IL PCI AVREBBE COMPIUTO 90 ANNI
PER NON DIMENTICARE: 21 GENNAIO 2011
IL PCI AVREBBE COMPIUTO 90 ANNI
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PER NON DIMENTICARE: 21 GENNAIO 2011
IL PCI AVREBBE COMPIUTO 90 ANNI
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21 gennaio 2011 il PCI avrebbe compiuto novant’anni se, vent’anni fa (più o meno nello stesso periodo dell’anno) una improvvida decisione non ne avesse spezzato l’esistenza dando vita a due formazioni politiche, PDS e Rifondazione Comunista, rivelatesi fragili e inadeguate al compito storico di rappresentare i ceti popolari del nostro Paese. Saranno molte, probabilmente, le rievocazioni e le ricostruzioni (tanto più che, proprio nell’ultimo periodo molti dirigenti del defunto Partito si sono impegnati in pubblicazioni di alto livello culturale per rievocare quell’evento e i passaggi storici che lo determinarono: da Reichlin a Magri a Macaluso). |
Pur tuttavia abbiamo pensato di sviluppare qui alcuni interrogativi che, a distanza di tanti anni, ci appaiono ancora come inevasi. Sistema di valori? Identità Politica? Senso di appartenenza ad una grande comunità solidale? Quale il lascito del PCI, nella realtà quotidiana vissuta da coloro che sono stati militanti di quel partito, a distanza di vent’anni dal suo scioglimento (uno “scioglimento negato”, mai formalizzato ma mascherato da “trasformazione”, ma in realtà reso reale ed evidente dal rifiuto di centinaia di migliaia di compagne e di compagni a proseguire il proprio impegno politico in un diverso contesto)? Questo l’interrogativo cui cercheremo di fornire una parzialissima risposta attraverso questo intervento. La premessa di carattere generale può essere così riassunta: nei sistemi contemporanei è difficile immaginare che vi possa essere attività politica senza (o al di fuori) dei partiti. Probabilmente esperienze particolari sono costituite da società tradizionali governate da famiglie con relazioni di potere di tipo patrimoniale e personale oppure da sistemi che hanno messo al bando le organizzazioni politiche (regimi militari o autoritari). Tuttavia, le moderne democrazie sono democrazie partitiche, ed un sistema rappresentativo post partitico sembra ancora lontano dall’orizzonte della politica democratica. L’analisi politologica contemporanea abbonda di termini quali “tramonto”, “crisi”, “declino” dei partiti e affolla le proprie indagini di metafore quali “destrutturazione”, “deallineamento” o “terremoto” dei sistemi partitici, ma l’osservazione delle dinamiche politiche reali indica come i partiti politici, benché abbiano molti critici, molti antagonisti ed un numero crescente di competitori, sembrano avere ben poche alternative concrete e attraenti. Il PCI, cui intendiamo riferirci in questa occasione, agiva in un quadro politico italiano contraddistinto, per un lungo periodo, da partiti dal forte radicamento di massa, prevalenti per un lungo periodo (almeno fino alla fine degli anni ’70 del XX secolo) sulla società civile, che agivano all’interno di un sistema pluripartitico di tipo classico, imperniato su un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto da uno sbarramento, derivante dal conseguimento di un quoziente pieno in almeno un collegio. Il nostro riferimento sarà rivolto al “partito nuovo” di Togliatti che nacque, all’indomani della Liberazione, con la decisione di abbandonare la concezione del “partito di quadri” e trasformare il PCI in un partito di massa, largamente radicato, come già si faceva cenno, nella società. |
Il Partito cercò così elettori ed iscritti in quasi tutti i gruppi ed i ceti sociali: dagli agricoltori, ai fittavoli, ai braccianti, agli operai dell’industria, ai nuovi ceti medi ed ai piccoli e medi industriali. Malgrado gli sforzi dei dirigenti questa presenza sociale del PCI, fino a buona parte degli anni ’60, si limitò essenzialmente alla classe operaia del Nord ed ai vecchi “ceti medi” al Centro e in misura minore al Sud. La massiccia emigrazione interna, la crescente urbanizzazione, la laicizzazione diffusa attenuarono tuttavia i vincoli determinati dalla antica tradizione culturale. |
Di conseguenza, di fronte all’aggravarsi della crisi sociale ed economica, aumentò sempre più il numero delle persone che si sentivano attratte da quelle forze politiche che propugnavano un superamento della crisi, un ammodernamento dello Stato e della Società, oltreché una maggiore giustizia sociale. Il PCI guadagnò così in misura più che proporzionale, ed in modo spettacolare, con le elezioni del 1975 e del 1976, un gran numero di voti fra le donne, i cattolici praticanti e i ceti urbani occupati nel settore dei servizi ed in quello dell’istruzione. In quella fase il PCI riuscì anche a compiere notevoli puntate in quelle zone precedentemente dominate dalla DC, grazie soprattutto alla sua forte caratterizzazione cattolica come nel Veneto, nel Mezzogiorno, nelle Isole. L’espansione della presenza nella Società, che dal punto di vista della struttura dell’elettorato fece apparire il PCI come un “partito popolare di sinistra”, in verità portò solo ad una in una minima misura ad una modificazione nella composizione di massa dei suoi iscritti. Gli operai continuarono a costituirne il nerbo (circa il 50% nel 1977). Se si calcolano i pensionati e le casalinghe, il potenziale classico del Partito salì, in quel periodo al 79%. Quei gruppi sociali che, negli anni’70, contribuirono fortemente ai successi elettorali del PCI, ossia l’intellighenzia scientifica e tecnica, liberi professionisti e gli addetti ai settori dei pubblici servizi, furono invece chiaramente sottorappresentati nelle fila del Partito. La composizione sociale dei quadri intermedi rivelò, invece, una tendenza opposta. Infatti, mentre nel 1975 gli operai costituivano oltre il 50% dei segretari di sezione, rappresentavano soltanto il 36% dei delegati al XV congresso e scendevano al 24,9% nei componenti dei Comitati Federali. Il PCI ebbe così sostanzialmente i caratteri di un Partito con una strategia radical-socialista rivolto alle riforme. In questo modo il PCI divenne il principale antagonista e concorrente della DC. I Comunisti Italiani, se furono soddisfatti dalla tendenza dell’elettorato tradizionale di centro-sinistra a scivolare verso il loro partito furono, invece, contrari, ad una mera identità con il PSI e ad una polarizzazione del sistema partitico italiano. La creazione di un “grande partito della Sinistra” di cui si parlò subito dopo il 1945 e più tardi nel 1964/65 non risultò praticamente attuabile. Il PCI non riuscì, in sostanza, a sciogliere il nodo decisivo di una pratica dell’opposizione, attraverso il modello dualistico tra un Partito cristiano-conservatore ed un grande raggruppamento socialista, o un tentativo di sostituire la DC come partito egemonico accelerando da una posizione di preminenza, la sperimentazione della “via italiana al socialismo“. Un dilemma non risolto che fu alla base della mancata realizzazione del “compromesso storico“. di cui fu testimonianza parziale il tentativo della “solidarietà nazionale” (1976-1979) il cui fallimento aprì la via ad un declino lento, ma inarrestabile. La linea del PCI fu orientata, nel corso dei decenni centrali del secolo scorso e fino alla vigilia della liquidazione del Partito, da almeno quattro grandi coordinate strategiche, che possono essere così riassunte: 1. Il rapporto tra la teoria e la prassi. Questo elemento ha rappresentato un punto decisivo nell’identità del PCI, legato all’idea dello sviluppo delle forze progressive, di una scienza in grado di produrre una tecnica sulla quale basare una linea di sviluppo “naturalmente” progressista. In questo ambito avveniva la rivalutazione del cosiddetto “intellettuale organico” (nella definizione gramsciana) cui Togliatti aveva affidato la concretizzazione della linea politica; 2. L’intreccio tra politica e cultura Un intreccio molto stretto, al limite dell’indissolubilità, quello tra politica e cultura, con una concezione della cultura di tipo “classico”, di studi robusti e solidi, riservando alla base sociale il livello “nazional-popolare”. Fu attraverso il rapporto stretto tra politica e cultura che, in particolare nella strategia togliattiana, avvenne la selezione dei quadri dirigenti: mentre per la classe operaia questa stretta relazione tra politica e cultura, risultò alla base della ricerca del riscatto sociale. 3. la relazione tra ideologia e razionalità politica. La continua ricerca della trasformazione in linea politica dell’ideologia può far definire il PCI come un partito “neo-illuminista”, fortemente impregnato di positivismo e contrario all’idealismo. |
Palmiro Togliatti
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In realtà il PCI presentava al suo interno una molteplicità di modelli culturali (si pensi alle diverse case editrici, da Einaudi a Feltrinelli, cui il partito faceva capo, al di là delle “ufficiali” Rinascita e, successivamente, Editori Riuniti) che, appunto, l’applicazione della linea politica concreta permetteva di far convivere fruttuosamente, attraverso un meccanismo definibile davvero come “neo-illuminista”. 4. Il peso del filtro della concezione di classe nell’agire politico. Questo fattore è stato sicuramente presente in una dimensione massiccia, sulla realtà operativa del Partito fino agli anni ’70 inoltrati. |
La concezione di classe sull’agire politico ebbe grande importanza, oltre che nel definire il rapporto tra trasformazione e gestione nell’iniziativa quotidiana del Partito, nello stabilire la relazione tra moralismo e rigore politico, che stava alla base della concezione berlingueriana, prima del “compromesso storico” e poi dell’alternativa, basata, appunto per iniziativa del segretario Enrico Berlinguer, sulla “questione morale” intesa come piena “questione politica”. Dall’inizio degli anni ’80 l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell’elaborazione e nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento raccoglievano i più facili consensi. In pochi anni, anche in un paese come l’Italia considerato paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande Partito Comunista d’Occidente, l’offensiva “neocons” (definita sbrigativamente reaganian-techteriana) modificò, in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell’area della opinione pubblica progressista, compresa buona parte della sinistra di opposizione, con conseguenze fortemente negative che poi si sarebbero manifestate, anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici. In primo luogo cominciò a raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell’Europa dell’Est, sia nelle forme programmatiche delle politiche keynesiane e dello esperienze di stato sociale, sviluppatesi ad Ovest e nel Nord Europa, principalmente per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell’individualismo consumistico. In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni ’80, l’insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie. Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di gran parte dell’opinione pubblica. E’ quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui ad esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie. Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l’essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica ai “partiti ideologici” ma anche come demistificazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica. Si assumeva così una inedita categoria di contraddizione, quella del cosiddetto “nuovismo” inteso come criterio di commisurazione della validità dell’iniziativa politica. In terzo luogo va ricordato, ancora, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via, nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno. Si era passati, infatti, da una domanda di “rinnovamento della politica”, così come era stata formulata da Berlinguer, ad una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali. Si spalancò così, in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all’idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l’alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. Per “sbloccare” il sistema politico il PCI avrebbe dovuto, così, mettere in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso” omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano. Tutto questo è avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni ’80, a un punto di estrema gravità. Lo scioglimento del Partito, compiuto con la svolta del 1989, non è dunque avvenuto nell’affermazione di una necessità di innovazione radicale, che segnasse nelle forme più risolute possibili il netto distacco da quel sistema sociale e politico, che stava franando in Unione Sovietica e negli altri Paesi dell’Est. Lo scioglimento del PCI è avvenuto, invece, senza approfondire e sviluppare quegli aspetti peculiari dell’elaborazione e della politica dei comunisti italiani che erano sostanzialmente alternativi al modello sovietico ma, al contrario, ponendo in atto una generica rottura con la tradizione comunista. La liquidazione del PCI fu compiuta, a questo modo, oscurando anche ciò che aveva rappresentato la specificità e l’originalità dell’esperienza del PCI. Ma le vere ragioni di quella scelta furono, probabilmente, ancora più profonde: stavano nella crescente subalternità ideale e culturale, e di conseguenza anche politica che già negli anni precedenti era venuta caratterizzando le posizioni del gruppo dirigente comunista. E’ stato come se, conclusa la fase convulsa del “compromesso storico” e dell’affermazione della “diversità” berlingueriana fondata sulla “questione morale“, si fossero andate, poco a poco, inaridite le stesse fonti della identità peculiare del PCI. La preoccupazione fondamentale, per larga parte del gruppo dirigente comunista, sembrava essere quella di trovare un decoroso approdo nella grande famiglia dei partiti socialdemocratici ci europei e di riuscire, finalmente, ad infrangere in Italia la “conventio ad excludendum”. In questa prospettiva fu sottovalutata la crisi complessiva del sistema politico italiano, già prossimo a franare su se stesso per ben diversi motivi da quello della mancata alternanza, ossia a causa del montare dell’onda di Tangentopoli, della crescita oltre ogni previsione della protesta leghista, dell’esplodere del deficit pubblico al di là di ogni ragionevole livello di guardia. Mentre il PCI si scioglieva l’Italia si apprestava ad essere dominata da una politica fondata sulla personalizzazione, sull’uso spregiudicato dei mass-media, sul liberismo più aggressivo intrecciato ad un populismo di basso profilo: proprio nel momento in cui la “diversità” dei comunisti italiani avrebbe potuto rappresentare un argine a questo dilagare di mediocrità culturale e politica, questa veniva dismessa aprendo la strada alla più completa omologazione “governista” della sinistra storica italiana. La grave debolezza del punto di partenza rappresentato dalla svolta del 1989 non fu affatto colmata (proprio per la radicalità dell’errore politico iniziale) nel corso del dibattito che, portò, prima al XIX congresso del PCI che, nel marzo del 1990 ratificò a maggioranza la “svolta” e poi al XX congresso che si tenne a Rimini nel febbraio del 1991 e che fu anche il congresso costitutivo del Partito democratico della Sinistra, con la scissione però di una parte dell’opposizione interna che diede vita prima al movimento, e successivamente al partito della Rifondazione Comunista. Il dibattito che si sviluppò in quel periodo e i processi che l’accompagnarono misero, anzi, in evidenza il deficit ideale, culturale, di proposta politica e programmatica che segnava l’intera operazione. Si parlò molto della novità della formazione politica cui si intendeva dar vita: dei nuovi interlocutori (i circoli, i club, la “società civile”) insieme ai quali realizzarla: dei “nuovi processi” da avviare nella società italiana. Ma non bastarono le affermazioni sul “nuovo che stava avanzando” per produrre un effettivo rinnovamento.
Anzi i partiti postcomunisti che dopo il congresso di Rimini del ’91 sorsero dal vecchio tronco del PCI furono due, cioè il PDS e Rifondazione Comunista. Il PDS ripresa una parte consistente dell’insediamento sociale, amministrativo ed elettorale del PCI (anche se la prima prova fu disastrosa: il 16% alle elezioni politiche del 1992), ma non la ricchezza complessiva di quella esperienza politica. Si era fortemente indebolita quella che Togliatti aveva definito come capacità di operare costantemente una sintesi fra preminenza del ruolo di responsabilità nazionale e guida effettiva di forti lotte e di grandi movimenti di massa impegnati per obiettivi di riforma, di libertà, di rinnovamento. Emerse da subito un fenomeno, via, via accentuatosi fino alla formazione del PD: quello di un appiattimento verso il centro, verso posizioni tendenzialmente moderate. La posizione attuale del PD, a di là delle valutazioni circa “l’amalgama non riuscita” e la “fusione a freddo”, è quella di una acquisizione pressoché completa di tendenze centriste e moderate. D’altro canto Rifondazione Comunista (la cui esperienza sta vistosamente declinando, mentre emerge una parte di sinistra che appare completamente legata, ormai, al modello della personalizzazione e della cosiddetta “americanizzazione” della politica al di là dei contenuti enunciati) ha espresso nel corso di questi anni, una certa cultura di radicalismo sociale. Rifondazione Comunista ha dato voce alla protesta, subendo un certo tipo di subalternità ai movimenti come nel caso del movimento “no-global“, non riuscendo ad affrontare proprio quel dato di sintesi politica cui si accennava poc’anzi: così può essere valutato il fallimento dell’esperienza di governo tra il 2006 ed il 2008, mentre il processo di personalizzazione e di autonomizzazione del gruppo dirigente cresceva all’interno del partito, e la sostanziale incapacità ,nelle situazioni di governo locale, di esprimere una propria capacità di impostazione programmatica e di conseguente iniziativa politica. Entrambe le formazioni, il PDS-DS-PD e Rifondazione Comunista, anche nelle attuali versioni FdS, da un lato, e SeL dall’altro, hanno completamente abdicato ad alcuni decisivi insegnamenti metodologici che discendono dalla riflessione di Gramsci: per esempio le considerazioni sulla “rivoluzione passiva“, la critica all’economicismo e al politicismo, l’insistenza sulla complessità dei rapporti tra struttura e sovrastruttura nella costruzione dell’egemonia, che pure avrebbero potuto servire più di tante analisi della sociologia e della politologia correnti. Per concludere ciò che è mancato in questi vent’anni di post PCI e dubitiamo fortemente possa essere, anche parzialmente recuperato, è stato in ultima analisi di porre alla base di un impegno per la costruzione di una sinistra radicalmente rinnovata, all’altezza dei problemi della nostra epoca, una capacità di espressione di una critica della realtà di porre le basi per la ricerca di nuovi livelli di compromesso politico e insieme di visione della società del futuro: si direbbe, mancano, nello stesso tempo progetto e programma. Savona, 11 Gennaio 2011 Franco Astengo |