Gaza sì, Kiev no: l’indignazione a corrente alternata

C’è un paradosso che in questi mesi mi pesa addosso come un macigno. Migliaia di persone scendono in piazza, si indignano, scrivono post infuocati e invocano la giustizia per Gaza – e va bene, anzi, benissimo: è giusto indignarsi per i morti, per le macerie, per la brutalità che colpisce i civili. È doveroso. Ma mi chiedo: dove sono le stesse voci quando si parla di Kiev? Dove finiscono i cuori e le bandiere quando i morti, le torture, i bombardamenti colpiscono gli ucraini?

Sembra che la sofferenza, per molti, valga a seconda della geografia. Gaza scuote le coscienze, Kiev no. Gaza incendia i social, Kiev si spegne nel silenzio.

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Eppure a Kiev si muore allo stesso modo, sotto le bombe, nei blackout, nei sotterranei. Le case crollano, le famiglie fuggono, i bambini crescono con il rumore delle sirene. Ma questa guerra, per troppi, non scalda i cuori: è diventata rumore di fondo, fastidio geopolitico, qualcosa di meno “spendibile” sul piano ideologico.

La verità è che l’indignazione selettiva è la forma più ipocrita di umanità. Si indossa la maschera della compassione, ma solo quando conviene alla propria narrazione politica, al proprio posizionamento ideologico, al proprio bisogno di sentirsi dalla parte giusta. Gaza diventa così il palcoscenico perfetto: David contro Golia, il popolo martire contro il potere oppressore. Kiev invece è un terreno scivoloso, con troppe sfumature, con un nemico (la Russia) che alcuni ancora oggi ammiccano o giustificano.

Ma la guerra è guerra. I morti sono morti, che abbiano un nome arabo o ucraino, che pregano guardando La Mecca o una chiesa ortodossa. Fingere che non sia così significa ridurre la solidarietà a slogan vuoti, a manifesti da appendere e dimenticare.

E allora, permettetemi la rabbia: perché indignarsi a metà è peggio che non indignarsi affatto. Perché scegliere per chi piangere e per chi voltarsi dall’altra parte non è umanità, è propaganda. E io non ci sto.

Ентоні Eлегантний

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