Giorgia ed Elly, due ancelle in lotta per conquistare la Bestia

Ci sono momenti in cui la politica diventa un palcoscenico teatrale, un gioco di ruoli che supera ogni aspettativa. È il caso di questa fase storica in cui il destino dell’Europa e il riequilibrio degli assetti globali si intrecciano in una danza vorticosa, costringendo i leader politici a reinventarsi continuamente.

Chi avrebbe mai immaginato che, dopo decenni di relativa stabilità, gli Stati Uniti, ormai sempre più isolazionisti, avrebbero minacciato di rompere con la NATO e di abbandonare l’Europa al proprio destino? Uno scenario che, fino a pochi anni fa, sarebbe sembrato un paradosso.

E così, nella necessità di rispondere alla tempesta imminente, l’Unione Europea ha tirato fuori un’insospettabile determinazione, come un vecchio attore che, all’ultimo atto, riscopre il proprio talento drammatico. Ursula Von der Leyen – che certo non è un Churchill – ha orchestrato un’improvvisa accelerazione sul riarmo, mentre i leader di Francia, Germania e Inghilterra tentano di prendere le redini della situazione.

Ma in questa rappresentazione epica, a livello nazionale la scena è occupata da due figure femminili che sembrano contendersi un ruolo di primo piano nel cuore di un protagonista d’oltreoceano: Donald Trump. Un copione che richiama alla mente La Bella e la Bestia, con Giorgia Meloni ed Elly Schlein nelle vesti di ancelle in lotta per il favore del temibile signore del castello.

Il sogno infranto della favorita
Giorgia Meloni, un tempo convinta di essere la prescelta per fungere da tramite tra la Bestia e il Vecchio Continente, si trova oggi a fare i conti con una realtà ben diversa. Quando Trump ruggisce, lo fa con leader di peso: Macron, Starmer, Tusk, perfino il nuovo cancelliere tedesco Merz. Ma non certo con la nostra premier, che pensava di avere un accesso privilegiato a Mar-a-Lago e invece si ritrova relegata al ruolo di spettatrice.

L’illusione di essere la “Bella” della situazione si è sgretolata, lasciandola in un limbo diplomatico. Con un governo popolato da una corte di consiglieri improvvisati e baroni di provincia, la Meloni si trova oggi a fronteggiare uno scenario complesso, nel quale la parola “riarmo” suona come una bestemmia agli orecchi degli italiani, più inclini alla lirica che alla guerra.

Il suo dilemma è evidente: da un lato vorrebbe dimostrare fedeltà alla NATO e all’asse atlantico, dall’altro deve fare i conti con un’opinione pubblica ostile e con una maggioranza parlamentare che si muove in ordine sparso, come se ciascun ministro fosse il protagonista di una commedia diversa.

La sua reazione? Un accumulo di contraddizioni, una serie di mosse scomposte, un’impulsività che la porta a oscillare tra dichiarazioni roboanti e retromarce imbarazzanti.

L’ancella ribelle e la sconfitta annunciata
Dall’altra parte della scena c’è Elly Schlein, convinta che basti recitare il copione della Bella per ottenere il plauso della corte progressista. Ma anche per lei la trama si complica. Se Meloni si è vista chiudere le porte del castello, Schlein non è mai nemmeno riuscita a varcarne il ponte levatoio.

La leader del Partito Democratico ha scelto una strategia diametralmente opposta alla rivale: mentre Meloni cerca un ruolo in politica estera, lei punta tutto sulla differenziazione interna. Vuole incarnare l’alternativa, l’opposizione morale, la voce fuori dal coro. Ma nel farlo, finisce per inciampare nelle sue stesse contraddizioni.

Il tema del riarmo europeo è stato per lei una trappola letale: terrorizzata dall’idea di alienarsi il voto pacifista, si è lanciata in una serie di supercazzole a base di “salti quantici dell’UE” e “difesa comune sì, ma riarmo nazionale no”. Un equilibrismo retorico che non ha convinto nessuno, tantomeno i suoi alleati europei, che l’hanno liquidata senza tanti complimenti.

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Schlein si è così trovata nella peggiore delle situazioni: umiliata dai leader socialisti europei, in rotta con il Quirinale, e incapace di scrollarsi di dosso l’ombra ingombrante del Movimento 5 Stelle e della sinistra radicale.

Una favola senza lieto fine
E così, mentre la Bestia osserva con indifferenza la contesa, le due ancelle continuano a sfidarsi, sperando di conquistare un ruolo che, in realtà, nessuna delle due è destinata a ottenere.

Meloni sogna di essere l’ambasciatrice di Trump in Europa, ma il suo peso specifico è inferiore a quello di un qualsiasi leader dell’Europa centrale. Schlein ambisce a incarnare la coscienza progressista del continente, ma è ostaggio di un’elettorato frammentato e poco incline ai compromessi.

Il vero dramma è che l’Italia, in questa grande recita globale, non è più un protagonista. È un comprimario, un figurante sullo sfondo. Un Paese che, nonostante il talento teatrale dei suoi leader, sembra destinato a rimanere ai margini della storia.

Forse, per una volta, servirebbe più pragmatismo e meno messinscena. Ma la politica italiana, si sa, è prima di tutto spettacolo. E finché il pubblico applaude, il sipario non cala mai.

Antonio Rossello       CENTRO XXV APRILE

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