I nodi al pettine

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La retorica sulla meritocrazia – in Italia tutto, anche le cose più serie, affoga nella retorica –  è un modo velleitario di affrontare la diffusa sensazione di sfiducia e rassegnazione per la perdita di ogni tipo di autorevolezza. Ma non è solo velleitarismo, insito nella stessa difficoltà di definire un concetto vago e ambiguo come quello di merito,  è anche un atteggiamento minato dal pregiudizio del  potere e della sopraffazione, che il concetto stesso di meritocrazia incorpora, ed è soprattutto un modo fuorviante di affrontare un tema reale. Perché quella sensazione diffusa di trovarsi circondati dalla superficialità, dal pressappochismo, dalla cialtroneria  non rimanda tanto alla necessità di premiare i meritevoli e dar loro le leve di comando quanto all’esigenza sacrosanta di  avere a che fare con persone serie, responsabili,  competenti.

Il problema che affligge il nostro Paese e ci fa progressivamente scivolare verso il terzo mondo non è il merito ma la competenza. Quando dico scivolare verso il terzo mondo uso per comodità una metafora, perché “terzo mondo” non significa nulla ed è solo un espressione che rivela l’arroganza e la residua mentalità colonialista dell’occidente. Una metafora per indicare la parte del mondo che sta al traino, che consuma e non produce, che fruisce di un sapere importato  e subisce decisioni e iniziative prese altrove.  E non è questione di Pil o di collocazione geografica, tantomeno di progresso, altro pseudoconcetto, ma di cultura, di intelligenza,  di libertà e di coscienza nazionale, cosa ben diversa dal nazionalismo.

Se gli italiani che contano, che occupano il centro della scena, sono influencer, cantanti – oltretutto pessimi -, registi di film mai passati per le sale e accademici di un’accademia stracciona e se l’Italia all’estero conta qualcosa solo per la pizza e gli spaghetti (o per la mafia) abbiamo un problema. Tanto più grave perché  in tanti campi il Belpaese può vantare eccellenze  che però sono confinate ai margini e condannate all’oscurità. Posso dire senza tema di essere smentito che è più facile trovare un buon latinista non dico nei licei ma perfino nella scuola primaria piuttosto che nelle università okkupate dagli scarti della politica. E lo stesso vale per la storia, per la storia dell’arte e per discipline di nicchia come l’archeologia, l’etnologia, l’antropologia culturale, la musicologia. Fino all’infausto decennio seguito al 68 poteva verificarsi che il docente di storia medievale sapesse tutto sugli spostamenti di papa Zaccaria o sulla barba di Lotario ma fosse completamente all’oscuro degli ultimi bagliori della romanità orientale: un’iper specializzazione discutibile di cui però erano portatori uomini avvezzi a studi rigorosi e originali, dai quali quantomeno si poteva attingere il metodo e la serietà. Ora se ti prendi la briga di dare un’occhiata a professori di storia contemporanea di chiara fama ti cascano le braccia e capisci com’è che gli unici che poggiano i piedi su di un terreno solido sono i professori del nulla come i sociologi o gli economisti, inattaccabili perché sul nulla si può dire tutto; gli altri, quelli che hanno a che fare col muro di discipline dallo statuto epistemico consolidato non reggono il confronto con uno studente appassionato allo studio (pochi ma ce ne sono ancora). E questo accade in quello che dovrebbe essere il cuore del sapere, il deposito e la fabbrica della competenza.  Fuori di lì lo spettacolo  anche più penoso di giornalisti semianalfabeti, esperti di politica estera che si documentano sui lanci di agenzia e, quando va bene, si fanno tradurre le corrispondenze del Washington Post e peggio di tutti i politici, parecchi dei quali e in particolare quelli più in vista  forse hanno arraffato un diploma grazie all’insegnante di sostegno.

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Poi però c’è la Meloni lodata a dritta e manca perché “sa le lingue”; peccato che sia stata beccata quando parla a braccio con l’amico africano – in realtà il dispettoso comico russo – e si lamenta dei suoi partner europei che “du not respond at te telefon” facendo rifulgere l’ingiustamente deriso anglotoscano di Renzi. E se i politici diventano matti perché sull’atlante non riescono a trovare la Moldavia e non sanno più se la Georgia è in America o in Europa fa più danni l’analista politico di un prestigioso centro studi  che tanto per dar contro a Israele sentenzia che non era mai accaduto che in guerra si colpissero luoghi di culto o ospedali:  avrei voluto tirargli le orecchie e mostrargli la cattedrale di Livorno rasa al suolo dai bombardieri americani o l’abbazia di Montecassino distrutta col pretesto, del tutto infondato, che ospitasse le truppe del Reich (quelle che ne hanno messo in salvo il patrimonio librario).  Lo stesso analista avrebbe dovuto rimarcare che nell’età moderna nemmeno nei conflitti più cruenti era successo che si razziassero civili per usarli come ostaggi: per trovare precedenti bisogna andare indietro di millenni. Se giornalisti, politici e universitari fossero lo specchio dell’italiano medio si dovrebbe celebrare il de profundis per l’Italia, Ma si è al punto che il politico italiano non ritiene di rappresentare il proprio Paese; anzi, è convinto che non esista un proprio Paese. Questo almeno risulta dall’esplicita esternazione della  piddina Moretti, che rispondendo ad una precisa domanda afferma di non sentirsi italiana ma europea o meglio cittadina del mondo e pertanto di non essere obbligata a difendere gli interessi italiani. Peccato però che sono gli elettori italiani ad averle assicurato lo scranno e le laute prebende e non l’hanno fatto per beneficenza ma giusto per essere rappresentati e tutelati. Ma non me la prendo con lei quanto piuttosto col suo partito, col parlamento e col custode della costituzione perché in tempi normali il partito, il parlamento e motu proprio il capo dello Stato l’avrebbero cacciata a calci nel sedere dal posto che occupa in nome dell’Italia. Passa tutto come lecito, normale, addirittura  ovvio: Sansonetti può dire impunemente che nessuno dovrebbe essere messo in galera, che se milioni di africani vogliono venire in Italia perché in Africa fa troppo caldo bisogna andarli a prendere, che se il parlamentare viene preso con le mani nel sacco bisogna garantire la sua onorabilità;  uno così, che millanta di essere un vecchio comunista quando è solo un anarchico da salotto,  ci viene imposto quotidianamente sul piccolo schermo perché Mediaset lo usa per coprire il suo fianco sinistro.

Insomma  in Italia abbiamo una questione culturale, una questione di salute mentale e una questione morale, quella sollevata da Berlinguer, che il suo partito fingendo di affrontarla ha aggravato fino a farla diventare una malattia mortale.  La sinistra e la Chiesa progressista hanno scardinato la scuola e trasformato il sapere in chiacchiericcio, hanno spianato la strada ad un regime plutocratico  che non conosce altri valori che non siano il denaro e il successo. Hanno abbattuto gli steccati della ragione, dell’intelligenza, del buonsenso, hanno annullato  la gerarchia delle competenze per far posto ad  una nuova gerarchia di potere creando nuove e incolmabili disuguaglianze. In questo clima tossico è inevitabile la disaffezione al lavoro e allo studio e il trionfo dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Tutti possono fare tutto, è il mantra della sinistra, che trasferito nella realtà vale nessuno sa fare più nulla, il senso estetico  scompare, le città sono sempre più brutte, le strade si spaccano, i ponti crollano, se piove un po’ più del solito è un disastro  e trovare un’azienda seria o un artigiano che sappia fare qualcosa di più che farsi pagare è ormai una chimera. L’incalzare di generazioni spaventosamente ottuse e ignoranti, digiune di cultura musicale, di sensibilità artistica, di coscienza storica, indifferenti di fronte  ai monumenti del passato, incapaci di leggere un libro o di scrivere un biglietto di auguri e di andare oltre gli slogan imposti dal pensiero unico,  politicamente corretto nella sua totale scorrettezza, porta fatalmente al discredito della scienza e alla fine dell’auctoritas.  Masse di ragazzi inebetiti che fanno gola ai partiti e in particolare agli eredi della sinistra, più avvezza e più abile nell’irretire le coscienze,  che non a caso vorrebbe portare a sedici anni il diritto di voto per risalire la china del consenso. Ragazzi e stranieri sono il target elettorale del futuro, e non solo per la sinistra. I primi a sapere che la politica ha perso ogni credibilità sono proprio i politici di ogni colore; lo sanno ma non se ne preoccupano, se aumenta l’astensione si fregano le mani: meno controllo, meno fiato sul collo  e a garantir loro un posto in parlamento ci penseranno adolescenti e nuovi italiani.

Proprio ora destra e sinistra stanno dando una magnifica dimostrazione di cinismo sulla pelle degli italiani. La Meloni – non dico il governo perché di fatto il premierato c’è già e i  ministri, non solo il parlamento, sono ininfluenti – specula sul diffuso bisogno di sicurezza con l’ennesimo spot pubblicitario e la sinistra, portavoce del buonismo fetido di salotti e sagrestie, finge di prenderlo sul serie e grida al regime di polizia e al fascismo (Sansonetti sull’Unità finita nelle sue mani). Ma, dico io, per applicare il codice penale c’è bisogno di nuove leggi? non bastava  dare senza tanto clamore una strigliata a prefetti e questori perché facciano il loro mestiere? e da quando in qua le mamme possono impunemente commettere reati? se i ritocchi apportati agli artt. 146 e 147 del codice penale hanno creato questa convinzione è il caso che il parlamento faccia chiarezza senza scaricare addosso ai giudici  il sospetto di favorire la criminalità.  Si ripete lo stesso copione degli sbarchi illegali: roboanti annunci trionfalistici senza muovere foglia  per fermare l’invasione; e ora altri roboanti annunci  sulla fine degli scippi, delle rapine e degli stupri: non cambierà nulla, si può esserne certi.   Ma se si dà a intendere che c’è una dialettica politica, che c’è un confronto o addirittura uno scontro fra maggioranza e opposizione se ne giovano  sia la Meloni che la Schlein, eterodirette dallo stesso burattinaio, perfettamente allineate sulle questioni  che contano: l’Europa, l’Ucraina, i rapporti con la Russia, la posizione  dentro la Nato, il conflitto israelo-palestinese  e, al di là delle chiacchiere, l’invasione; e per di più entrambe culturalmente e politicamente impotenti di fronte all’impoverimento e all’appiattimento del ceto medio e alla perdita di potere contrattuale dei lavoratori.  Per distinguersi e darsi un’identità hanno bisogno di partigiani che si scontrino su un terreno lontano  da tutto ciò  che ne  rivela la vera natura: due facce della stessa medaglia. E  tutte e due  un nemico vero ce l’hanno ma in casa: una  il modesto quanto si vuole ma ingombrante Capitano, l’altra quel furbacchione di Landini

Pierfranco Lisorini

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