I tre aspetti della questione ucraina

I tre aspetti della questione ucraina
Restare fermi ai fatti senza  stravolgerli ma ricordare che l’osservatore si situa a livelli differenti

Matter of fact, diceva Hume, e ragionamenti  astratti sulla quantità e sui numeri delimitano l’orizzonte della conoscenza. Oltre ci sono solo inganno e sofismi. Ma ai fatti si guarda da prospettive diverse. Prospettive, dico, non pregiudizi o lenti deformanti, prospettive che non stravolgono i fatti ma ne rivelano aspetti  altrimenti invisibili. E a questo proposito il conflitto ucraino è un caso di scuola. Cominciamo, come direbbero i compagni,  col mettere dei paletti per circoscrivere  il tema. Il principato  medioevale di Kiev  – l’odierna capitale dell’Ucraina – non è il nucleo di uno Stato ucraino ma l’inizio della storia russa. E gli ucraini, vale a dire i parlanti ucraino, non coincidono con una precisa regione geografica, meno che mai con l’odierna Ucraina. Che è una creatura bolscevica voluta da Lenin nel 1920 come parte dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche in un’area che ospitava una popolazione composita: ruteni, russi, cosacchi, tatari, ebrei, polacchi, tedeschi.

Ucraina voluta da Lenin nel 1920

Occupata dalla Germania nazista  dopo la rottura del patto  Ribbentrop-Molotov, la recisione fisica del legame con Mosca fece esplodere i le contraddizioni di una nazione alle prese con un mosaico di minoranze, prime fra tutte quella russa, e con la comunità ebraica più numerosa e potente dell’est Europa. Il risultato fu un diffuso e convinto collaborazionismo rinforzato dal massiccio reclutamento nelle SS e da una forsennata caccia all’ebreo che provocò oltre un milione e mezzo di vittime. La disfatta di Stalingrado seguita dall’annientamento delle armate germaniche oltre a segnare la fine della seconda guerra mondiale portò ad una ricomposizione dell’Urss basata sulla pacificazione interna e suggellata dal regalo ai compagni ucraini della repubblica autonoma di Crimea voluto da Krusciov. Il collasso del comunismo dette nuova linfa al nazionalismo ucraino segnato dalla connotazione nazista assunta durante la guerra ed è all’origine di una instabilità politica e di tensioni interne  aggravate dalla secessione della Crimea. L’epilogo è la rivolta di piazza Maidan, fomentata se non pianificata e organizzata a Washington. Dopo il golpe i movimenti nazionalisti dettero vita a squadre armate tollerate e incoraggiate dallo Stato che sfilavano esibendo simboli nazisti, esaltavano gli “eroi” che si erano distinti nel massacro degli ebrei come Bandera, avevano libero accesso nelle scuole per indottrinare i giovani e premevano per una pulizia etnica che assicurasse all’Ucraina una piena identità nazionale culturale e linguistica. Ne fanno le spese le regioni a maggioranza russofona, sottoposte dal febbraio 2014  – deposizione del presidente Yanucovich – al febbraio 2022 – inizio dell’operazione militare speciale russa – ad un tentativo di ucrainizzazione forzata al fine di spezzare ogni legame con la federazione russa, che poi ripeteva su scala maggiore e con modalità più violente la pulizia etnica realizzata nelle repubbliche baltiche ai danni della minoranza russa, emarginata e privata dei diritti civili e politici.

Fin qui siamo nell’ambito delle conseguenze del crollo dell’Urss e dell’occasione che si presentava alle nazionalità che erano state parte dell’impero di acquistare la propria indipendenza, come era accaduto con l’impero asburgico;  e in tanti speravano che la Russia stessa rimanesse sotto le macerie. Sarebbe stato un  clamoroso paradosso storico dopo una vittoria costata un prezzo altissimo, 25 milioni di morti  (tanto per farsi un’idea: le vittime della guerra italiane, dolorose, terribili quanto si vuole, fra civili e militari ammontano a 300.000), un paradosso  che la compattezza del popolo russo, la stessa memoria delle sofferenze patite, la solidità di una tradizione che la caduta del regime e dell’utopia comunista aveva rinvigorito hanno impedito che si verificasse. Qualche anno di sbandamenti poi nel dicembre del 1991 si recita formalmente il de profundis dell’Urss e del comunismo e la nuova Russia, deludendo le attese e le speranze dell’Occidente, riprendeva il suo ruolo di superpotenza; alla vecchia Urss succedeva la CSI, la comunità degli Stati indipendenti ex sovietici, dalla quale l’Ucraina è uscita nel 2018.

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I boscevichi, da Lenin a Stalin all’ebreo Kaganovich, avevano creato non solo la repubblica ma la nazione stessa ucraina fomentando un sentimento identitario che gli  si sarebbe rivoltato contro. Del resto  quella di trasformare in repubbliche autonome e derussificate regioni di uno Stato accentrato  qual era l’impero zarista è stata una precisa linea politica del regime sovietico. Ai bolscevichi non interessava la centralità della nazione russa ma l’egemonia assoluta del partito comunista: l’obbiettivo non era il mantenimento del centralismo dello “Zar di tutte le Russie”ma la trasformazione radicale della società, dell’economia e della cultura servendosi anche delle specificità nazionali. Era la patria socialista, anche fuori dai confini dell’Urss, non la patria russa. Che fossero ucraini, georgiani o kirghisi non solo era irrilevante per lo Stato sovietico ma si rivelava utile per una più profonda e partecipata sovietizzazione. In quest’ottica tutto diventa chiaro: il fallimento del progetto comunista lascia in eredità quel nazionalismo che il comunismo stesso aveva promosso e che la connotazione neonazista e antiebraica doveva rinforzare.  Un vero boomerang come nel caso della Georgia, la patria di Stalin  entrata nell’orbita della Nato

Insomma; il nazionalismo ucraino si afferma eliminando la continuità  etnica, storica e linguistica fra Piccoli Russi e Grandi Russi, creando una innaturale cesura rafforzata dal latente filo germanesimo che non a caso si era manifestato appieno durante la guerra. Ed è lo stesso nazionalismo di stampo neonazista che in nome dell’omogeneità etnica e linguistica ucraina riprese con ben altri metodi il programma bolscevico di ucrainizzazione della cospicua minoranza russofona concentrata nelle  oblast  del Donbass, che risposero con la secessione. Costata, si ricordi, otto anni di bombardamenti, di attentati, di stragi tardivamente fermati da Mosca col l’operazione militare speciale.

A questo primo livello di lettura quello ucraino è un conflitto regionale, o piuttosto l’esito di una guerra civile, quale quella che rischiò di esplodere fra la Catalogna e il governo madrileno, che per altro non si sognò mai di impedire l’uso del catalano negli atti pubblici e buttò acqua sul fuoco riconoscendo al parlamento e al governo catalano una autonomia pari se non superiore a quella che Roma giustamente riconosce all’Alto Adige-Südtirol. E non sto a ricordare  la questione irlandese, sulla quale non mi risulta che l’Europa abbia fatto alcunché di diverso dallo stare a guardare.

Pertanto nei termini di matter of fact, quello ucraino è un conflitto regionale di fronte al quale l’Ue poteva al massimo offrire i suoi buoni uffici per una rapida conclusione per via diplomatica. L’Europa ha fatto esattamente il contrario.

Churchill e Stalin

E veniamo al secondo livello. Per motivi diversi, risentimenti di lunga data, desiderio di rivalsa, rivalità commerciale,  i Paesi baltici e del nord Europa, la Polonia, il Regno unito, la Germania, la Francia nutrono da lunga data una scoperta avversione verso la Russia, ieri l’Urss (o, per maggiore precisione, la repubblica sovietica federativa russa) oggi la federazione russa. Francia e Germania in tempi diversi hanno subito una zampata mortale dall’orso russo che avevano cercato di abbattere; gli inglesi hanno combattuto a fianco della Russia ma Churchill e la monarchia avrebbero preferito averla come avversario e ora all’anticomunismo che non ha più ragion d’essere si è sostituito il fastidio per una presenza che minaccia la pretesa egemonica inglese sul nord est europeo; la Polonia attuale, come i Paese baltici, è ciò che resta di una secolare conflittualità inter e infraetnica, un avanzo di medio evo che non ha mai trovato stabilità e una autentica identità nel passaggio all’età moderna e si sente schiacciato dal colosso russo. Una miscela di pulsioni irrazionali e di interessi concreti che ha spinto il baricentro dell’Ue e della Nato verso est in barba alla conciliazione che avrebbe dovuto far seguito alla caduta del muro di Berlino e all’abbandono da parte russa dell’utopia comunista.

Golpe di piazza Maidan

È successo esattamente il contrario: supini e acquiescenti nei confronti dell’Urss, gli avvoltoi europei si sono avventati contro il gigante indebolito e disorientato, hanno tradito gli accordi di Minsk, non hanno voluto nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di un’Europa politica allargata alla Russia, tanto meno il suo ingresso nell’Alleanza atlantica; avrebbero dovuto celebrare la fine del comunismo, che gli ha lasciati sostanzialmente indifferenti, ma hanno festeggiato l’ingresso degli Stati satelliti nell’orbita occidentale col miraggio di mettere un cappio al collo dell’orso russo. Lo scoperto sostegno della Nato e dell’Ue  alle bande neonaziste ucraine, la complicità con gli Usa nell’organizzazione del golpe di piazza Maidan,  la partecipazione alla  creazione di un despota  tanto improbabile quanto fedele proprio per la sua origine come comico e protagonista di una popolare e demagogica serie televisiva non è solo una dimostrazione di  astio  nei confronti della Russia ma della impaziente attesa di un casus belli. Americani ed europei hanno assistito imperturbabili alla strage di civili nel Donbass fidando che l’opinione pubblica russa e la Duma costringessero Putin a rompere gli indugi e attaccare l’Ucraina e il suo governo.   Nato e Ue volevano una guerra per procura contro una Russia che ci si illudeva indebolita da un’opposizione interna praticamente inesistente, armata di ferrivecchi della seconda guerra mondiale, con una popolazione ridotta alla fame e un impianto economico e industriale da terzo mondo. Gli analisti europei e americani hanno preso una cantonata che è costata cara agli ucraini, annientati in tre anni di guerra condotta da Mosca come un lento rullo compressore, una guerra che ha rinsaldato l’economia russa, ne ha rivelato il formidabile potenziale militare e tecnologico e soprattutto la compattezza patriottica e la solidità della sua leadership. Una guerra che Nato e Ue hanno perso clamorosamente senza volerlo riconoscere e giocando al rialzo, un idrovora che ha impoverito l’Europa  e ha messo a nudo la stupidità, il cinismo e la corruzione dei suoi governanti. Il monito di Bertrand Russell e dei grandi scienziati del Novecento è caduto nel vuoto, il tabù della guerra totale è stato violato, media asserviti e un’opinione pubblica frastornata consentono che si parli come cosa normale di conflitto nucleare, di rifugi antiatomici, di kit di sopravvivenza. Una delle ultime perle è il mentecatto di cui non faccio il nome che lamenta la mancata costruzione di un bunker dove mettere a riparo Mattarella. Che, se la catastrofe dovesse veramente accadere dovrebbe essere il primo a rimetterci la pelle, seguito da Meloni, Schlein e da tutti i pagliacci che guidano i Paesi europei, la Nato e l’Unione europea.

Putin e Trump a colloquio

C’è infine un terzo livello dal quale guardare al  conflitto ucraino, ed è quello planetario che più direttamente coinvolge gli Stati Uniti. I quali, se per un verso con Trump perseguono una linea ondivaga ma in buona sostanza equilibrata ed evitano gli scivoloni verso il baratro ai quali Europa e Regno unito ci espongono, sono però i veri artefici di una instabilità globale che ricalca quella nel medio e vicino oriente tesa a impedire il compattamento di un’area alternativa a quella del dollaro, eredità dell’imperialismo americano affermatosi a conclusione della seconda guerra mondiale. Una politica apparentemente contraddittoria, il bastone e la carota alternativamente usati con la Russia e con la Cina  insieme ai colpi ai fianchi dell’Iran e la spada di Damocle sull’America latina che si sposta verso il Brics, una strategia che mira a salvare l’economia americana, che per quanto invasiva poggia su un terreno friabile. Di fronte al rischio icasticamente rappresentato dalla rana che per sopravvivere continua a gonfiarsi finché finisce per scoppiare, Trump è impegnato a cercare attraverso l’instabilità una nuova stabilità internazionale che garantisca solidità all’impianto sociale,  produttivo, finanziario di un’America che potrebbe rivelarsi un gigante dai piedi di argilla, metafora con la quale sbagliando la diplomazia ottocentesca si riferiva alla Russia imperiale. Il fine che si propone è chiaro, gli strumenti per conseguirlo un po’ meno. Fra questi c’è indubbiamente il test ucraino per saggiare il potenziale militare e la stabilità politica russi, voluto da Biden ma condiviso  da Trump aldilà delle dichiarazioni e seppure con maggiore accortezza e contemperato dalla volontà di evitare una irreparabile saldatura fra Russia e Cina. Probabilmente Trump è consapevole che un nuovo ordine mondiale è inevitabile e cerca di attenuarne l’impatto riproponendo la diarchia russo-americana, senza accantonare l’ipotesi di colpire la Cina attraverso l’indebolimento del suo partner militare russo.  Ma quali che siano tattica e strategia, obbiettivi di breve e di lungo periodo, salvare le posizioni acquisite con la globalizzazione, evitare il crollo dell’industria interna o risollevare una società impoverita e insicura, questa è comunque politica, che quando è genuina non è una crociata del bene contro il male ma una partita a scacchi. Qualcosa di troppo sofisticato e incomprensibile per un’Europa affetta da demenza senile.

Pierfranco Lisorini

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2 thoughts on “I tre aspetti della questione ucraina”

  1. Un quadro estremamente lucido delle motivazioni profonde alla base del conflitto russo-ucraino. Motivazioni del tutto assenti nello story telling europeo, del resto in linea con l’infima qualità di chi pretende di governare l’Europa, di fatto dissanguandola per riarmarsi contro un inesistente nemico. Ma i suoi stabilimenti, specialmente tedeschi, premono per una riconversione, dopo aver constatato la saturazione dei mercati, in primis automobilistico. Centinaia di miliardi, negati ai suoi cittadini per i più stringenti bisogni, e deviati verso la fabbricazione di carri armati, missili e droni. In sostanza, inaugurando un’economia di guerra. E il mio articolo odierno illustra dove inevitabilmente conducono le guerre: alla miseria, dapprima strisciante e poi dilagante, di vinti e vincitori. Oggi ci si illude che i tempi siano “diversi”. E lo sono, infatti, ma in peggio, con lo spettro nucleare che si dà quasi per scontato. Del resto, il nostro futuro è in mano a due donnette, del calibro della Ursula von der Leyen e Kaja Kallas (Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e Politica della Sicurezza dell’UE)….

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