Il dovere di un resoconto scomodo

Tra i molti libri che si può scegliere per farsi un’idea sul conflitto israelo-palestinese un po’ più fondata da quella che ce ne deriverebbe se ci accontentassimo di telegiornali-velina, sicuramente vi è da includere J’accuse di Francesca Albanese, completato da una lunghissima ( tanto che potrebbe perfino considerarsi un libro a sé ) postfazione della filosofa Roberta De Monticelli.

Si tratta in realtà di una intervista in cui l’intervistatore, Christian Elia, nel porre le domande fornisce egli stesso al lettore degli elementi di contenuto e di riflessione tali per cui a buon diritto lo si può ritenere coautore del testo. Il quale in effetti guadagna molto dall’esperienza di un giornalista che, in quanto specialista del mondo arabo, può basare a buon diritto i suoi quesiti e le sue considerazioni sull’esperienza accumulata sul campo mediante un gran numero di servizi e reportage.

Ma perché tra i già molti testi che trattano della questione israelo-palestinese, moltiplicatisi dopo il 7 ottobre 2023, quello della Albanese lo si dovrebbe preferire o lo si dovrebbe comunque inserire tra i fortemente consigliati?
A questo punto è opportuno chiarire che non si è così supponenti da ritenersi in grado di istituire una graduatoria con la quale stabilire chi eccella.
Semplicemente si vuole indicare un testo ( Postfazione esclusa però, non perché non sia valida, ma perché vi si adotta un differente registro ) che sa, nel limite del possibile, coniugare rigore e semplicità; e che anche li lega con il valore aggiunto di una competenza, specificità e oggettività derivate dal ruolo dell’autrice, conferitole dall’ONU, di Relatrice Speciale per i Territori Palestinesi Occupati.

I suoi frequenti riferimenti e richiami di carattere storico-giuridico-istituzionale, sono fondamentali: servono a mostrare che si affronta la situazione facendo parlare i fatti e i documenti.
Cosa non facile, perché le autorità israeliane ostacolano e intimidiscono in tutti i modi coloro che si adoperano a certificare quanto accade nella Striscia, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania ( possiamo davvero credere che sia casuale il gran numero di giornalisti caduti nell’esercizio del loro lavoro sul campo? ), ossia in quel poco che resta dell’iniziale 43,53% del territorio assegnato dall’ ONU nel novembre del 1947 ai Palestinesi contro al 56,47% assegnato agli Israeliani.
Territorio palestinese ormai internamente corroso, sconnesso e frastagliato, composto da zone interrotte da blocchi stradali, da chilometri di filo spinato e da invalicabili torrette di guardia che impediscono in quello che avrebbe dovuto essere un libero Stato il libero movimento.

E’ sotto gli occhi di tutti, persino di chi non vorrebbe vedere se si trova per caso davanti ad una cartina geografica che riproduce l’attuale situazione del territorio, come recarsi al lavoro o a scuola per un Palestinese sia quotidianamente un’impresa snervante e non sempre possibile.
Deve infatti superare tutti i chekpoint e giorno dopo giorno riuscire a mantenere la propria identità e dignità soffocate puntualmente da una narrazione che comincia da lontano, dai libri delle primarie.
E che è l’unica consentita dal setaccio della censura israeliana.
In questo contesto ogni cosa abbisogna di un permesso. Da una visita medica ad una visita ai parenti di un’altra città, e spesso in un settore della stessa città.

La parcellizzazione geopolitica e urbana nonché quella dei campi e dei pascoli si trasforma a mano a mano in una mancanza di integrità identitaria, spezzando e frantumando l’idea del futuro e anche quella minima aspirazione che fa leva sulla basica idea di un pur modesto progetto di vita.
Il tutto in un milieu di continua dipendenza, in cui bisogna chiedere per favore di poter usufruire dei propri diritti più connaturati ( compresi a volte quelli molto materiali all’acqua, all’energia elettrica, agli impianti fognari, alle cure, alla percorribilità delle strade e all’uso dei mezzi di comunicazione ), e in cui l’accettazione è dilazionata ad libitum e il rifiuto non ha l’obbligo di certificazioni.
In un contesto cioè in cui la continua umiliazione porta quasi fatalmente o all’annientamento psicologico di sé e delle proprie rivendicazioni, o al desiderio di annientamento fisico dell’altro.
Un meccanismo perverso necessario al potere per alimentare un nemico funzionale ad un trend in cui non solo le terre illegalmente occupate dai coloni non vengono restituite, ma si estendono giorno dopo giorno.
Come ben spiega la De Monticelli, un meccanismo necessario alla narrazione tale per cui l’apartheid praticato ( i minori palestinesi vengono, a differenza di quelli ebrei, giudicati da un tribunale militare e non civile ) e il razzismo istituzionalizzato ( vedasi Legge del 18 luglio del 2018 ), altro non sarebbero che metodi di autodifesa per le proteste e le rivolte.

Al di là dei contenuti, il libro di Francesca Albanese presenta una peculiarità: ha lo stesso titolo della celeberrima lettera che il grande romanziere Emile Zola pubblicò sul giornale “Aurore” in difesa del capitano francese Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di tradimento.
Serviva un colpevole su cui scaricare una colpa che era di un altro, un intoccabile ( nella fattispecie il Maggiore dell’Esercito Esterhazy, figlio di una contessa e di un marchese ), e un ebreo poteva fungere ottimamente da capro espiatorio.
Ora non è che, come qualcuno ha scritto non disponendo di più seri argomenti e con l’intento evidente di sminuirne la figura, Francesca Albanese si senta una novella Zola.
Semplicemente ha voluto sottolineare che la difesa per chi subisce ingiustizie, oltretutto gravi e protratte, deve valere sempre, a prescindere dall’appartenenza politica, etnica, religiosa… e a prescindere che si tratti di un solo uomo o di un intero popolo.
Cioè ha fatto quello che una Relatrice Speciale nominata dalle Nazioni Unite se non avesse fatto, dovrebbe essere accusata di non aver fatto.

Fulvio Baldoino

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