Il bitcoin NON è una moneta ma…
Il bitcoin NON è una moneta
ma un sistema di scambio mondiale
Un sistema di scambio per giunta NON controllato da nessun organismo economico riconosciuto
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Il bitcoin NON è una moneta
ma un sistema di scambio mondiale
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Una delle ultime depravazioni cui è arrivata la finanza speculativa ha un nome che ricorda l’effervescenza della tecnologia e il rumore delle slot machine di Las Vegas: il bitcoin. Ricordiamo brevemente di cosa si tratta. Il bitcoin NON è una moneta ma un sistema di scambio mondiale, anche se a molti fa comodo dipingerlo come una valuta per dargli maggiore solidità argomentativa. Un sistema di scambio per giunta NON controllato da nessun organismo economico riconosciuto, se non dal suo fondatore, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, e dai suoi adepti. Satoshi Nakamoto Partiamo quindi da questa prima assurdità: se è pur vero che l’uso di un nom de plume per uno scrittore, come ad esempio per Elena Ferrante, può contribuire a suscitare maggior interesse per le sue pubblicazioni, al contrario l’uso di uno pseudonimo per la creazione e la gestione di un sistema finanziario che nel 2018 ha movimentato (secondo il Financial Times, ma dati ufficiali non ne esistono) circa 10 miliardi di dollari di transazioni non dovrebbe essere una notizia positiva. I giornali periodicamente annunciano di avere individuato la vera identità dell’inventore, salvo poi smentire tutto nei giorni successivi. Ma questo non disarma i risparmiatori alla ricerca del guadagno facile, anzi. Il fondatore (o i fondatori) in realtà più che una valuta era convinto di aver effettuato una sorta di esperimento. Una moneta dovrebbe fungere infatti solamente da mezzo di scambio tra beni di diversa fattura (per esempio tra il pane prodotto da un panettiere e l’intervento effettuato da un idraulico) e non avere essa stessa un valore economico. L’esperimento tendeva a dimostrare il contrario: a causa del famoso rapporto tra domanda e offerta anche una moneta, e anche se immateriale, se viene richiesta dal mercato per un quantitativo superiore a quanto disponibile in quel momento, genera un suo valore intrinseco. A questo proposito il Nakamoto si premurò di precisare fin da subito che il suo sistema di scambio si sarebbe basato solamente su 21 milioni di monete virtuali, riducendo quindi fin da subito l’offerta, ma (e qui c’è il trucco) non tutti disponibili subito: a causa del complesso algoritmo alla base della sua creazione, le prime monete sarebbero state immediatamente create ma il sistema di gestione, dovendo garantire la completa tracciabilità (la famosa blockchain) di ogni moneta (e le sue frazioni fino all’ottava cifra decimale) a partire dalla sua creazione, man mano che il loro utilizzo si sarebbe diffuso nel mondo, avrebbe necessitato di computer sempre più potenti per gestire basi di dati sempre più grandi. Più passa il tempo quindi, più il sistema di produzione e gestione dei bitcoin è costoso: occorrono server sempre più potenti ed energivori (i cosiddetti “miners” o minatori), che sostituiscono in pratica le care zecche statali e vengono ripagati per il loro lavoro ovviamente in bitcoin stessi, i quali sono immessi sul mercato ormai con il contagocce. Il primo bitcoin fu quindi messo in vendita al miglior offerente in rete il 5 ottobre 2009 al valore di 0,000764 dollari: in pratica ci volevano 1309 bitcoin per fare un dollaro. Il resto è storia nota: il suo prezzo in questi anni si è impennato ed imbizzarrito, arrivando a sfondare quota 20.000 dollari (oggi mentre scrivo vale 8.700 dollari ma chissà quanto varrà quando leggerete questo articolo), mentre quelli in circolazione, se sono arrivati velocemente ad essere 16 milioni a fine 2016, sono diventati 17 milioni solo nel maggio del 2018, rallentando così vistosamente dall’obiettivo finale stabilito dal Nakamoto. Così anche il portafoglio (ovviamente wallet, in inglese, che fa più chic) deve essere virtuale; non è cioè depositato in nessuna banca riconosciuta, ed è rintracciabile su un sito internet (l’ennesimo) che attesta la presenza di alcuni codici macchina al suo interno riconducibili al proprietario che ha sborsato il denaro per aprirlo. Questi codici macchina, una sfilza di numeri e lettere, corrispondono alla quantità di bitcoin in portafoglio e garantiscono la possibilità di tracciare tutti i loro movimenti passati e futuri. Il primo bancomat di Bitcoin Chi acquista un bitcoin sa quindi per certo di acquistare una cosa che non esiste, che non potrà mai rendere materiale e che non si riferisce ad alcuna attività produttiva: acquista un bene virtuale come una nuvola di fumo o il pensiero di un essere umano, esistente per la sola comunità che frequenta la Rete, la quale ne stabilisce quotidianamente il prezzo in base a quanti allucinati in quel giorno sarebbero disposti a pagare per averla. L’investimento non mira a produrre né beni né servizi, tantomeno posti di lavoro o maggior benessere per una comunità, ma solamente ad un unico, imperante obiettivo: guadagnare denaro senza lavorare e senza dover mettere in funzione nemmeno un neurone della capacità mentale che ci viene donata alla nascita. Non occorre infatti avere basi economiche e nemmeno aver fatto master in finanza: l’importante è pregare affinchè il valore della “moneta” il giorno della vendita sia superiore a quello che aveva il giorno dell’acquisto. E sperare segretamente che il fisco italiano non riesca a tassare le eventuali plusvalenze. Un punto vendita bitcoin
Il bitcoin contravviene inoltre la regola principale che ha fatto la fortuna delle banconote tradizionali e cioè la sua esigibilità: sul retro di ogni euro infatti, la firma del governatore della Banca Europea garantisce che, a vista e al portatore, sarà riconosciuto ovunque il valore della banconota stessa. Quanto vale il mio bitcoin se non ho la luce elettrica, il collegamento internet, un computer con cui accedere, se non ricordo logonid e password? O semplicemente, cosa avverrà se il signor Nakamoto, o un suo aiutante, un giorno deciderà che il gioco è finito e staccherà i server? Lo scorso anno l’inventore di QuadrigaCx, una moneta concorrente del bitcoin, è morto in circostanze sospette portandosi nella tomba il codice criptato di accesso al portale di gestione: a partire da quel momento la moneta non ha più avuto alcun valore e 75mila sprovveduti hanno visto evaporare in un attimo i loro 123 milioni di euro di risparmi. Ma sono le regole del gioco, bellezza. Non essendoci alcuna attività economica sottostante, il guadagno di una persona in una parte del mondo significherà contemporaneamente la perdita di uguali dimensioni di un’altra persona in qualche altra parte del mondo, o perlomeno un suo mancato guadagno finchè le quotazioni delle criptovalute continueranno a salire. E pazienza se tutto si risolverà magari tra qualche anno come lo schema Ponzi o le famose piramidi albanesi: l’importante sarà non essere l’ultimo a rimanere con il cerino in mano. PAOLO MACINA 20 Dicembre 2019 Torinese, matematico, funzionario presso una compagnia assicurativa, obiettore di coscienza. Esperto di temi relativi all’economia nonviolenta e alla finanza etica, per sei anni rappresentante dei soci torinesi di Banca Popolare Etica e per tre consigliere della Fondazione Culturale Etica. Ha collaborato con diverse riviste d’area pacifista e nonviolenta. |