Il Pacifista per convenienza: ribotte di virtù smarrite in tempo di urne
Sotto i cieli torbidi della politica italiana, la notizia dell’elogio che la sinistra radicale e i populisti nostrani rivolgono a Donald Trump suona come una stonatura sinfonica. Eppure, non è che il più recente spartito dell’opera tragicomica che va in scena tra i banchi di partito, dove la virtù è merce di scambio e il pacifismo un’etichetta scontata in saldo pre-elettorale.
1. Amenità delle virtù perdute
Una volta, pacifismo significava qualcosa. Era un moto morale, una posizione filosofica, una scelta di campo anche a costo di isolamento. Oggi, è un adesivo da appiccicare alla giacca in conferenza stampa, un modo per strizzare l’occhio all’elettore stanco, magari impoverito, certo più diffidente che mai. Che a fare la pace sia Donald Trump – l’uomo dell’assalto a Capitol Hill e dei tweet bellicosi – è un oltraggio a ogni memoria storica. Ma non c’è più onore nella coerenza: solo la fame d’urna, che trasforma anche il “gendarme del mondo” in novello Gandhi.

Conte, Schlein, Meloni, Salvini, Tajani e Lupi
2. Ossequiosa indignazione
Di fronte all’inversione dei poli politici, gli intellettuali rimasti alle coordinate cartesiane della logica liberale e democratica si stracciano le vesti. L’indignazione è rituale, ma al contempo servile: si piega alla grammatica del consenso. Lo si vede nella sinistra istituzionale, paralizzata tra l’inseguimento del populismo grillino e la tiepida fedeltà all’Europa. Schlein mugugna contro von der Leyen, ma non osa troppo. Lupi e Tajani, scavalcati dalla Lega trumpiana, si aggrappano al ruolo di “europeisti responsabili” come naufraghi al relitto. Il problema? Nessuno riesce più a dire qualcosa che non sia tarato sui numeri dei sondaggi.

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3. Raffigurazione plastica del nesso causale
Trump tratta con Putin non perché la guerra lo addolori, ma perché deve “remunerare il suo elettorato”. Salvini e Conte lo seguono non per visione geopolitica, ma per capitalizzare l’onda dell’insofferenza popolare. La catena causale è chiarissima: promessa elettorale → disimpegno bellico → ritorno economico → dividendo politico. È il realismo dell’interesse, declinato in chiave elettorale. L’ideologia? Una foglia di fico. La pace? Un mezzo. La coerenza? Zavorra da gettare in mare aperto.
4. Truci speranze
Il sogno è semplice, ma truce: svuotare il fronte bellicista europeo, guadagnare terreno nei sondaggi, ricostruire relazioni con la Russia come se nulla fosse. Il tutto mentre Kiev resta in balia di un aggressore, e l’Europa divisa gioca a Risiko con pezzi del proprio futuro. È la speranza del cinico: che la guerra finisca non per giustizia, ma per stanchezza. Che le relazioni internazionali tornino a essere meri scambi commerciali, come nei peggiori incubi degli anni ’30. La storia non insegna, ma risuona in sottofondo come una musica dimenticata.
5. Utilitarismo per fare ribotta
Qui non si parla di pace: si parla di ribotte elettorali. Si brinda sulla tomba delle virtù repubblicane, si banchetta con le parole “popolo”, “interesse nazionale”, “pace” trasformate in pietanze preconfezionate. Pacifismo, sì, ma purché porti voti. Nazionalismo, certo, ma solo se non costa troppo. E l’Europa? Troppo lontana, troppo complicata, troppo debole per essere amata davvero. I leader si contendono lo scettro del “meno guerrafondaio”, ma solo perché il pacifismo – in tempo di crisi – tira più di ogni altra ideologia. Come l’usato garantito.
E così eccoci: tra i “piccoli” che sognano la grandezza, tra gli “anti-sistema” che accarezzano Trump, tra chi chiamava l’America “imperialista” e ora la adora purché bastoni Bruxelles. In mezzo a tutto ciò, la guerra resta sullo sfondo. Vera, cruda, inaccettabile. Ma per chi fa politica a suon di sondaggi, è solo un riflesso lontano, un’ombra da piegare al bisogno.
Come diceva Flaiano, in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. E qui, più che una strategia, ci troviamo davanti a una danza mascherata. Di pace, sì. Ma finta.