Il male esiste ed è in mezzo a noi

 
Il male esiste
ed è in mezzo a noi

Il male esiste ed è in mezzo a noi

Ho ancora nitidi nella memoria la voce concitata, il gesticolare convulso e lo sguardo spiritato di Giorgio La Pira, che in una trasmissione televisiva sosteneva con grande fervore l’esistenza del diavolo e la sua presenza in mezzo a noi. E ricordo bene il mio fastidio di giovane radicale qual ero, prima che Pannella e il suo seguito si impadronissero del partito, all’idea che un uomo pubblico, la Pira era sindaco di Firenze, si lasciasse andare senza controllo a baggianate degne del pulpito di Savonarola. A distanza di tanti anni devo riconoscere che quel piccolo grande uomo aveva ragione. Non che io mi sia nel frattempo convertito alle favole della nostra ex religione di Stato: prendo il diavolo di La Pira come un nome fra tanti che si possono dare al male e riconosco che il male esiste ed è in mezzo a noi.
 
 
 Ma sono anche convinto che l’ipostasi del male rappresentata dal demonio sia paradossalmente rassicurante rispetto a ciò che è in sé il male. Il demonio di volta in volta incarna la ribellione, la seduzione, l’eros, la sfrenatezza. Ma non sta lì il male. La ribellione, la lussuria, la seduzione  sono minacce per l’ordine costituito, per la morale, per la stabilità sociale e la loro demonizzazione è  uno strumento per spaventare e soggiogare le coscienze. Ma non è quello il male. Che cos’e veramente il male? La tradizione cristiana è su questo punto tutt’altro che univoca. L’angelo ribelle è concettualmente all’opposto rispetto alla concezione di Agostino. Per il vescovo di Ippona  il male in sé non esiste: è la scelta umana di un bene inferiore rispetto ad uno superiore in un mondo che è tutto buono, tutto positivo, in quanto creato da Dio. Per il fine teologo la creatura rispecchia il creatore e di conseguenza il male non può esistere: ammetterne l’esistenza farebbe cadere nella trappola del dualismo manicheo. Eppure fra questa dottrina più matura e l’altra, popolare, ingenua e terrificante, è più vera la seconda, quella per l’appunto riproposta da La Pira, spogliata di tutte le connotazioni vitalistiche che la tradizione gli ha attribuito.

Il male non è il comportamento malvagio, non è il peccato; non si fa il male: si è il male. È il male che agisce in noi, è il nostro male, il male che siamo noi.
 
Il male non si spiega, perché spiegare significa ricondurre qualcosa a qualcosa d’altro mentre il male è irriducibile, non rinvia ad altro da sé. Sul male la sociologia dà le peggiori prove di sé: travisa, banalizza, parla d’altro, tira in ballo la famiglia, l’educazione, la società, la marginalità, le frustrazioni e così via sragionando. Tutto perché fa paura ammettere che la bestia è in noi, è ciò che in qualunque momento potremmo essere. Per questo ogni teorizzazione è fuorviante e anche quando parte, come accade con Freud, da premesse corrette a mano a mano che si viene articolando ne perde di vista la natura vera: diventa l’Es, il sistema istintuale, l’inconscio, insomma un guazzabuglio  nel quale la bestia non si vede più. Meglio allora la finzione letteraria di Stevenson, a patto di non interpretare il mister Hide come l’esplosione del represso, la liberazione di un’energia primigenia. Perché il male non è niente di tutto questo. Non ha niente a che fare con gli istinti, che sono funzionali alla vita e, di conseguenza, ai valori che la vita esprime; non ha niente a che vedere con l’energia, che è slancio vitale, positività. Il male è cecità emotiva, pigrizia mentale, opacità, inerzia. La bestia prende il sopravvento quando si perde lucidità, quando si difetta di strumenti cognitivi, che non vuol dire quando si è fuori di testa o in preda all’ira. Certo, in preda all’ira si possono compiere gesti inconsulti, si diventa incapaci di controllare le proprie azioni e di valutarne le conseguenze, può venir meno la capacità di reagire in modo proporzionato, si possono fare cose delle quali ci si pentirà, cose riprovevoli sotto l’aspetto morale e sociale. Altrettanto si può dire della paura, che può spingere a sottrarsi alle proprie responsabilità, a voltarsi dall’altra parte, a non esporsi quando non è lecito evitarlo. Ma non è questo il male. Il male non agisce d’impeto. Il male è tranquillo, di una tranquillità stupida e fiacca, agisce con una sua logica sbiadita, con un simulacro di lucidità e con degli obiettivi scialbi, poveri, miserabili come la soddisfazione che procura il loro conseguimento.

Il male ha la faccia ottusa e lo sguardo inespressivo di certi adolescenti ma anche  ma anche la sorda, e sordida, sicurezza del gregario che obbedisce ad un ordine infame o l’occhio sfuggente della madre che sacrifica il figlio per compiacere l’amante. Non è l’istinto che ha guidato la mano di Maso ma un ragionamento, un freddo calcolo come il piano messo a punto dai due ragazzi ferraresi. Non è l’ubris, una forza, a spingere gli uomini che bruciano le donne; non è la gelosia, l’amore tradito, perché la gelosia è un tarlo che tormenta dentro, non spinge al delitto: la causa, o, meglio, l’attore del delitto è lui, il male, la stupidità che accompagna pedinamenti, preparativi, appostamenti, trucchi miserabili per intrappolare la vittima. Semmai si può dire che una personalità debole, dipendente, perduto il sostegno che lo sollevava dalla sua miseria torna in una condizione di materialità e di opacità, di morte dell’anima, di incapacità di dare senso all’altro.

In una cosa la tradizione cristiana ha visto giusto: quando descrive l’astuzia e la capacità di mistificare del demonio. Il male non conosce pentimento. Mentre nel delitto d’impeto l’autore rimane sconvolto, vorrebbe tornare indietro nel tempo, è incredulo e disperato prima che pentito per quello che ha fatto, il male dissimula, copre le tracce, mente e se crolla non è perché ha orrore di ciò che ha fatto ma perché vede crollare il castello delle sue menzogne.

Non c’è niente di eroico nel male. Il male non è l’angelo ribelle né l’espressione di un ego smisurato al di là dei giudizi di valore. Il male è una bestia flaccida, il male è l’incapacità di dare senso all’esistenza, il male è nella corale stupidità dei tifosi o dei fedeli, nell’ubriacatura collettiva dei manifestanti, nell’odio stupido dei terroristi, simile alla “falsa rabbia” del cane decerebrato in un laboratorio di ricerca.

C’è una diffusa riluttanza a riconoscere non solo la presenza ma la stupidità del male e c’è la tentazione di matrice cattolica di farne una sorta di agente patogeno allignato in un’anima incolpevole, qualcosa di cui non si è responsabili, un corpo estraneo di cui si è la prima vittima.

Come dire che l’individuo è di per sé originariamente sano e viene infettato dal maligno. Il corrispondente laico di questa concezione è l’idea del male come malattia, incapacità di intendere, perdita della ragione, da imputare, secondo le scuole, alla società o alla biologia. Ma se rovesciamo questa prospettiva il male è una condizione originaria, dalla quale ci si solleva attingendo la luce dello spirito. Quando questo non accade ha ragione Hobbes: homo homini lupus.

Ci sono nella vergogna della shoah responsabilità storiche e culturali. Quelle della Chiesa che per secoli ha vituperato gli ebrei, li ha emarginati, ha incoraggiato i pogroom, ha condannato il popolo ebraico tutto per il “deicidio”, quella di un leader politico intossicato dalla lettura di Nietzsche che attribuiva all’“ebreo internazionale” le malefatte della finanza mondiale, quelle di tedeschi e polacchi indifferenti alla sorte del vicino ebreo e magari convinti di poterne trarre un vantaggio per sé, come gli aspiranti insegnanti italiani che denunciavano i colleghi ebrei per prenderne il posto; ma il male nella sua espressione più sordida è in quelli che non solo avevano davanti agli occhi l’orrore ma ottusamente, tranquillamente, attendevano nei lager al loro ufficio di custodi, di ausiliari, di funzionari con precisione, pedanteria, senza rabbia, senza conflitti interiori, senza pentimenti.

 La bestia non ha alcuna grandezza. La bestia si aggira nella stupidità delle folle esaltate, nella zaghrouta diesultanza delle donne palestinesi per la strage delle torri gemelle, nei linciaggi, nelle nefandezze collettive del passato e del presente, dallo smembramento del cadavere di papa Formoso a quello del direttore del carcere di Regina Coeli. La storia ci insegna che la barbarie è sempre con noi, che la civiltà, l’intelligenza, l’umanità non sono mai conquiste definitive, che individui singoli e popoli interi possono sempre ricadere o rimanere nell’abisso della stupidità. Come quei generali e quei politici americani che senza motivo, e del resto non poteva esserci un motivo, semplicemente per vedere che effetto avrebbe fatto e per intimorire i loro alleati russi, fecero esplodere la bomba atomica sulla testa dei cittadini di Hiroshima e di Nagasaki, per poi raccontare la storiella che in questo modo avrebbero costretto il Giappone alla resa con qualche giorno di anticipo.

«Tout est bien sortant des mains de l’Auteur des choses; tout dégénère entre les mains de l’homme». Questa solenne sciocchezza è all’origine di tutte le elucubrazioni tendenti a incolpare l’educazione, l’ambiente, la cultura  di quelle azioni nelle quali si manifesta la bestia. La creatura, nonostante Rousseau, non è buona; è semmai jenseits von Gut und Böse, al di là del bene e del male ma in un’accezione negativa, però è dotata della capacità di dominare la bestia che è in lei e se non lo fa è essa il male. Può illuminare con la luce della ragione e la forza dell’istinto l’ottusità, l’inerzia, la pesantezza della materia di cui è fatta a patto di una tensione continua che mantenga acceso il sacro fuoco dell’intelligenza e le consenta continuare a librarsi nella leggerezza dello spirito. Non è vero che si cade: semplicemente non ci si solleva. Chissà mai quali ferite narcisistiche, quali traumi infantili, quali costrizioni hanno spinto il diciassettenne di Ferrara a spaccare la testa ai genitori dell’amico che gli ha commissionato il delitto per mille euro. L’idea che ci sia qualcuno che cerca spiegazioni, che farnetica di  percorsi di recupero, di riabilitazione, di reinserimento è raccapricciante. Non ci sono spiegazioni né ci sono ferite o traumi da portare come cause o attenuanti, e non c’è nessun percorso, nessun recupero, non c’è niente da riabilitare o da reinserire C’è semplicemente il male, la bestia, se lo volete chiamare così, il demonio. Ed è ormai irrilevante che si processino l’esecutore e il suo complice e mandante, che li si affidino al carcere o a un’altra struttura, che li si lascino liberi o, se il nostro ordinamento lo prevedesse, si sopprimano come in altri tempi e in altre latitudini sarebbe avvenuto. La società esige la sua vendetta, per quanto edulcorata, velata, mascherata, politicamente corretta ma a noi non interessa il recupero perché non c’è niente da recuperare. I due assassini non avevano arricchito prima e non arricchiranno dopo la nostra umanità. Erano e rimangono, come Maso,  un prodotto di scarto. Ci basta di sapere che chi ha già nociuto non nuocerà più, con la consapevolezza che qualunque cosa si faccia di lui non si potrà estirpare il male. Si potrà, al massimo, se neutralizziamo gli ipocriti, i buoni per mestiere, quelli che ci vogliono buttare la croce addosso, mantenere più alta la guardia, cogliere i segnali premonitori, imparare per quanto possibile a riconoscere la bestia e a tenerla a bada.

Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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