IL MONDO DI DALI’ Un RACCONTO di MASSIMO BIANCO
Prima parte
Laura Maggiari finì di visitare il museo parigino dedicato a Salvador Dalì e uscì all’aperto insieme all’amica Elisa, con nella mente ancora impresse le creazioni dell’artista, dagli incredibili orologi molli ai folli elefanti dalle sottilissime zampe di ragno.
Ventisettenne ex studentessa alle belle arti ancora libera da impegni lavorativi, approfittava del tempo disponibile e delle finanze dei genitori per godersi la vita. Snella e alta di statura, con quei suoi lisci capelli castani e il tondo volto lentigginoso dall’espressione eternamente svagata, pur non essendo propriamente una bellezza non passava inosservata e piaceva alla maggior parte degli uomini. Uomini a cui, però, fino ad allora non aveva mai dato troppa corda, avendo sempre preferito evitare storie impegnative, soprattutto per l’incapacità di dedicare ai sentimenti tutta se stessa. Un giorno avrebbe pensato con serietà anche ai ragazzi, nel frattempo intendeva dedicarsi in toto alle proprie passioni. E la sua passione più grande era Salvador Dalì.
Laura si era entusiasmata del surrealismo fin da quando frequentava il liceo artistico, coltivandolo al punto di dedicarvisi anche come pittrice dilettante. Dimostrava un certo talento, almeno a detta dei professori, anche se faticava a crearsi uno stile personale, ma ancora non si sentiva pronta per esporre le proprie opere.
Apprezzava Mirò, Tangui, Magritte, quest’ultimo secondo forse nelle sue preferenze, e la metafisica di De Chirico e di Carrà ispiratrice del surrealismo, ma era soprattutto innamorata della figura di Dalì, il genio che al surrealismo aveva dedicato, senza ripensamenti, l’intera carriera. La giovane aveva visto, dal vivo o attraverso libri e siti, quasi tutti i suoi quadri e ne conosceva la biografia nei minimi particolari, affascinata da ogni particolare della sua multiforme personalità, compreso le ostentazioni di immodestia:
“Al mattino, quando mi sveglio provo un piacere estremo, quello di essere Salvador Dalì”.
Adorava quella frase.
Conosceva già la raccolta parigina a lui dedicata, aveva d’altronde visitato tutti i musei d’Europa che esponevano suoi lavori e perfino il Salvador Dalì Museum di St. Petersburg in Florida e avrebbe potuto descriverne con precisione ogni dipinto. Ciononostante, durante quelle festività di fine anno non sarebbe mai ripassata dalla capitale francese senza rivederlo: vi si era recata sia il giorno dell’arrivo sia quella domenica mattina subito prima del rientro in Italia, seguita con pazienza dall’amica, che apprezzava l’artista, ma non certo quanto lei.
Per essere sicure di fare in tempo, quel mattino le due giovani si erano presentate dinanzi all’ingresso mezz’ora prima dell’orario di apertura e così erano state le prime ad entrare. Tuttavia mancavano oramai poco più di due ore al volo e dovevano ancora ripassare dall’hotel, non vicinissimo, per recuperare il bagaglio lasciato in deposito. Non c’era dunque un minuto da perdere, se non volevano rischiare di restare a terra.
Benché la vacanza fosse al termine e si fosse divertita molto, Laura non provava rimpianto, perché a casa si prospettava un appuntamento importante. Il fine settimana successivo, al Palazzo Ducale di Genova sarebbe stata inaugurata la più grande mostra mai tenuta in Italia sul genio di Figueras e non voleva perdersi l’inaugurazione.
Intanto prese a correre a rotta di collo, diretta alla più vicina stazione della metropolitana.
Più tardi era seduta in aereo, in un posto vicino al finestrino, avvilita dal desiderio insoddisfatto di fumare. Stava contemplando la sottostante matassa compatta di nubi bianco nivee, uno spettacolo che l’affascinava sempre. La coltre si era appena aperta, mostrando i campi coltivati della pianura francese, quando all’improvviso due enormi tigri le parvero uscire dal terreno e attraversare a grandi balzi il cielo per lanciarsi, furiose, verso di lei. Dietro a loro un altrettanto smisurato pesce rosso tentava di divorarne una. Li riconobbe immediatamente: appartenevano a un quadro del 1944, “il sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melograna”.
Disorientata, sbatté le palpebre e scosse la testa, come a voler scacciar fisicamente via l’immagine. Tutto era rapidamente tornato alla normalità, ma per qualche istante, prima di farsi sempre più confusa e nebulosa fino a squagliarsi davanti a sui suoi occhi come nebbia al sole, la visione le era parsa del tutto reale. Si guardò intorno. L’amica leggeva una rivista. Una signora sovrappeso, seduta dalla parte del corridoio, sonnecchiava. Sull’altro lato c’erano un sedile vuoto e una coppia di ventenni che si girava eccitata a destra e a sinistra alla ricerca di qualche buon scorcio. Nelle file immediatamente davanti e dietro ognuno si interessava alle proprie faccende. Nessuno sembrava aver notato qualcosa di anomalo.
A quel punto lei abbassò le palpebre facendo finta di nulla. In realtà era piuttosto scioccata: le era parso tutto così vero. Qualche minuto dopo riaprì gli occhi. L’amica sfogliava velocemente le pagine alla ricerca di un articolo stimolante, mentre la signora in carne chiedeva un caffè alla hostess.
Laura cercava di convincersi che davvero non fosse successo nulla e di non pensarci più, ma non ci riusciva.
Tre quarti d’ora dopo, quando mancava poco all’imbrunire, l’aereo atterrò a Milano Malpensa. Recuperato il bagaglio, le amiche uscirono dal terminal e si fermarono. Mentre attendevano che il pulmino del parcheggio le venisse a prendere, verso l’orizzonte Laura vide stagliarsi, rese confuse dalla scarsità di luce, due enormi figure dalla fisionomia all’incirca femminile, che percorrevano la campagna, barcollando come sonnambule con le braccia in avanti e la testa rivolta verso l’alto, procedendo di traverso rispetto a lei. Alte decine di metri, grigie e magrissime, avevano entrambe qualcosa di appuntito sporgente dalla schiena e delle strane protuberanze, parevano cassetti aperti, su petto e gamba.
«Guarda là, Elisa, guarda.»
L’amica si girò verso di lei per poi subito rivolgere lo sguardo nella direzione indicata.
«Cosa c’è?»
«Non vedi nulla? Non…» Laura s’interruppe frustrata, già prevedendo la risposta negativa.
«No, cosa mi sono persa?» Rispose, infatti, Elisa, sorridendo rilassata.
Ancora una volta la visione divenne nebulosa e poco alla volta scomparve. Adesso dinanzi a sé Laura scorgeva solo il normale paesaggio. Si guardò intorno. Ancora una volta la gente appariva indifferente.
«No, no, niente, non importa».
“Ho avuto un’allucinazione, per forza. Un’allucinazione tratta di peso da Giraffa in fiamme, uno dei più famosi quadri di Dalì. Cosa mi sta succedendo?” pensò spaventata.
«Mm, sai che hai un’espressione strana, come se ti fosse appena apparsa la madonna e ce l’avesse con te?» le disse l’amica.
Laura la fissò, incapace di articolare una risposta. Per fortuna l’arrivo del pulmino la tolse dall’impasse. Erano giunti in aeroporto con la sua auto, ma non si sentiva di guidare, perciò quando raggiunsero il parcheggio consegnò le chiavi a Elisa e si sedette, ancora scombussolata, al posto del navigatore.
Quella notte sognò di continuo di trovarsi imprigionata dentro le sue opere preferite di Dalì, assalita da esseri mostruosi. Si svegliava sconvolta e quando si riaddormentava gli incubi riprendevano da dove si erano interrotti.
Tuttavia nei giorni seguenti non si manifestarono più né visioni a occhi aperti né sogni e si rasserenò un poco.
Il sabato mattina successivo si recò all’inaugurazione a Palazzo Ducale di buon piglio, insieme a un coetaneo indubbiamente carino, ma assai fatuo e a cui dell’arte poco o nulla importava, lo capiva: l’accompagnava soltanto perché le stava facendo il tiro.
Laura si godette appieno la mostra. Vi erano opere provenienti da collezioni private che non aveva mai visto prima dal vivo e perfino alcune del tutto inedite, che l’incantarono.
Terminata la visita e giunta davanti all’ingresso, le pareti iniziarono a farsi confuse e qualche attimo dopo si ritrovò all’aperto, davanti a un paesaggio alieno. Sulla sinistra s’innalzavano scoscese alture rocciose, che si riflettevano sull’ampia superficie lacustre sottostante, mentre più lontano, sulla destra, sorgeva una scura montagna più massiccia e ondulata, dalla base ricoperta di boschi e la vetta innevata. In primo piano, al centro, due gigantesche e scheletriche mani umanoidi emergevano dalla terra. Inoltre si scorgevano sullo sfondo alcune figure immobili.
Sulle prime restò imbambolata a guardare. Certo, poteva effettivamente trattarsi di un paesaggio alieno, sarebbe perfino stata disposta ad ammetterlo, tuttavia non le era ignoto. Infatti, si era appena spalancata di fronte a lei la “Metamorfosi di Narciso”, neanche a dirlo, di Dalì. Non poteva sbagliarsi, anche perché aveva ammirato il dipinto originale soltanto pochi minuti prima, in prestito dalla Tate Gallery.
E intanto il suo accompagnatore discorreva giulivo, dimostrando di non capire nulla del surrealismo così come di pittura in genere. Era un vuoto bla bla che lei aveva da tempo smesso di ascoltare e ora si faceva via via più inaudibile, mentre la mente di Laura si perdeva in quello strano luogo, tanto affascinante fino a pochi istanti prima quanto sconvolgente ora.
La ragazza mosse qualche passo in avanti, confusa, poi si fermò e si voltò. Per un istante scorse ancora l’ampio corridoio appena percorso e la scalinata che conduceva alla mostra, poi anche da quella parte tutto sparì. L’ambiente alieno non si trovava semplicemente innanzi, lei ci stava proprio in mezzo, costatò atterrita: alle sue spalle si allargava il medesimo specchio acqueo. Esso, però, su un lato si apriva come se appartenesse a un braccio di mare, mentre nella direzione opposta era chiuso da aride rocce dentro cui si aprivano caverne.
Non avrebbe saputo dire con precisione quanto durò la visione. Molto a lungo, le pareva, eppure dovette trattarsi di pochi istanti, perché, quando tornò a focalizzare l’atrio, il chiacchiericcio dell’inconsapevole accompagnatore continuava imperterrito e un gruppo organizzato diretto all’interno, appena incrociato, si era allontanata solo di pochi passi.
Giratasi di nuovo, alla porta vide stagliarsi un uomo d’età indefinibile di media statura, coi capelli lunghi fino a metà schiena e gli occhiali, il quale indossava un maglione vivacemente colorato sotto al giaccone. Costui l’osservava, con aria a metà tra il perplesso e il compiaciuto, come se il suo comportamento gli avesse appena fatto sorgere un’idea, brillante ma non ancora ben definita. E pur essendo tornata alla nota realtà, sullo sfondo Laura scorgeva ancora, appena percepibile, il misterioso paesaggio, come se le pareti dell’edificio fossero diventate diafane.
Mezzo minuto dopo sbucò fuori, dall’uscita di Piazza Matteotti, quindi aggirò il Palazzo Ducale e riapparve in quella Piazza De Ferrari, cuore pulsante di Genova, dal cui accesso era entrata per visitare la mostra e dove ancora parecchia gente attendeva in coda.
All’aperto pareva tutto a posto. Stava già tirando un sospiro di sollievo, quando i familiari ed eleganti edifici cittadini, dall’aria molto londinese, presero a ondeggiare davanti a lei, costringendola a fermarsi di botto. Intanto il ragazzo ancora discorreva.
«…Sì, Dalì mi è proprio piaciuto, sai, queste sue figure surreali sono davvero fiche…»
«Oh no, ancora» le sfuggì, sconvolta.
«Ancora cosa? Qualcosa non va, Laura? Ehi, mai hai un’aria stralunata, non ti senti bene?»
Laura lo guardò, sempre più atterrita. “Aiuto, mi serve aiuto!”
Non fece tuttavia in tempo a pronunciare la richiesta, perché, proprio mentre stava per aprire bocca, il panorama si trasfigurò. Il coetaneo sparì e al suo posto vide alcune persone nude, riunite a capannello a chiacchierare eppure statiche come sculture. Si trovava di nuovo di fronte alle rocce scoscese.
Adesso la prospettiva era cambiata, rispetto alla visione precedente. E c’era anche un mutamento più sottile, comprese. Mentre prima si era trovata semplicemente dentro il quadro, ora stava dentro il paesaggio raffigurato dal quadro, che di momento in momento andava anche facendosi più realistico.
Qualche secondo dopo i presenti, nel frattempo non più né nudi né statuari, si voltarono a guardarla, mostrandosi quasi tanto sorpresi dalla sua apparizione quanto lei lo era della loro. Li osservò incuriosita. La loro fisionomia appariva del tutto umana, eppure in una qualche maniera indefinita li trovava strani.
Infine uno di costoro la additò. Allora un altro si avvicinò e le chiese qualcosa che non seppe decifrare. Lo sconosciuto si esprimeva in spagnolo, lingua che lei era in grado di seguire solo se veniva parlata con estrema lentezza, scandendo bene le parole. In compenso un vocabolo l’aveva distinto bene: fantasma.
La testa prese a girarle e perse l’equilibrio. Vide il terreno precipitarle incontro e svenne prima di toccarlo.
Si risvegliò in un letto di ospedale. In seguito scoprì di trovarsi al pronto soccorso del nosocomio genovese Galliera. Davanti a lei, sulla sinistra, c’era sua madre. La donna la osservava preoccupata e in lacrime, con il risultato di farla immediatamente sentire in colpa. Ai piedi del letto stava invece il ragazzo che l’aveva accompagnata alla mostra, il quale sorrideva imbarazzato mentre si passava nervosamente le dita sui fluenti riccioli biondi, che gli incorniciavano meravigliosamente il glabro volto un poco infantile, su cui gli si erano formate delle graziosissime fossette:
“Sì, è decisamente un gran bel ragazzo”, si sorprese a constatare.
«Colta dalla sindrome di Stendhal, chi l’avrebbe mai detto.» Le annunciò lui, entusiasta, quando vide che aveva finalmente aperto gli occhi.
“Peccato che sia anche un perfetto imbecille.” Sentenziò silenziosamente, ma in maniera inappellabile, Laura.«Come ti senti bambina mia?» le chiedeva intanto sua madre.
«Bene mamma, ora mi sento bene, è stato solo un disturbo passeggero.» Si affrettò a rassicurarla.
«Sai, nei giorni scorsi io non avevo voluto dirti niente, per non sembrarti la solita rompiscatole, ma appena eri tornata da Parigi mi eri parsa pensierosa, preoccupata. Forse avevi già avuto qualche malessere?»
«No mamma, tranquillizzati, ti assicuro che non ho mai avuto problemi di salute prima d’ora.»
Scambiò ancora due parole di circostanza con entrambi, poi per fortuna un’infermiera si avvicinò e li invitò a uscire, perché desiderava restare sola a meditare su quanto le stava accadendo. Le fecero alcuni esami e la trattennero qualche ora in osservazione. Nel frattempo tutto pareva tornato alla normalità, perciò non rivelò cosa le era accaduto. Si sarebbe arrangiata da sola. Non voleva essere trasferita nel reparto psichiatrico.
Rientrata a casa, estrasse da uno scaffale uno dei suoi libri di Dalì. Voleva confrontare le foto stampate con i propri ricordi. Mezz’ora dopo stava posando il volume sul tavolinetto di fronte per andare ad apparecchiare per la cena, quando si accorse di intravvedere di nuovo una scena estranea. E come già in precedenza non si stava sostituendo all’ambiente circostante. Le immagini si sovrapponevano, entrambe distinguibili.
Nulla di straordinario stavolta, soltanto un ripiano di legno su cui era allargato un centrino, al centro del quale troneggiava un’antidiluviana macchina da scrivere. A sbigottirla, semmai, era il punto di vista, perché un istante dopo due mani maschili si posarono sulla tastiera, toccando i tasti con le dita. Era come se stesse osservando la scena non con i propri occhi ma attraverso gli occhi di un altro. Poi la visuale si spostò per qualche istante, giusto il tempo di notare, fuori dalla finestra, qualcosa procedere in lontananza, tra due svettanti torri rocciose. Erano due animali e nell’aspetto le rammentavano l’elefante trampoliere dipinto da Dalì, rispetto al quale sembravano, però, più realistici, più verosimili.
Stava meditando sulla bizzarria della situazione quando dentro di sé cominciò a svilupparsi una forma di comprensione. Ma aveva la sensazione che la sua non fosse un’intuizione genuina. Era piuttosto come se il senso degli eventi le stesse penetrando nel cervello, spintovi da fuori.
Seconda parte
Era un’area pianeggiante e semi desertica, cosparsa di rade piantine scheletriche, dal cui terreno emergevano due pinnacoli, isolati come faraglioni, alti oltre cento metri e piuttosto slanciati, di forma curiosamente umanoide, in mezzo ai quali passava bestiame al pascolo. Sui bordi settentrionale ed occidentale sorgeva una manciata di edifici a tre o quattro piani e nel bel mezzo una grande scultura di donna si stendeva abbattuta, priva di testa, mani e piedi.
Di primo acchito il luogo sembrava inanimato, ma attraverso una finestra priva di tendaggi, da cui entrava la luce del sole, al piano inferiore di una delle case s’intravvedeva uno snello signore di mezza età dall’aria timida, con lunghi baffi sottili e i favoriti, pestare con frenesia su una tastiera. Osservandolo con attenzione, nel suo aspetto si notava qualcosa di anomalo. Infatti, il volto, sproporzionato rispetto al corpo emaciato e vermiforme, era molle e cascante in modo abnorme. Sulla sedia di fianco erano gettati alla rinfusa abiti da postino.
L’uomo si stava dedicando alla realizzazione di ciò che considerava il capolavoro della sua vita: la sua “Storia passata, presente e futura illustrata”. Batté sulla macchina da scrivere ancora alcune frasi, contemplò un istante la finestra, quindi staccò il foglio, si soffermò a rileggere, apportò a penna alcune correzioni e riscrisse in fretta il testo. Infine lo lesse un’altra volta. Non gli sembrò male. La trama aveva ritmo e giungeva al punto cruciale con efficacia.
Prese allora le matite colorate e iniziò a disegnare l’ambientazione della scena appena descritta. Si trattava della piazza centrale di una città, non appartenente a una metropoli autentica. Era frutto della sua fantasia, anche se ispirata a Genuale, da lui visitata anni addietro durante una vacanza in Ligueras e di cui conservava alcune foto.
Non che ci fosse poi molto in comune tra l’autentica Genuale e l’agglomerato descritto nel racconto. Anche perché la prima, con i suoi duecentomila abitanti, era tra le venti più grandi metropoli dell’intero continente euroasiatico, mentre quella di fantasia, pur avendo una popolazione all’incirca tripla, non era nemmeno tra le più abitate della penisola a forma di stivale sulle cui coste sorgeva.
La Terra da lui immaginata era molto più densamente popolata del reale, tra i sette e mezzo e gli otto miliardi di abitanti contro i circa millecinquecento milioni stimati per l’epoca corrispondente, in quello autentico. Ciò perché, a parte un evento finale atomico, spaventoso ma circoscritto, nella sua creazione la seconda guerra mondiale si era mantenuta tradizionale, senza i tragici sviluppi batteriologici che avano rischiato di annientare la vita umana.
Il racconto in oggetto era uno di quelli ambientati in un prossimo futuro, già immaginifico ma non ancora radicalmente mutato rispetto al presente. Narrava di una coppia che partiva in traghetto da Gaudiosa, principale porto di Iberia, lo stato in cui viveva lo scrittore, per trascorrere le vacanze in Ligueras, ma che, giunta a destinazione, si trovava coinvolta suo malgrado in una rocambolesca serie di situazioni criminali, offrendo così un intenso spaccato della società dell’epoca. Ovviamente nella sua “Storia passata, presente e futura” sia Gaudiosa sia Genuale avevano un altro nome.
Si stava dedicando con totale concentrazione al lavoro grafico quando…
«Ehi Sal, l’hai finita con le tue scemenze? Quando la capirai che è tempo perso? Accompagnami a fare la spesa al supermercato, piuttosto», esclamò una tonante voce femminile proveniente dalla stanza accanto.
Sal emise un sospiro di sopportazione, poi rispose timidamente.
«Sì tesoro, lasciami lavorare solo dieci minutini ancora, vuoi? Poi sarò a tua disposizione.»
«Ma che siano dieci minuti sul serio, altrimenti vengo lì e ti strappo via quell’inutile cartaccia.»
«Sì tesoro, stai tranquilla.»
Scemenze, inutile cartaccia. Il pover’uomo sospirò un’altra volta, rassegnato. Se neppure sua moglie ne apprezzava l’opera, come poteva sperare di raggiungere il successo? E non ci sperava più da tempo, in effetti. Si accontentava dei pochi riscontri ottenuti, continuando imperterrito a pubblicare i propri scritti. Fino ad allora sette romanzi e quattro raccolte di racconti, per un totale di sessantotto storie, tutte illustrate di suo pugno, a cui presto si sarebbe aggiunta una quinta antologia, quella a cui si stava dedicando in quel momento.
Aveva venduto appena qualche centinaio di copie a testo, ottocentocinquanta di quello dall’esito migliore. Chiunque altro al suo posto probabilmente avrebbe lasciato perdere, ma lui era sempre stato un tipo ostinato ed era convinto dei propri mezzi. Benché incompreso, sentiva di essere nel giusto. “Un giorno sarò famoso” – ripeteva a sé stesso con convinzione – “e pazienza se sarà una fama postuma. I miei scritti sono troppo geniali per essere capiti dai contemporanei, perciò andrò avanti imperterrito fino a formare un corpus narrativo tale da descrivere per filo e per segno una storia completa dell’umanità, non solo presente ma anche futura, anche se la fantascienza non ha più mercato.”
D’altronde almeno quei pochi lettori che continuavano ad acquistargli i libri, permettendogli fino ad allora per lo meno di recuperare buona parte delle spese sostenute, parevano pensarla come lui. Pochi, sì, ma appassionati. Nel corso degli anni aveva ricevuto numerose lettere di fans entusiasti, che lo trattavano come se fosse Dio in persona, e lui ci si crogiolava sopra al punto da aver finito per trasformare il se stesso della finzione, in origine personaggio minore presente, per puro sfizio, solo nel secondo romanzo del ciclo, in uno degli artisti, pittore e scultore, di maggior fama sulla Terra, ricordato anche dopo la morte, musealizzato e studiato nelle scuole d’arte di tutto il mondo. Fece un gesto stizzito: peccato che con l’originale avesse in comune quasi soltanto nome e data di nascita. Nella finzione aveva eliminato perfino le proprie deformità fisiche, pur mantenendosi un aspetto in qualche maniera eccentrico.
Grazie alla sua mano esperta, sul foglio la piazza si stava rapidamente sbozzando. E racconto dopo racconto, disegno dopo disegno, l’ambiziosa opera illustrata complessiva prendeva sempre più forma, fino a diventare davvero, nel suo insieme, un’intera realtà alternativa. Un mondo vasto e multiforme che faceva da sfondo ad appassionanti storie di vita e di morte, guerre e terrorismo, organizzazioni criminali e politici corrotti, sentimenti e passioni, senso della giustizia e impegno ecologico… un mondo completo in ogni sua sfaccettatura, insomma.
Sorridendo inconsciamente, ricordò la frase che si era divertito a mettere in bocca all’altro se stesso nel racconto d’apertura della terza raccolta pubblicata:
“Al mattino, quando mi sveglio provo un piacere estremo, quello di essere Salvador Dalì.”
«Allora, cosa aspetti vecchio scemo, i dieci minuti sono passati da un pezzo.»
“Sai invece che piacere! Maledetta strega, perché ti ho sposata?” Pensò mentre gli si spegneva il sorriso. Ma… «Sì tesoro, arrivo subito, mi dai solo il tempo di terminare questo disegno?» Fu ciò che, più prudentemente, rispose.
Nel frattempo la rabbia repressa lo spinse ad aggiungere una nota nel punto della storia a cui era giunto: “qui una pandemia causerà sofferenza e morte, poi si scatenerà una guerra in Ucraina che causerà…”
In quell’istante un donnone infuriato apparve sulla soglia a braccia conserte. Pareva una Erinne.
«Sto cazzo che te lo do, smetti subito di pasticciare e vedi di sbrigarti, dobbiamo fare chilometri per raggiungere il fottuto supermercato», gridò a pieni polmoni, come se stesse ancora parlando da un’altra stanza.
Salvador Dalì non insistette e posò la matita azzurra sulla scrivania, invitando se stesso a portare pazienza. In fondo nel suo mondo immaginario se la godeva e lì nessuno sarebbe mai venuto a dargli ordini. Avrebbe terminato di disegnare la Piazza De Ferrari di Genova – questi i nomi che aveva assegnato alla piazza e alla città immaginaria in cui era ambientato il racconto, anziché gli autentici Piazza Concordia e Genuale, mentre Gaudiosa era diventata Barcel(l)ona, con una o due elle a seconda che la pronunciassero i locali o i genovesi – in un altro momento.
E avrebbe anche disegnato un grande manifesto sulla facciata di un palazzo, come se proprio in quei giorni si stesse tenendo una mostra dedicata a lui, con in più un sacco di gente in coda all’ingresso sottostante, decise soddisfatto.
Terza parte
Era trascorso un po’ di tempo dalla visita alla mostra genovese dedicata al genio catalano nato a Figueras. E da altrettanto tempo Laura Maggiari trascorreva buona parte delle sue giornate seduta nella poltrona di casa, senza neppure la vo
glia di alzarsi per prepararsi da mangiare; operazione, quest’ultima, che compiva meccanicamente e soltanto quando veniva assalita dalla fame, mettendo insieme quel poco che trovava in frigo, in progressivo esaurimento.
Familiari e amici erano preoccupati per il suo comportamento ma non poteva farci nulla. Perché adesso che percepiva con costanza entrambe le realtà, capiva di essere prigioniera della propria falsa esistenza. E il conoscere la verità la faceva sentire disperata. La vita non la interessava più. Tutto ormai le pareva inutile.
Sentì suonare al citofono. Erano i suoi genitori. Lo sapeva perché un’ora prima avevano telefonato, preannunciandole la visita. Rimase immobile in poltrona, come inebetita. Fu necessaria una seconda citofonata per indurla ad alzarsi e aprire.
Intanto dalla tv, sintonizzata a basso volume su un telegiornale a cui Laura non prestava la minima attenzione, la speaker annunciava l’emergere di una nuova malattia contagiosa in Cina, trasferita all’uomo, così ipotizzavano, dai pipistrelli.
Poco dopo udì il portone richiudersi quattro piani più sotto e un intenso vociare. Insieme ai familiari qualcun altro doveva stare giungendo al capezzale del malato, ma non le importava sapere chi. Si risedette, lasciando la porta spalancata. Ah, se avesse potuto continuare a crogiolarsi nella sua beata ignoranza. Si sentiva così felice, allora.
Invece, questo almeno era il suo ragionamento, la sua smodata passione per l’artista le aveva chissà come permesso di penetrare il velo della realtà e di entrare in una qualche forma di risonanza con la mente creatrice stessa. Con Dio, per così dire. Ma un dio assai frustrato, almeno sulla base di quanto aveva percepito. Tant’è che quello che lei aveva sempre considerato il mondo, la realtà, era una finzione, una creazione di Salvador Dalì. Il vero, unico, mondo reale, di fatto irraggiungibile, era quello mostrato nei quadri surreali del pittore catalano.
Dalì si era creato nella mente l’illusione della nostra esistenza e l’illusione aveva assunto un proprio spessore, una propria concretezza. Era appunto questo ciò che cercò di spiegare ai genitori, a Elisa e a un vecchio compagno di scuola del padre, un sessantenne con la barbetta, gli occhiali e il volto assai smunto. Uno psichiatra, scoprì durante la conversazione.
«Io, noi e tutti gli esseri umani che conosciamo non esistiamo veramente. Siamo solo la visione di un pover’uomo insoddisfatto di sé ma assai creativo. Quelli che qui sono i dipinti surreali che lo hanno reso famoso, là sono semplici scorci del paesaggio circostante, anche se non sono proprio così, perché le immagini che vediamo noi nei quadri sono deformate, distorte dal passaggio dimensionale.»
«Ma questo non ha senso, lo capisci? Senti qua, lo senti com’è tangibile? Questo è il mondo, questa è la realtà. Certo, è pieno di problemi e di difetti, ma non è con una fuga dalla realtà che li risolvi», s’infervorò suo padre, assestando colpetti alla credenza.
«Dev’essere accaduto qualcosa che ti ha sconvolta, ma vedrai che presto starai meglio e non ci penserai più», aggiunse Elisa.
«L’unica cosa che mi ha sconvolto è stata scoprire che non siamo reali».
«Laura, per favore, cerca di ragionare, stai dicendo un mucchio di assurdità. Dove ci troveremmo se, come tu dici, non fossimo reali? Noi occupiamo uno spazio fisico, no? Dove allora?»
«E come posso saperlo, papà? Forse l’universo è un’illusione che non ha una reale dimensione fisica, oppure si è esteso parallelamente a quello originario, oppure ancora è contenuto in un singolo atomo un tempo appartenuto alla mente di Dalì e ora chiuso dentro la sua bara, tra i resti in putrefazione del suo cervello. Non ne ho idea e neppure m’importa».«Sì, d’accordo, ma pensi appunto un attimo a quanto ha appena affermato, signorina», – intervenne lo psichiatra, – «Salvador Dalì sarà morto da trent’anni e passa. Se noi fossimo davvero un parto della sua fantasia, avremmo smesso di esistere da altrettanto tempo, le pare?»
Laura scosse la testa, abbattuta. Che la ricoverassero pure, se lo desideravano, non si sarebbe opposta, anzi. Chissà, forse era davvero pazza e in tal caso avrebbe potuto essere curata. Non le restava altro a cui aggrapparsi, oramai. Non si faceva tuttavia illusioni.
L’obiezione del dottore sembrava ragionevole, eppure era sbagliata e lei sapeva il perché, lo aveva “visto”. Prima di tutto quel Dalì non era propriamente lo stesso che tutti conoscevano di fama, perciò la cronologia nota della sua esistenza era irrilevante. E a ogni modo loro continuavano a esistere perché nell’intricata opera complessiva realizzata in vita, in quell’altra vita, e formata, una volta completata, da oltre un centinaio di trame indipendenti tra romanzi e racconti, il Salvador Dalì autentico aveva costruito una vera e propria storia futura, in cui il mondo andava avanti per decenni anche dopo la sua scomparsa.
In essa il tutto era descritto in maniera assai minuziosa e ovviamente con complicazioni sufficienti a far divertire i lettori. Era dunque un mondo in cui gli eventi fondamentali erano prestabiliti e in cui il libero arbitrio, se c’era, doveva esistere solo riguardo agli avvenimenti secondari, quelli non specificatamente annotati. Un mondo in cui, per inciso, lui, Dalì, incensato da tutti, era nell’empireo dei grandi dell’arte.
Ma per loro avrebbe potuto esserci un futuro, nei tempi lunghi? Ne dubitava. Il giorno corrispondente a quello in cui anche la storia narrativa collocata più avanti nel tempo giungeva alla parola fine, l’universo in cui si trovavano avrebbe smesso di esistere e tutto sarebbe sparito. E a quale scopo, allora, continuare a vivere, trovarsi un lavoro, sposarsi, fare dei figli?
Li osservò per qualche secondo, indecisa, poi decise di lasciar perdere. Era inutile spiegarglielo, sarebbe servito solo a farla ritenere ancora più suonata.
«Voi non capite, ma in fondo è meglio così. Vi invidio.»
2022 Fine.