Il disgusto per il Ventennio di chi del Ventennio non sa nulla
Cacciari non mi ha mai ispirato grande simpatia. L’ho sempre considerato un filosofo da salotto, una sorta di fossile vivente del diciottesimo secolo che ha fatto la sua fortuna en épatant les bourgeois. Gli riconosco il merito di aver riconosciuto evidenze che il pensiero unico tenta di occultare, come il ricorso alla retorica antifascista per coprire il nulla politico della sinistra o la responsabilità esclusiva della Nato nella tragedia ucraina ma per il resto le sue sono solo banalità ben impacchettate. In una sua intervista a Radio 24 è scivolato due volte: la prima quando si è detto “disgustato” del saluto romano dei giovani militanti di destra, la seconda quando ha accreditato Giorgia Meloni di una strategia politica di ampio respiro. Proprio quella Meloni che ha dato il colpo di grazia alla politica, alla democrazia, all’arte del governo che si misura non con le dichiarazioni – per altro contraddittorie – ma con le realizzazioni, con i fatti. Sul disgusto è anche peggio: i simboli sono un segno di appartenenza, di identità e di legame col passato nonché, vivaddio, di un ideale.
Se Cacciari, che giustamente prende le distanze dalla retorica antifascista, si dichiara disgustato da simboli che tentavano pedagogicamente di far rivivere la romanità sul solco di tutta la nostra tradizione letteraria da Petrarca a Machiavelli, da Leopardi a Manzoni, da Carducci a D’Annunzio significa che nel conformismo di sinistra è immerso anche lui fino al collo. Quella sinistra che si fa beffe dei riti “patriottardi” del Ventennio senza sapere che sono semplicemente in continuità col Risorgimento e senza avere il coraggio di prendersela, tanto per fare un esempio, col Puccini che ha dato le note all’inno scritto da Salvatori sulla traccia di Orazio o col Pascoli della “Grande proletaria si è mossa”, al quale esplicitamente si ispirava il colonialismo fascista.
Cacciari dovrebbe sapere che un uomo di governo si misura con la sua capacità di fare. Certo, lui non è uno storico e forse non ha avuto a disposizione una tradizione familiare. Però sconcerta il fatto che un illustre accademico per di più investito nel passato di delicate responsabilità istituzionali guardi al passato come un Fratoianni qualunque. Si può, e si deve, condannare qualunque limitazione alla libertà di stampa, alla libertà di associazione e, ovviamente, di espressione. Ma i primi a violarla sono proprio gli officianti del pensiero unico e corretto, che si indignano per una battuta da osteria (ma dimenticano gli striscioni dei compagni: “Dieci, cento mille Auschwitz” quando era in campo una squadra di basket o di calcio israeliana) e vorrebbero incriminare Vannacci che parla di Mussolini come di uno statista, quando a riconoscere il Duce come tale, anzi come il più grande statista del suo tempo, non furono solo il papa o il mahatma Gandhi ma Churchill, Rooselvelt, Lenin e tutti gli osservatori contemporanei.
Non ne faccio una questione ideologica ma vorrei che il giudizio su chi ha governato il Paese tenesse conto della strategia politica e delle realizzazioni pratiche, come fanno quanti dispongono di informazioni dirette, si sono presi la briga di documentarsi o semplicemente sanno guardarsi attorno. Mi permetto, a questo proposito, di ricorrere ad una mia personale esperienza. Da un paio di settimane, reduce da una brutta caduta dalla bike che ha riacutizzato le condizioni di una colonna vertebrale malconcia, ho dovuto rinunciare alle consuete attività che mi isolano dal mondo e mi sono consentito una passeggiata sul lungomare con sosta sul muretto. Davanti a me sulla panchina tre anziani – dico anziani ma di fronte a me erano degli adolescenti – e li sento dire “e lo Stadio: ora lo chiamano Armando Picchi ma il suo nome era Edda Ciano Mussolini; e gli Spedali Riuniti? e la terrazza Mascagni così ribattezzata ma era intitolata a Costanzo Ciano?” e continuavano con Tirrenia, costruita in pochi mesi come Littoria e le tante altre città che favorirono il ripopolamento di aree malsane restituite all’agricoltura o al turismo. Poi ricordavano la bonifica del Calambrone e il progetto straordinario di una città dei ragazzi di cui restano i segni nelle colonie, esempi di un’architettura avveniristica e ora trasformate in alberghi e residence per ricchi. Ma uno dei tre andava oltre le testimonianze fisiche e ricordava suo padre che grazie a Mussolini invece di sgobbare 12 aveva goduto delle agognate otto ore, che con anarchici, socialisti e liberali sarebbero rimaste un miraggio. Insomma quest’Italia che sembra ignorare l’organizzazione, l’efficienza e l’efficacia, questa Italia cialtrona e sprecona, cronicamente afflitta da lungaggini burocratiche, dallo scaricabarile delle responsabilità, da una diffusa incompetenza, questa stessa Italia incredibilmente durante il Ventennio non solo ha dominato in tutti i settori della scienza e della tecnica ma dette prova di una straordinaria capacità organizzativa – basti dire che seppe liquidare la mafia siciliana, poi tornata al seguito delle truppe americane, seppe liberare le energie intellettive e la creatività della nazione, testimoniate proprio in questi giorni dalla mostra di Rovereto (quell’altro finto anticonformista di Sgarbi che l’ha ideata tanto per pararsi il lato B l’ha accompagnata con lo slogan ipocrita “ nell’arte non c’è fascismo nel fascismo non c’è arte”). Intendiamoci: non voglio fare l’agiografia di Mussolini né l’elogio dell’uomo forte ma sentire nanerottoli della carta stampata, politici di mezza tacca e graziose signorine beatamente ignoranti che buttano in burletta un periodo a conti fatti felice della nostra storia mi provoca una profonda irritazione. Se poi a questo coro stonato si aggiunge la voce di uno come Cacciari che si è formato sull’ultima grande stagione della filosofia tedesca mi cascano le braccia.
Infatti non basta denunciare l’antifascismo per quello che è: il nuovo oppio dei popoli e un surrogato per il vuoto della politica. Ci vuole anche il coraggio di riappropriarsi del passato, di riconoscere senza paraocchi quel che i nostri padri e i padri dei nostri padri fecero per rendere l’Italia grande nel mondo, ci vuole il coraggio di essere fieri di una stagione eccezionale della nostra cultura scientifica artistica e letteraria. Non è nostalgia del fascismo ma semplice presa d’atto della realtà. E al fascismo stesso bisogna saper guardare senza confonderlo con la canaglia che soprattutto ai suoi albori vi allignava. E ci mancherebbe altro che se uno non ha pregiudizi perché non deve render conto a nessuno delle sue opinioni dovesse essere infamato come nostalgico della dittatura. Piuttosto bisognerebbe mettere alla gogna del ridicolo quei servi sciocchi e quelle garrule servette che nei panni del Minosse dantesco sono quotidianamente impegnati a giudicare e condannare chiunque si azzardi a sconfinare dal lessico politicamente corretto anche se dice delle ovvietà. A farne le spese è stato soprattutto Salvini, che dell’ovvio è un vero campione, ora tocca a Vannacci. Dette dal generale le evidenze diventano provocazioni: Mussolini uomo di Stato, la Decima Mas orgoglio della marina italiana, la scuola marginalizza i disabili fingendo di includerli. Provare a negare una di queste evidenze.
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