Il male di vivere

IL MALE DI VIVERE
Che cosa significa l’espressione “male di vivere”?

 

 

  IL MALE DI VIVERE

 

 Che cosa significa l’espressione “male di vivere”? Il male, in questo caso, potrebbe avere il significato di malattia, come nelle espressioni “mal caduco” o “mal francese” o “mal sottile” o “mal della pietra” o “brutto male”? Se così fosse dovremmo concludere che la vita stessa è, o potrebbe essere, una malattia, dato che  non si tratta di un male specifico che avviene nella vita, ma del male della vita in quanto tale. In altri termini, chi nasce alla vita nasce al tempo stesso al dolore, alla sofferenza e alla malattia (oltre che alle malattie) mortale; infatti ogni vivente è anche un condannato a “sora nostra morte corporale, de la quale nullu homo vivente po’ skappare””, come canta la laude di Santo Francesco.

 
Ma se non c’è vita senza morte, questo significa che non c’è neppure morte senza vita, dal momento che non si può morire se non si è (ancora) vivi, non per niente si comincia a morire dal giorno della nascita, è solo una questione di tempo. Per essere sicuri di non morire mai bisognerebbe non nascere, rimanere nel nulla eterno da cui veniamo e a cui, secondo i filosofi e i poeti nichilisti, prima o poi ritorneremo: “Al gener nostro il fato  / non donò che il morire.” (Leopardi); “La morte si sconta vivendo” (Ungaretti); “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi- / questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera…” (Pavese). Uscire dal nulla solo per soffrire del male di vivere e poi tornare là da dove siamo venuti, cioè nel nulla, che senso ha? Ne valeva la pena? Possibile che la vita sia una malattia che solo la morte può guarire? Per Eugenio Montale, ad esempio, insieme al male di vivere c’è anche un poco di bene: in un celebre osso di seppia, il poeta dice di aver incontrato spesso il male di vivere: “era il rivo strozzato che gorgoglia /era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato”.

 
Sono figure della sofferenza, della negatività, del mancato raggiungimento di un fine, del fallimento, della caduta, che nondimeno non sarebbero tali se non ci fossero, in natura, le figure opposte della pienezza di vivere: il rivo che scorre senza impedimenti, la foglia verde nella luce del giorno, il cavallo che corre libero nella prateria. Ma il poeta si identifica nelle figure della sofferenza, e quando cerca figure che significhino quello che per lui è il bene, non trova che “prodigi”, cioè fenomeni inconsueti, strani, fuori dall’ordine abituale delle cose, schiusi dalla “divina Indifferenza: / era la statua nella sonnolenza / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato”.

 
Per Montale figure del bene sono quelle che sospendono, come per miracolo, il tempo, e che sono al di là (o al di qua) del bene e del male perché indifferenti così al dolore come al piacere, all’infelicità come alla felicità. E tuttavia, l’indifferenza intesa come “attimo estatico” che pone tra parentesi il male di vivere, più che una figura del bene è piuttosto una figura della fuga da una realtà dolorosa, quasi di quel momento magico in cui  tutto potrebbe ancora accadere, un punto zero da cui la vita potrebbe ricominciare ma senza più cadere in quelle trappole e lusinghe che, promettendo felicità, ci lastricano la strada per l’inferno già su questa terra: “guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali, beati quelli ke troverà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no’ ‘l farà male”. Per Santo Francesco non bisogna temere “sora nostra morte corporale” ma la morte dell’anima, questo è il vero male da cui tutti gli altri derivano.
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