Honesta mors turpi vita potior

HONESTA MORS TURPI VITA POTIOR
  (Lettera testamento del protagonista di un Bildungsroman ancora da scrivere)

HONESTA MORS TURPI VITA POTIOR
(Lettera testamento del protagonista di un Bildungsroman ancora da scrivere)

Arrivato a questo momento, a questa declinante stagione, a questa terza e ultima età della vita, tutto ben considerato e soppesato, percorrendo a ritroso il cammino che mi ha portato fin qui, potrei guardare al passo estremo che mi attende con animo sereno e senza timore, contento di quello che ho fatto e senza rimpianti per quello che non ho potuto (o voluto?) fare, solo nel caso in cui avessi ricevuto esattamente quello che mi meritavo, niente di più ma neanche niente di meno.

 


Purtroppo, i miei meriti, a osservarli attentamente, si rivelano altrettanti demeriti: se sono onesto con me stesso, devo riconoscere che la vita è stata nei miei riguardi molto più generosa  di quanto io lo sia stato nei confronti del mio prossimo: ho ricevuto molto più di quello  che avrei potuto (o dovuto?) dare; fino a questo momento;  mi sono dato d’attorno più  per  prendere  che  per  comprendere, più per sottrarre che non per aggiungere qualcosa a chi ne aveva più bisogno, sono stato molto più attento alle mie esigenze (e lasciamo pure stare l’alto mare aperto dei desideri impossibili) che a quelle di chi mi è stato e mi sta ancora, malgrado tutto, accanto. Dei lontani  mi sembrava che bastasse e avanzasse riconoscerne l’esistenza; delle sofferenze, poi, di tanti meschini e oppressi nel Terzo e nel Quarto mondo, quando me ne giungeva notizia tramite tv, giornali o Internet, non vedevo perché avrei dovuto sentirmi coinvolto e farmene carico in qualche modo, essendo già fin troppo occupato a non farmi mancare nessuna delle comodità che rendono piacevole vivere anche sapendo (sapere, ahimè, non equivale a volere) che si tratta di privilegi negati al maggior numero degli abitanti di questo disgraziato pianeta Terra. 

Ormai è nozione comune che  il nostro ecosistema è a rischio di implosione  per l’eccesso di scorie, di rifiuti tossici e non biodegradabili, di gas inquinanti  riversati nell’atmosfera dai mezzi di trasporto su gomma e dagli impianti industriali e per il progressivo scarto tra le risorse disponibili e i  bisogni di una popolazione in continuo aumento (malgrado i disastri naturali e le guerre asimmetriche che fanno stragi di innocenti in Medio Oriente, in Africa, in Asia e, ultimamente, ahimè, anche in Europa).  Ora, però, che senso ha autocompiangersi e cospargersi il capo di cenere perché – oltre a essere  nati nella parte ricca e fortunata del mondo piuttosto che in una favela brasiliana o a Damasco, o  ad Aleppo, o a Kabul, o a Bagdad – abbiamo commesso peccati di omissione, di incontinenza (bulimia, anche verbale) e di superbia?  Si è mai visto qualcuno lamentarsi e disperarsi perché ha ricevuto molto più di quello che gli sarebbe spettato se ci fosse giustizia a questo mondo? Eppure qualche motivo di preoccupazione per chi vive negli agi in una società disagiata non è proprio del tutto campato in aria: anche da un punto di vista strettamente egoistico, l’indifferenza verso chi soffre non fa che accrescere il malessere sociale, e se la distanza tra chi ha troppo e chi ha troppo poco, tra benessere e disagio, tra opulenza e povertà, tra fortunati e sventurati diventasse (ma già in parte lo è) smisurata, la felicità dei pochi fortunati si troverebbe a essere come un’isola felice circondata da un mare di infelicità, tanto che l’essere felici, agli occhi degli infelici, si configurerebbe come una colpa imperdonabile così che  la probabilità che un’onda anomala sommerga l’isola dei beati e vi annieghi ogne persona diventerebbe sempre meno improbabile.


 

La mancata solidarietà, oltre che un peccato di omissione, è anche un cattivo investimento: chi può essere a tal punto presuntuoso da credere di non aver mai bisogno dell’aiuto del prossimo? Chi può sapere che cosa ci accadrà domani? Di certo possiamo dire che oggi ci siamo ma domani potremmo non esserci più, e che comunque un giorno verrà in cui dovremo lasciare per sempre questa dimora. Solo l’ora è incerta. A meno che non si voglia seguire l’esempio di quegli Stoici che hanno scelto di darsi la morte, come Seneca, per il quale “Bene autem mori est effugere male vivendi periculum” (Morir bene ci salva dal pericolo di vivere male), come si legge nel libro VIII delle sue Lettere a Lucilio. Ma il morir bene non ci può salvare dall’aver vissuto male: la morte annulla il futuro non il passato. Dunque è impossibile liberarsi da un passato insopportabile?  Niente affatto, rispondono sempre gli Stoici, spiegandoci che l’unico modo che abbiamo per liberarci da un passato vissuto come insopportabile è quello di riconoscerne l’inevitabilità e di accettarlo come si accetta un destino a cui non si può sfuggire. Tuttavia, per liberarsi veramente dal peso di un passato insopportabile, secondo l’autore di Così parlò Zarathustra non basta accettarlo, come si accetta di bere obtorto collo una medicina amara per riacquistare la salute, ma bisogna volerlo, anzi, amarlo: “Ogni ‘così fu’ è un rottame, un enigma, un caso tremendo, sinché il volere non dica: ‘Ma così volli che fosse!’ Sinché il volere creatore non dica: ‘Ma così voglio io! Così vorrò io!’…”, come se fosse possibile volere al passato nel presente pensando non al voler accettare quello che è ormai stato ma al volere che crea quello che ancora non è.


 

Se così fosse il volere sarebbe al tempo stesso potere, ma nessuna volontà, per potente che sia, può  cancellare la colpa fondamentale, che, come dice Sigismondo in La vida es sueno,  di Calderòn – riecheggiando il detto di Anassimandro e la risposta  di Sileno a re Mida su ciò che è meglio per l’uomo –  è quella di essere nati: “Apurar, cielos, pretendo, /ya que me tratàis asì /qué delito cometì / contra vosotros naciendo; / aunque si nacì, ya entiendo / que delito he cometido / bastante causa ha tenido /vuestra justicia y rigor, / pues el delito mayor / del hombre es haber nacido”.  Ma, se il destino di ciascuno è già scritto che senso ha il suicidio? Non basta certo suicidarsi per riscattare la colpa di essere nati. Non sarà che la pena più crudele sia quella di non aver speranza di morte, quindi di essere condannati a vivere per sempre senza poter espiare la colpa fondamentale della nascita? Ma a chi spetta la responsabilità della nostra nascita? Non certo a chi nasce, dal momento che non siamo stati noi a voler nascere. Allora a chi? Ai nostri genitori? A parte il fatto che non sempre i genitori hanno voluto e vogliono la nascita dei loro figli, che cosa avrebbero dovuto fare una volta venuti alla luce? Sopprimerli appena nati? Ma nemmeno i genitori, a ben considerare, possono essere ritenuti responsabili della nascita dei loro figli, infatti chi ha dato loro il potere di generare? Se lo sono forse dato da soli? Chi dà la vita ai figli è lo stesso potere che ha dato la vita ai genitori e, con la vita, l’apparato riproduttivo della medesima (previa libido coeundi). Ma chi ha questo potere? Chi può dare la vita a tutti gli esseri viventi? Esiste forse una vita fuori dalla vita stessa? Non è una questione solamente metafisica: un conto è pensare che la nostra esistenza è frutto del caso, un altro che è stata voluta, anzi programmata da una Provvidenza che ci ama al punto da volgere in bene anche il male che  uccide e ci ucciderebbe in eterno se non ci fosse data la possibilità di salvarci dalla morte eterna se ci pentissimo sinceramente dei nostri peccati  e ci convertissimo  alla fede salutare (cioè salvifica), alla speranza e alla carità… Ma qui entriamo nella sfera del sacro e del mistero, cioè nella sfera di quelle cose sulle quali non possiamo dire nulla perché eccedono il nostro linguaggio, e sulle quali, come scrive Wittgenstein alla fine del suo Tractatus , si deve tacere. 

 FULVIO SGUERSO

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