Governi non eletti?

Governi non eletti?

L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso porta ad avanzare alcune considerazioni sul sistema parlamentare italiano

Governi non eletti?
L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso porta ad avanzare alcune considerazioni sul sistema parlamentare italiano. Già nel 2005 il terzo Governo Berlusconi aveva tentato di riorganizzare l’impianto costituzionale, riportando nel giugno del 2006 una memorabile bocciatura referendaria popolare. Anche se noi Italiani abbiamo preservato per due volte le istituzioni parlamentari dagli stravolgimenti escogitati dalle parti governative, generalmente abbiamo opinioni alquanto negative sul nostro sistema politico. Per rivalutare il giudizio comune sull’assetto parlamentare italiano conviene tentare di proporre alcune ipotesi. Si tratta di delineare scenari basati su dati storici e costruiti come esercizi di logica sulla possibilità, non verificatasi nei fatti, di un percorso alternativo a quello reale. Più fondate saranno queste ipotesi più si rivelerà appropriata la scelta fatta nel 1946/47 dai Padri costituenti.

 Non pochi concittadini hanno vagheggiato il presidenzialismo e deprecato i governi deboli previsti dalla Carta del 1948. Ecco dunque l’ipotesi più semplice da fare: se dopo il voto del 2 giugno 1946 si fosse presa la via del presidenzialismo avremmo avuto l’elezione diretta di un Capo dello Stato capo del Governo. Avremmo avuto cioè un esecutivo forte e legittimato direttamente dal suffragio popolare. Ipotizziamo l’adozione di un modello “fotocopia” di quello statunitense: dal gennaio del 1948 il Paese si sarebbe imbarcato in una campagna elettorale incentrata su alcune personalità contrapposte. Un Paese appena uscito da una guerra civile e da vent’anni di dittatura si sarebbe gettato in un’impresa che avrebbe visto su fronti avversari democristiani, comunisti e socialisti, monarchici, ex fascisti, azionisti, liberali e forse altri. Sarebbe stata una buona scelta tenuto conto che fino al giorno prima ci si era sparati addosso? Ovviamente no, nell’Italia del dopoguerra l’ultima cosa da fare sarebbe stata quella di eccitare gli animi con una campagna elettorale presidenziale. Ma ammettiamo pure di aver avuto elezioni svolte in un clima di sufficiente autocontrollo ed ordinato andamento. Chi avrebbe vinto? Un partigiano democristiano? Uno di giustizia e libertà? Un monarchico? Uno di sinistra? Oppure un reduce di Salò? A prescindere da ogni ingerenza statunitense negli affari interni italiani, in ogni caso sarebbe stato eletto qualcuno che avrebbe accontentato una componente sociale e scontentato le altre. E in quei tempi dall’essere scontenti al passare alle vie di fatto il passo era breve. L’Assemblea costituente scelse la forma parlamentare con l’intento di integrare le diverse e conflittuali parti della società in un organo comune. Da allora ad oggi noi italiani ci rechiamo alle urne per eleggere un Parlamento bicamerale paritario.


Per rimanere nella comparazione con gli Stati Uniti: là vi sono due formazioni partitiche egemoni. Averne di più (come qui in Italia) complicherebbe molto le cose rispetto al presidenzialismo, a partire dallo svolgimento materiale della campagna elettorale, ma l’argomentazione sopra esposta segue ipotesi assai semplificate rispetto alla complessità della realtà storica. Il suo fine, infatti, non è quello impossibile di scrivere la storia che non c’è, ma quello di trovare le ragioni di quello che è stato. È inutile quindi entrare nell’analisi delle macroscopiche differenze tra la storia italiana e quella statunitense, a partire dal fatto che negli Stati Uniti fu tutto un popolo neo-nazione a liberarsi dal tiranno inglese. Qui in Italia ci fu la guerra civile mentre eserciti stranieri assoggettavano il territorio con le armi.

 Secondo molti italiani quello di Gentiloni sarebbe il quarto Governo non eletto, dopo Monti, Letta e Renzi. Forse prima degli anni Novanta nessuno avrebbe affermato niente di simile. La famosa “discesa in campo” di Silvio Berlusconi avvenne nel 1994 e cambiò le coordinate di riferimento della politica italiana. L’imprenditore milanese si presentò alle elezioni del 1994 come candidato alla guida del Governo. Da quel momento in avanti un consistente numero di Italiani si reca alle urne con la convinzione di eleggere un certo candidato alla guida dell’esecutivo. Nel dicembre 1994 il primo governo Berlusconi terminò per effetto dell’uscita della Lega Nord dalla maggioranza. Il Presidente del Consiglio si dimise e il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro incaricò Lamberto Dini della formazione di un nuovo governo, che sarebbe durato fino al gennaio 1996.

Silvio Berlusconi qualificò come “ribaltone” l’avvicendamento alla guida dell’esecutivo. Secondo la sua tesi egli era stato legittimato alla carica di capo del governo direttamente dal voto popolare.
Molti fecero propria l’asserzione del leader di Forza Italia e criticarono duramente la condotta del Presidente Scalfaro. Su questo tema allora si discusse molto e vi fu un aspro scontro dialettico tra Silvio Berlusconi ed il Capo dello Stato. Tale passaggio sembra essere centrale per la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. In realtà il senso della Carta costituzionale fino ad oggi non è mai mutato. Quel che cambiò fu la dinamica parlamentare: da un modello di tipo “consensuale” (detto anche con accezione negativa “consociativo”) si passò alla democrazia “dell’alternanza”. Dagli anni Novanta le opposizioni si presentano come alternative ai governi, mentre in precedenza erano cooperative con le maggioranze oppure tese a condizionare le decisioni del Parlamento.

Con le dimissioni del primo Governo Berlusconi il Presidente della Repubblica, certo dell’esistenza di una maggioranza parlamentare diversa, nominò il Governo di Lamberto Dini. Il Presidente del Consiglio incaricato si presentò dinanzi alle Camere e ricevette la fiducia. Silvio Berlusconi non aveva ricevuto un voto di sfiducia: si era dimesso dopo l’uscita della Lega dalla maggioranza e sosteneva la necessità di nuove elezioni, sentendosi nel diritto di governare per diretta investitura popolare. Oscar Luigi Scalfaro, uno dei padri costituenti, fu severamente criticato e contestato da una parte degli italiani per il suo operato in quelle circostanze. Se però noi rammentiamo di vivere in una Repubblica parlamentare, dobbiamo rilevare che egli agì in modo ineccepibile. Il Capo dello Stato nella sua qualità di supremo garante della Carta fondamentale si era mosso nella maniera più coerente con il senso della Costituzione.

Nel novembre del 2011 Silvio Berlusconi presentò le dimissioni del suo quarto governo. Il Presidente della Repubblica le accettò e diede l’incarico della formazione di un nuovo esecutivo a Mario Monti. Questi il 17 novembre si recò al Senato per presentare e discutere il programma di governo e ottenne la fiducia con 281 voti a favore e 25 contrari su 306 votanti (quasi il 92%). Il 18 novembre la Camera, dopo la discussione sul programma di governo, accordò a Monti 556 voti favorevoli su 617 votanti (poco più del 90%). I contrari furono 61. Sia al Senato, sia alla Camera si videro maggioranze mai registrate in un voto di fiducia ad un Governo. Sappiamo che tra i partiti che votarono la fiducia c’era il Popolo della Libertà. Oggi si può trovare sul sito… http://www.gruppopdl-berlusconipresidente.it/?p=25738 una cronistoria intitolata «Cronaca del colpo di Stato» che contiene un piccolo paragrafo denominato «il grande imbroglio dello spread, il colpo di Stato del 2011 e le dimissioni di Berlusconi». Vi si legge: «Giugno-Novembre 2011: montano le pressioni internazionali contro Silvio Berlusconi, l’unico capo di governo che a Bruxelles si è sempre opposto alla politica economica restrittiva e ai diktat dell’Europa tedesca. Lo spread, strumento creato ad hoc per far fuori il governo italiano, raggiunge quota 553; 11 novembre 2011: dimissioni di Silvio Berlusconi».


Nei fatti la fiducia accordata con maggioranza non distante dall’unanimità equivalse ad “attaccare la spina” al Governo Monti, pronti a “staccarla” al momento opportuno (durante l’ultimo trimestre del 2012 la locuzione “staccare la spina a Monti” si udiva e si leggeva con frequenza). Sul finire del 2011, di fronte alla drammatica situazione finanziaria italiana occorreva prendere decisioni impopolari: nessun politico di professione voleva assumersi tali oneri, ovviamente per non rimetterci consensi e voti. A questo scopo ecco il prof. Mario Monti, personalità unanimemente stimata a livello istituzionale europeo. L’impressione è che fosse molto gradito anche ai politici di professione connazionali, pronti a scaricare su di lui la responsabilità delle dure misure intraprese, presentandolo agli Italiani alla stregua di un tecnocrate uniformato ai diktat “dell’Europa tedesca” e campione delle politiche restrittive. Secondo una certa versione dei fatti, egli sarebbe salito a Palazzo Chigi senza avere avuto il “necessario” mandato popolare. È appena il caso di notare che i provvedimenti di legge presi dall’esecutivo Monti passarono tutti per il Parlamento eletto dal popolo italiano, sui cui scranni sedevano 272 Deputati e 141 Senatori PDL, 211 Deputati e 116 Senatori PD, 36 Deputati e 3 Senatori UDC, al netto del conteggio dei transfughi di ogni schieramento. Per il Parlamento passò pure la nota revisione dell’articolo 81 della Costituzione, che introdusse nella Carta il principio del pareggio di bilancio. Nell’aprile 2012 la legge costituzionale n. 1 fu approvata con velocità impressionante (sei mesi! Per una legge costituzionale è il tempo minimo!) e con maggioranza superiore ai due terzi, tanto che non fu neppure sottoposta a referendum confermativo.


Qui non si vuole esprimere nessuna valutazione sull’esecutivo Monti, né tanto meno sulla persona di Mario Monti. In questa sede si vuole principalmente porre in evidenza il fatto che dobbiamo distinguere le manovre politiche e le strategie comunicative dalle reali dinamiche istituzionali.

Dobbiamo renderci conto di vivere in una repubblica parlamentare: la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, non i governi, sono eletti dal popolo. Ci piaccia o no. Evidentemente il fatto di vivere in una repubblica parlamentare va a genio alla maggioranza degli Italiani, almeno stando all’esito del Referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Nel Parlamento è rappresentata la società italiana; proprio per questo il Legislativo precede l’Esecutivo ed il governo parlamentare è espressione indiretta della società italiana stessa.

La vicenda dell’esecutivo Monti offre più di un elemento su cui riflettere. Mostra che il nostro sistema parlamentare concede la possibilità di affidare la guida del Governo a personalità esterne, non solo al Parlamento, ma anche all’ambiente politico nazionale. È una possibilità di cui gli esponenti partitici sanno servirsi abilmente, ma è anche una maniera per uscire da circostanze di blocco e di stallo istituzionale. Indica poi che nel 2011 si è interrotta una ben precisa fase storico parlamentare: il periodo che va dal 1994 al 2011, tra una “discesa e una salita in campo” la prima di Silvio Berlusconi e la seconda di Mario Monti, è stato caratterizzato dalla dinamica dell’alternanza tra le maggioranze e le opposizioni. In seguito tale andamento si è arrestato. Durante il governo Monti si è formato un blocco centro-destra/centro-sinistra che ha continuato in un percorso congiunto (del tutto o in parte) fino ad oggi.


Mentre qualcuno si domanda se con le elezioni del 2013 sia nata una “terza Repubblica”, pare forse più semplice riconoscere che non c’è mai stata neppure la “seconda Repubblica”. La dialettica parlamentare si è sviluppata in un certo modo fino al 1994, in un altro dal 1994 al 2011 e in un altro ancora dal 2011 in avanti. Tra il 1994 e il 2011 due “poli”, cioè due raggruppamenti politici, uno di centro-destra, l’altro di centro-sinistra si sono affrontati, presentando agli elettori ciascuno il proprio candidato alla guida dell’esecutivo. È stata una “seconda Repubblica”? Non sembra. Sembra più semplicemente un percorso intrapreso dal sistema parlamentare italiano per l’ingresso “in campo” di una destra rinnovata e ricomposta da Silvio  Berlusconi. Un’operazione politica portata avanti con il noto “sdoganamento” del partito guidato Gianfranco Fini, la cooptazione della Lega Nord di Umberto Bossi e l’alleanza con i centristi di Pier Ferdinando Casini. Del pari tale percorso fu intrapreso per effetto del crollo del blocco comunista e della fine della “conventio ad excludendum” (l’esclusione del PCI dal Governo), cioè con l’ammissione della sinistra alla possibilità di governare.

Dal 2011 ad oggi, passando per il voto del 2013, il Parlamento italiano ha trovato maggioranze di Governo non precostituite né annunciate agli elettori prima del suffragio, ma individuate tra gli schieramenti politici disposti ad allearsi. L’alternanza tra il centro-destra ed il centro-sinistra sembra non funzionare più, a maggior ragione dal 2013 con l’entrata in scena del Movimento Cinque Stelle, la cui consistenza elettorale lo pone tra le prime forze politiche del Paese.

Ogni Governo è legittimamente in carica fino a che trova sostegno nel Parlamento. Il fatto di voler conoscere il nome del Presidente del Consiglio dei Ministri la “sera stessa del voto” è comprensibile, ma non è rigorosamente conforme allo spirito della Costituzione, che assegna al Capo dello Stato la prerogativa della nomina dell’Esecutivo e talvolta del determinante concorso alla sua formazione. Quando il corpo elettorale esprime una volontà chiara il Capo dello Stato è tenuto a rispettarla rigorosamente. Ma quando la stessa chiarezza non sussiste allora il Presidente della Repubblica può svolgere un ruolo di mediazione tra le forze politiche, decisivo per formare il Governo.

Lo schema parlamentare si svolge in due tempi:

1 – gli elettori votano per il Parlamento;

2 – sulla base della composizione parlamentare, il Capo dello Stato nomina il governo. Bisogna sciogliere la Camere e andare al voto ogni volta che un governo cade o si dimette? No. La Costituzione non dice questo. Il Capo dello Stato deve valutare caso per caso. Sia Oscar Luigi Scalfaro nel dicembre 1994, sia Giorgio Napolitano nel novembre 2011 valutarono l’opzione di formare esecutivi diversi, sulla base dei resoconti offerti dai responsabili dei partiti politici e dei gruppi parlamentari e fondata sulla diffusa stima di scenari alternativi molto preoccupanti. A proposito del Presidente della Repubblica emerito: l’appellativo giornalistico di “Re Giorgio” non sembra essere fondato se si considera che senza il sostegno parlamentare egli non avrebbe potuto “creare” da sé nessun governo. Come si diceva sopra, tale appellativo più che ai fatti attiene al racconto (oggi quasi tutti dicono lo “storytelling”) che si fa degli stessi. Chi sostiene che in questo Paese sia preferibile eleggere direttamente il governo, contestualmente al Parlamento, ha avuto la sua grande occasione il 4 dicembre scorso.

Savona, 18 gennaio 2017

 Laureato in Scienze Politiche è un attento e fine osservatore dell’accadere politico globale

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