Il diritto del popolo alla rivoluzione, ma la voce del popolo non è quella degli studenti

Non ho niente contro le manifestazioni. Sono e sono state nel passato espressione diretta della volontà o del disagio popolari di cui i governi devono tenere conto. Non solo, quando un governo asservito agli interessi di una minoranza agisce contro l’interesse nazionale il popolo ha non solo il diritto ma il dovere di ribellarsi. In questo caso , come accadde con la rivolta ungherese del 1956 , anche la repressione è comunque una vittoria perché costringe il potere a mostrare il suo vero volto liberticida.

Rivolta ungherese del 1956

Se la parte sana del popolo ucraino invece di chiudersi in casa, mugugnare, rifugiarsi all’estero, cercare di sfuggire ai reclutatori o disertare  avesse affrontato nelle piazze chi lo stava portando verso la rovina la Nato, l’Ue e il governo americano non avrebbero potuto tanto facilmente servirsi dell’Ucraina per una guerra per procura contro la federazione russa mandando al macello intere generazioni.

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Certo anche quella di Maidan che costrinse alla fuga il legittimo presidente aprendo la strada all’ex comico era una manifestazione di piazza, orchestrata  da gruppi nazionalisti nostalgici della repubblica nazista di Bandera: è un rischio che si deve correre contando sulla reattività della maggioranza.

Insomma la democrazia non è un bavaglio né uno strumento per narcotizzare i popoli. Le elezioni sono una conquista indiscutibile ma non dimentichiamo che sono organizzate dai detentori del potere. A maggior ragione la piazza è legittima interprete della sovranità popolare se il suffragio è riservato a una minoranza o ne esclude comunque una parte di cittadini, come gli incapienti, gli analfabeti o le donne. Ma anche col suffragio universale e libero da scoperti condizionamenti in una democrazia rappresentativa non si può escludere, anzi è altamente probabile, che i rappresentanti tradiscano i rappresentati nel momento stesso in cui si trovano a contatto diretto col potere e ne diventano partecipi.  La piazza diventa allora un richiamo, un campanello d’allarme, un modo per costringerli a scendere dall’empireo del privilegio per rimettere i piedi per terra.

La storia del nostro Paese è segnata dall’intervento diretto dei cittadini. Ricordo la marcia dei 40.000 che rimise in asse una società che si stava pericolosamente sbilanciando, la manifestazione delle mogli dei militari che costrinse il governo a rivederne le condizioni economiche o,  nell’ormai lontano 1960, prima che lo sciagurato  68 aprisse la strada alla violenza di gruppi estranei alla società civile, quando una grande pacifica marcia per la pace che ebbe fra protagonisti Pasolini non servì a far uscire l’Italia dall’alleanza atlantica ma contribuì sicuramente a indirizzare la Dc e i suoi alleati verso una politica estera meno servile,  Si pensi a qual è oggi quella del trio Meloni-Crosetto-Tajani.

Che occupazioni, assemblee permanenti, cortei e chiassate  di studenti siano espressione di coscienza  civica e democratica mi sembra invece poco probabile come mi sembra azzardato riconoscere allo studente in quanto tale un ruolo attivo nella società. Non lo aveva nemmeno  quando ancora la scuola italiana era all’avanguardia nel mondo: letture mal digerite e turbamenti ormonali creavano una miscela ideologica senza capo né coda secondo i casi orientata verso i valori dello spirito o quelli della materia. Una miscela che alimentava interminabili discussioni sui massimi sistemi intervallate dalle prese di posizione, per la verità meno enfatiche di quanto si possa oggi credere, a favore, in piena guerra fredda, dell’America o della Russia.  Pochi di quei ragazzi  erano figli del popolo. Nelle università e nei licei, che erano il luogo naturale di quei fermenti e l’incubatrice dei futuri politici (oggi si direbbe della classe dirigente) fino a tutti gli anni Cinquanta il grosso era costituito dai figli della piccola borghesia; la classe operaia  rappresentata negli istituti professionali e in misura minore in quelli tecnici non si faceva sentire. Se c’era fermento e, devo dire, voglia di capire e di farsi sentire era nei licei.   Ma le voci che uscivano dalla società civile, nei luoghi di aggregazione o nelle piazze  non erano quelle degli studenti né dei “giovani” sui quali puntava il Pci: che fossero dei ragazzotti a pretendere di influenzare il corso della politica sarebbe sembrata un’assurdità, anche se di norma i figli erano più istruiti  dei padri e delle madri.

Con gli anni la scuola ha perso il suo carattere selettivo e, ahimè, anche la sua funzione di ascensore sociale. È vero infatti che nei primi due decenni del dopoguerra nelle aule dei licei su trenta studenti almeno dieci erano figli di professionisti funzionari o industrialotti ma erano gli altri venti ad assicurare il ricambio sociale.  Non è un caso che l’insofferenza per la severità degli studi abbia accomunato borghesi e proletari, i primi privati dei loro privilegi e spesso costretti a riparare nelle scuole private o confessionali o addirittura all’estero – la Svizzera era molto gettonata – i secondi perché svantaggiati dalla povertà culturale oltre che materiale delle famiglie di origine e costretti per emergere a essere più bravi e più intelligenti degli altri. Spalancare le porte, allargare i filtri, alleggerire i programmi:  è stato il programma di una sinistra elitaria e classista che avrebbe incontrato un formidabile ostacolo  in una scuola meritocratica (già, quel merito umoristicamente appiccicato al ministero dell’istruzione dal governo Meloni!) e ha inventato la favola della scuola di classe, ha demonizzato la riforma Gentile in nome di una mitica “riforma della scuola” tesa in realtà alla sua distruzione.

Bene, ora si è chiuso il cerchio, l’ignoranza dei genitori riflette quella dei figli, aggravata dalla mancanza di obbiettivi, di impegni e soprattutto del senso della serietà, e della durezza, della vita. Quel che ne esce sono gli slogan farneticanti, i gridolini di menadi in formazione, una fisicità brutale  e infantile che si scarica contro le vetrine dei negozi, le auto della polizia e i corpi di poliziotti con le mani legate da una Meloni terrorizzata dalla prospettiva di perdere il consenso (che non ha).

Non ho alcuna simpatia per il governo israeliano né per i coloni intenzionati a predare le terre altrui. Sono disgustato dall’inerzia delle Nazioni unite e dei paesi occidentali che non fermano la strage nella striscia di Gaza e guardano con indifferenza ai bombardamenti e all’invasione di uno stato sovrano qual è il Libano, per non dire del compiacimento sugli  omicidi ad personam elevati a strategia militare  (l’Ucraina ha fatto scuola). Nemmeno la mattanza del 7 ottobre, colpevolmente non prevenuta e colpevolmente non punita tempestivamente, può giustificare tutto questo. Così si  alimenta il sospetto che sia parte di un disegno criminale orchestrato dagli Usa che vedono minacciato il loro impero planetario e aizzano Israele contro l’Iran, che pare essere il suo vero obbiettivo, come hanno aizzato l’Ucraina contro la Russia.

Ma i rampolli della nuova borghesia sono troppo stupidi per capire che se una parte ha torto non è detto che l’altra abbia ragione.

Quello che mi sgomenta non è il protagonismo becero di studenti che emulano la canaglia dei centri sociali e anticipano le rivolte islamiste che rovineranno la vita ai nostri figli e ai nostri nipoti. Da loro non c’è da aspettarsi niente di buono ed è significativo che il loro bersaglio preferito sia non dico  il migliore ma quanto meno il più presentabile ministro della banda che ha occupato le stanze del potere. Mi sgomenta la rassegnazione, il silenzio, la noncuranza di fronte ad un governo ansioso di trascinare noi e il mondo intero in una guerra suicida, di fronte alle affermazioni farneticanti della Meloni che pare abbia completamente lbuttare fascine sul fuoco. Questo è il momento di una sollevazione popolare che spazi via lei e i suoi complici, compreso quel Salvini convinto di lavarsi la coscienza con qualche mugugno quando l’unica cosa seria che potrebbe fare, e dovrebbe aver già fatto, è uscire dalla maggioranza e far cadere il governo. E non mi si obietti che con la Schlein non cambierebbe nulla, sarebbe lo stesso o peggio: lo dico da anticomunista intransigente  e, se può significare qualcosa, uomo di destra: nel Pd qualche traccia di pacifismo e dell’antica vocazione neutralista è sopravvissuta a D’Alema e si fa ancora sentire nelle reticenze dei suoi rappresentanti. Sono la storia e l’essenza della sinistra e i politicanti ottusi e conformisti di oggi per quanto l’abbiano tradita non la possono sfacciatamente rinnegare. Ma dai Crosetto, dai Tajani, dagli Urso o dalla Meloni, dalla loro storia personale e dai loro riferimenti storici e culturali – ammesso che ne abbiano – cosa si può sperare?

Pierfranco Lisorini

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