella figura del parlamentare savonese dal 2001 al 2013.

Un uomo di grande intelligenza, con forti esperienze amministrative, ma che in più di 10 anni di mandato è stato del tutto assente dal dibattito politico della città e della Provincia.  Ciò nonostante Zunino fu, dopo la prima nomina, confermato altre due volte nel 2006 e nel 2008. Io partecipai alle consultazioni per la candidatura nel 2008, la prima volta del PD, nel circolo di città centro, cui mi ero iscritto.

Era il primo anno del PD e nel circolo erano presenti molti nuovi iscritti, che dimostravano la apertura di speranza che il PD rappresentò.  E che ora non sono più né iscritti e, in qualche caso, neanche elettori.


Massimo Zunino

In quella sede chi presentò la proposta di riconferma fu il sindaco di Savona, Berruti, che, nel sostenere la scelta, rimarcò il contributo che Zunino aveva dato e stava dando agli amministratori savonesi. Ora, francamente, mi è ben chiaro che la scelta di riconferma rispondesse anche a esigenze di posizionamento dei vari attori interni al partito, ma non ho motivo di dubitare che l’interlocuzione interna tra il parlamentare e gli amministratori ci fosse davvero. Il punto però era, e qualcuno, più d’uno, lo sottolineò, che al partito invece il contributo risultava nullo. E che al parlamentare si richiedeva anche un ruolo pubblico di rappresentanza e presenza sulle questioni cruciali del collegio. Ruolo che non era stato in alcun modo esercitato da Zunino.

Ciò nonostante Zunino fu confermato per un ulteriore mandato e continuò, se non addirittura  accentuò, la sua assenza dalla discussione pubblica, senza che dal PD di Savona si levasse una sola voce di critica, anche interna.

La condizione del partito mi fu ancora più chiara quando ripresi i rapporti con la mia città di adozione, Albisola. Il PD di Albisola si trovò nel 2009 dilaniato dopo la conclusione della esperienza amministrativa di Nello Parodi, che decise di non candidarsi per il secondo mandato, aprendo quindi la strada per la individuazione del suo successore attraverso le primarie.


Nello Parodi

Si scatenò l’inferno e tutte le divisioni interne al PD, sinora sopite dalla mancata prospettiva della candidatura a sindaco, emersero con la virulenza massima.

Si presentarono 5 candidati alle primarie di coalizione, tutti del PD. Chi vinse, ottenne il 37% dei consensi e 2 dei candidati, non riconoscendo il risultato, si dimisero dal partito.

Di fronte a questa situazione ci fu chi chiese, io fra questi, di riaprire una discussione, di riconsiderare una scelta che, con ogni evidenza, avrebbe condotto ad una bruciante sconfitta. Ci fu anche chi propose di organizzare un ballottaggio, considerato che il candidato vincente aveva ottenuto solo il 37% dei consensi.


La risposta fu ancora negativa, adducendo la ragione tecnica della mancata previsione regolamentare. Poche settimane dopo, a Napoli, in una situazione simile per il risultato numerico,  si annullarono le primarie…..

Insomma ci fu una pervicace volontà e determinazione di procedere verso una sconfitta che più annunciata non avrebbe potuto essere, senza che nel partito fosse possibile una discussione vera, che partisse dalla analisi della eredità della amministrazione Parodi e dai cambiamenti che erano intervenuti nella società albisolese, che anche chi, come me, era lontano da anni, percepiva con assoluta chiarezza.

Il PD doveva applicare i risultati delle primarie, anche se queste avevano generato uno sconquasso totale ed evidente che attraversava l’intero corpo elettorale del centro sinistra. Su questo furono tutti irremovibili, dalla federazione provinciale in giù. Il risultato fu che la lista del centro sinistra giunse terza, sopravanzata anche da una lista civica, e la lista di rifondazione comunista, pur con un candidato sindaco debole, ottenne alle comunali un risultato abnorme. Il risultato fu che, nello stesso giorno, tra il risultato delle elezioni provinciali e quello delle elezioni comunali, il risultato della lista del PD registrò una differenza di mille voti, mille voti in meno per la lista delle comunali.

Lezioni utili? No. Questa deriva che portò a svuotare il partito di ruolo di direzione politica si è accentuata e il PD è sempre più un comitato elettorale permanente.

E qui torno alle due parole richiamate in inizio: fedeltà e lealtà.

Mi sembra chiaro che in un contesto simile la caratteristica che premia nella militanza diventi la fedeltà al candidato o alla lista di turno, piuttosto che la lealtà e la trasparenza del confronto politico.


 

E’ assai difficile, in una situazione simile, partecipare a discussioni  e assumere posizioni, senza essere immediatamente iscritto, anche a propria insaputa, ad una delle fazioni. La dialettica che ne deriva non è più quindi feconda, capace di produrre sintesi e identità culturale  e politica, ma si sedimenta sempre più spesso nelle mediazioni più in grado di non ledere gli interessi delle parti in causa.

Un partito matrioska, nel quale convivono tanti micro partiti che si coalizzano e si sfaldano, come atomi o molecole esposte alle sollecitazioni esterne, rappresentate dalle opportunità elettorali che di volta in volta si propongono.

Un partito, di conseguenza, affatto inclusivo e attrattivo, che non riesce a raccogliere la voglia di politica che pure si manifesta, ad esempio nei blog, sui social network.

La politica locale, nel migliore dei casi, la fanno gli amministratori dalle istituzioni, e le loro iniziative, le loro visioni non passano dal partito.

La politica nazionale la fa un ristretto gruppo dirigente nazionale e vediamo bene quale ruolo si assegna, anche per decisioni importanti e molto connesse alla identità, al partito nel suo complesso, financo ai gruppi parlamentari.

Questa realtà, così piegata continuamente su contingenze elettorali, spiega anche la “fisarmonica” che porta a aumentare e diminuire continuamente gli iscritti, a seconda ci siano consultazioni congressuali o altri passaggi in cui occorra contarsi.

Ma acuisce quella scarsa attrattività e azzera quella funzione che il PD si diede alla sua nascita: riconnettere gli italiani con la politica.

Luca Becce

  

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