Il caso di una strana esegesi di Agostino d’Ippona a difesa del cattolicesimo dai manichei

Agostino tende a riportare sempre tutto, anche ciò che risulta maggiormente problematico, ad una chiarificazione che vada a combaciare con le affermazioni del cristianesimo niceno, eliminando ogni scolio.
Lo fa passando da un tipo di interpretazione all’altra. Essendo vasta la scelta che permette un’interpretazione letterale, anagogica, allegorica oppure morale, gli è possibile spostarsi dall’una all’altra tutte le volte che altrimenti potrebbe incagliarsi, e riesce così a risolvere, cioè, nella fattispecie, a dare una consequenzialità canonica a quanto sta analizzando.
Ne “La Genesi difesa contro i manichei“, è impegnato ad analizzare la Genesi punto per punto al fine di annullare le critiche che proprio i manichei muovevano al primo libro del Pentateuco.
La preoccupazione di Agostino di dare una spiegazione a tutto, senza ammettere mai che ci siano, nella Genesi in questo caso, dei passaggi oscuri o discutibili, lo si può vedere bene, per portare un esempio, al capitolo 10.14 del Secondo Libro ( l’opera è composta in realtà da due soli capitoli, che l’autore chiama Libri ) dove egli fa riferimento a Genesi 2, versetti 10-14:
“Dall’Eden usciva un fiume che irrigava il giardino, e da lì quindi si divideva in quattro rami. Il primo si chiama Fison; è quello che gira intorno alla regione di Avila dove è l’oro, e l’oro di quella regione è buono, là si trovano pure lo bdellio e l’onice. Il secondo fiume si chiama Geon; è quello che gira intorno alla regione di Cus. Il terzo fiume si chiama Tigri; è quello che scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume si chiama Eufrate.”
Ebbene, come commenta Agostino? Secondo lui il fiume che scaturisce dall’Eden e si divide in quattro bracci, simboleggia le quattro virtù cardinali, cioè la prudenza, la fortezza, la temperanza e la giustizia.
La prudenza ( il fiume Fison ), “percorre dunque la terra che possiede l’oro, il rubino e lo smeraldo, cioè la regola del vivere che, purificata col fuoco da tutte le immondezze terrene, diventa splendente come l’oro più fine. Questa prudenza possiede anche la verità, la quale non è offuscata da nessuna falsità, come lo splendore del rubino non è offuscato dalla notte; essa possiede ancora la vita eterna simboleggiata dal verde vivo dello smeraldo per il vivido splendore che non diminuisce giammai.
Il fiume poi che gira intorno all’Etiopia, regione assai calda, anzi torrida, è simbolo della fortezza ardente e operosa per lo zelo dell’attività. Il terzo fiume, il Tigri, scorre in direzione dell’Assiria ed è simbolo della temperanza che lotta contro il piacere che si oppone assai fortemente ai suggerimenti della prudenza; per questo motivo nelle scritture gli Assiri sono nominati di solito come gli avversari. Quanto al quarto fiume la Scrittura non dice in direzione di quale regione scorre o quale terra percorre, poiché la giustizia si estende a tutte le facoltà dell’anima in quanto essa è l’ordine e l’equilibrio dell’anima, per il quale si uniscono in perfetta armonia queste tre virtù; la prima è la prudenza, la seconda la fortezza, terza la temperanza: in tutta questa unione e disposizione consiste la giustizia”.
Abbiamo, secondo una simile interpretazione, che le quattro virtù cardinali sarebbero rappresentate dai quattro fiumi del paradiso terrestre. Si sa però che esse sono un sistema che inizia a prendere corpo dall’antichità greca e romana; in particolare da Platone ( Repubblica, 427 a ) e Cicerone ( De Officiis, I, 5 ), pertanto molto posteriore al testo genesiaco, il quale perciò voleva dire altro da quello per cui lo forza Agostino.

Mescolando la lettura letterale, per la quale è necessario un riscontro ( il Tigri e l’Eufrate sono una realtà geografica ) con la lettura anagogico-morale degli altri due fiumi, che invece sono immaginari, e poi facendoli tutti diventare un’allegoria delle virtù cardinali, il discorso, nato in ambito veterotestamentario-ebraico, viene perfettamente a collimare con il sistema di Prudenza, Temperanza, Fortezza e Giustizia, di ambito culturale classico e poi soprattutto neotestamentario-cristiano.

Tuttavia la massima evidenza di un procedere che comunque deve arrivare ad una conclusione prefissata, per cui il ragionamento è svolto sempre in funzione giustificativa e apologetica, ci è fornita da quanto Agostino scrive nel capitolo 2, 22.34. Può scriverlo perché accade che egli si rifaccia ad una traduzione erronea, o la intenda in modo erroneo.
Infatti in nessuna Bibbia Cattolica, Ortodossa, Protestante o Ebraica, si trova il versetto 3, 23 della Genesi così come egli lo riporta:
“Allora, perché Adamo non stendesse la sua mano all’albero della vita e vivesse in eterno, Dio lo lasciò andar via dal paradiso”. 
Non è una svista perché egli nel commentare il versetto, in maniera esplicita sottolinea che
Giustamente la Scrittura dice: lo lasciò andare via, e non ‘lo scacciò’ affinché apparisse che era stato spinto dallo stesso peso dei suoi peccati verso un altro luogo a lui confacente”.
Invece il termine corretto, nonostante l’opinione di Agostino, come si è visto è proprio “scacciò”.

Se ne deduce, poiché tale versetto afferma sia giusto che Dio abbia lasciato andare via Adamo anziché scacciarlo, e poiché viene fornita anche una spiegazione del perché sia giusto, che Dio, il quale invece nella traduzione data da tutte le Bibbie canoniche risulta che lo scaccia, si è sbagliato…

Fulvio Baldoino

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