Hanif, lo straniero in regola in un Paese senza regole
Hanif, lo straniero in regola
in un Paese senza regole
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Hanif, lo straniero in regola in un Paese senza regole Hanif è un ragazzo pakistano di 34 anni. vive con la moglie e due bambini in un piccolo appartamento in periferia affittato a 500 euro al mese. Hanif è un cuoco e lavora in un ristorante di lusso sul mare, entra a mezzogiorno e ne esce, quando gli va bene alle una di notte. È musulmano ma non frequenta moschee né smette di lavorare per inginocchiarsi tre volte al giorno verso la Mecca; solo è visibilmente infastidito se qualcuno vicino a lui bestemmia ed è questa l’unica manifestazione del suo integralismo religioso. Nei tredici anni che è qui da noi non si è fatto molte amicizie, non ne ha avuto né il tempo né l’opportunità: i colleghi di lavoro, qualcuno fra quelli che frequentano la palestra, che è il suo unico svago e anche un modo per compensare quello stare in piedi davanti ai fornelli o a servire ai tavoli, che non sarebbe compito suo, per dodici ore. Hanif sembra sempre un po’ triste, parla poco, si anima solo quando gli si parla di cucina. Perché Hanif da sguattero che era ha osservato, riflettuto, letto, ha seguito a sue spese corsi, ha sviluppato una vera passione per l’arte della cucina ed è diventato un cuoco di prim’ordine. Lavora senza fiatare tre o quattro ore in più rispetto al suo contratto e svolge anche mansioni che non gli competono in cambio di qualche centinaio di euro fuori busta e di quanto può portarsi via di ciò che avanza in cucina. Ma anche così con i 1200 euro che porta a casa il suo è un continuo arrancare con l’incubo delle bollette, i bambini che vanno a scuola e costano, la mensa da pagare, perché per lo Stato lui è un benestante e deve pagarsi tutto, e guai se qualcuno si ammala. Ed è per questo che Hanif è sempre non proprio triste ma pensieroso, come lo erano i nostri padri con le guance scavate che non ce la facevano a sfamare la loro famiglia ma dovevano mantenere un decoro esteriore e una dignità interna.
Hanif non ne può più del nostro Paese, sogna di tornare a Lahore, perché lì il paesaggio sarà anche più brutto, l’estate troppo calda e piovosa, ma almeno è fra la sua gente e anche se molti vivono al limite della sussistenza c’è un governo che si adopera per alleviarne le condizioni, che non lucra sui rifugiati né consente che altri lo facciano al posto suo. Perché anche il Pakistan deve sopportare il peso dei profughi, afgani, temuti come veicolo del fanatismo islamico, sistemati in campi in attesa di essere rispediti a casa loro e non incoraggiati a farne venire altri perché ci si possa guadagnare sopra impoverendo la già povera popolazione locale. Un governo che se investe tante risorse negli armamenti lo fa per resistere alla pressione dell’antico nemico, l’India, e garantire la sicurezza alla propria gente: insomma, le poche essenziali regole sulle quali si basa il contratto sociale, vale a dire lo Stato, sono rispettate. Hanif non riesce a capire quello che invece sta succedendo in Italia, ha l’impressone di trovarsi in mezzo a una gran confusione, all’interno di un sistema irrazionale ingiusto e senza regole. Quando era studente e sognava di evadere dal brulichio anonimo della sua terra aveva imparato che l’Italia è la culla della civiltà occidentale, il centro della cristianità, e questo a lui, musulmano, faceva un po’ paura, la patria del diritto, il regno della ragione e soprattutto una terra con una storia e un’identità inconfondibili. E ora gli sembra di vivere su immenso ponte con un pilastro nel mondo arabo, un ponte attraverso il quale l’Africa sembra volersi confondere con l’Europa. Lui sa che quella araba è una cultura immaginifica e incline all’iperbole. Davanti a forze coloniali superiori per numero e armamenti i guerrieri del deserto si vantavano di poterle sconfiggere con le flatulenze dei propri cammelli. Con la stessa sicumera sente i loro discendenti sostenere che conquisteranno l’Europa cristiana col ventre delle loro donne. Esagerazioni, certo, lo sa bene Hanif, ma intanto le loro donne intasano le sale parto, contribuiscono al collasso della sanità pubblica, occupano gli asili nido con i loro figli. Queste donne, che dovrebbero impietosire chi le ospita, farli vergognare di se stessi, seppellirli sotto i loro sensi di colpa, vengono a fare mantenere se stesse col peso delle loro gravidanze, del loro parto e della loro prole. Si dirà: scappano dalla guerra, dalla miseria, dalla fame, come per anni hanno fatto gli afgani nella terra di Hanif – anche se in verità loro non mostrano segni di denutrizione – si dirà che i loro figli sono destinati a morte certa – forse perché a casa loro imperversa un redivivo Erode – ma alla buonora non sono state inseminate dallo Spirito Santo e se le donne italiane non fanno figli perché non li possono mantenere sfugge ad Hanif il motivo per cui gli italiani, e gli stranieri che come lui sgobbano tutto il giorno, giorno dopo giorno, debbano mantenere i figli degli altri. Se ci sono risorse per farlo perché non si mettono in condizione le giovani coppie di fare figli senza l’incubo di finire in miseria invece di mettere alla berlina il ministro Lorenzini, peraltro indifendibile come tutto il governo, per la sua goffa campagna in favore della famiglia? Queste cose Hanif le sa bene, anche meglio dei nostri connazionali perché lui si guarda d’intorno, è abituato a riflettere, cerca di capire, ha meno occasioni di distrazione, non fuma neppure tabacco, non si fa di nulla, non frequenta discoteche, non passa le serate sfogliando smartbook o progettando vacanze, non ha la testa altrove. Lui sa che il motivo vero perché vengono tante donne incinte è insieme banale e allarmante, aldilà delle smargiassate del califfato. Uno schieramento politico ampiamente maggioritario in parlamento grazie ad una dissennata legge elettorale e allo scollamento fra rappresentanti e rappresentati preme da tempo per il riconoscimento dello ius soli, che comporta il riconoscimento automatico della cittadinanza ai nati in Italia. Soltanto problemi tecnici – una turista americana in vacanza in Italia che dovesse partorire qui da noi si troverebbe un figlio italiano – e le resistenze che potrebbero venire in Senato dai nuovi alleati dell’ex centro-destra, più che l’impopolarità del provvedimento, ne hanno finora impedito la presentazione ma si può essere certi che i cattocomunisti non molleranno la presa. Queste cose le sa Hanif ma le sanno anche in Africa, dove sanno anche che una volta che il figlio avesse la cittadinanza italiana i soliti noti si metteranno a strillare che essa spetta anche alla madre e a chi si dichiarasse padre, perché madre e padre di un italiano per una sorta di proprietà transitiva sono italiani anche loro. In poco tempo, con grande soddisfazione della presidente della Camera, ci troveremmo migliaia di nuovi italiani, con tutti i diritti dei cittadini italiani più, s’intende, quelli degli stranieri arrivati clandestinamente. Certo non di Hanif, che ha solo il diritto di lavorare per sopravvivere e poter pagare le tasse. Perché in Italia lo straniero che arriva clandestinamente – cioè con i barconi – gode di uno status speciale, dal momento che scappa da guerre vere o presunte, dalla miseria o dal caldo eccessivo. Quindi ci saranno nuovi italiani ma italiani speciali, col diritto ad avere un alloggio e pensione completa senza doversi preoccupare di bollette, di fare la spesa, di cucinare e, of course, tutto a spese della collettività, italiani e stranieri privati di diritti e di assistenza ma oberati di doveri. D’altra parte i clandestini – clandestini alla luce del sole – non sono mica venuti qui per lavorare, anche perché lavoro non ce n’è, ma per il tam tam che percorre tutta l’Africa e il medio oriente: in Italia si può vivere tranquillamente senza lavorare. Il paradosso è che si può protestare per il business, per i metodi, per fattori accessori ma una volta che sono arrivati, e di rimandarli indietro non si parla nemmeno perché dovrebbero provvedere gli stessi che li hanno fatti arrivare, non si può pretendere che dormano all’aperto o che muoiano di fame. Però è anche vero, paradosso per paradosso, che i nostri giovani adulti inoccupati o disoccupati privi di reddito e senza un tetto sulla testa non sono presi in carico dello Stato, che, siccome la legge è uguale per tutti, dovrebbe riconoscere alle famiglie che li ospitano e li mantengono lo stesso contributo che riconosce alle cooperative che ospitano i migranti invece di limitarsi a defalcare dall’Irpef qualche decina di euro al mese.
Queste cose Hanif le sa bene e ci rimugina sopra ogni volta che compie il tragitto dal lavoro a casa e passa davanti a una casa di riposo di proprietà di un ordine religioso dalla quale le suore hanno sfrattato gli anziani per ospitare una cinquantina di migranti. Questi rendono loro circa 600.000 euro l’anno, molto più degli anziani, con meno problemi e in più il brio della giovinezza, tanto non siamo mica razzisti. Dopo qualche centinaio di metri vede entrare e uscire giovani di colore in bicicletta e cuffie di ordinanza dall’atrio di un albergo dismesso, con una storia di ostello della gioventù e ora riciclato come centro di accoglienza. In prossimità di casa sua davanti a un edificio di proprietà della Curia staziona un gruppetto di nordafricani intenti a confabulare con un ragazzo italiano; dal campetto vicino risuonano le urla di una quindicina di giovani africani, probabilmente i famigerati minori non accompagnati, intenti, come tutti i giorni e a tutte le ore, a giocare a pallone. E Hanif, che è stanco, ha in tasca i bollettini postali di luce e gas ma non i soldi per pagarli, non è contento, rimugina dentro di sé che qualcosa non quadra, non capisce come a lui lo Stato al quale non costa nulla deve togliere ogni mese 400 dei 1600 euro che potrebbe mettersi in tasca e che sono suoi e il suo connazionale arrivato senza un contratto di lavoro, senza passaporto, anzi, senza documenti, senza permesso di soggiorno bighellona tutto il giorno sempre in contatto con i suoi familiari senza dover badare al costo delle telefonate perché gli spettano di diritto. Non è contento Hanif. A casa sua ha imparato che uno diventa uomo col lavoro, ha imparato che il lavoro dà libertà e prestigio, che un uomo è il sostegno della sua donna e dei suoi figli, si era illuso che l’Occidente premiasse l’impegno, la fatica, la voglia di crescere e di migliorare e si sente schiacciato, si accorge che il lavoro qui da noi serve solo per arrivare a fatica alla fine del mese, si sente confuso con le centinaia di migliaia di finti profughi che scappano dalle loro responsabilità, non vanno in cerca di opportunità ma di accoglienza ed è a disagio, non vede prospettive, non coltiva più il sogno di comprare casa, aprire un’attività sua, far crescere i figli nella sua nuova patria. Hanif è disgustato. Tutto quello che vuole ora è tornare da dove è venuto, a Lahore.
Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione |