Gaza, la pace impossibile e quella “voluta” da Trump
Si parla di pace a Gaza come si parla del tempo: con rassegnazione, fatalismo, e una buona dose di ipocrisia. È la parola più pronunciata e meno praticata del nostro tempo. Tutti la invocano — governi, religioni, diplomazie, movimenti — ma nessuno, in fondo, sembra volerla davvero.

Netanyahu, Trump
Ogni volta che un bombardamento si ferma, si annuncia un “cessate il fuoco”. Ogni volta che riparte, si spiega che “non c’erano alternative”. La guerra si è trasformata in un algoritmo, e la pace in un comunicato stampa. Israele rivendica la sicurezza come diritto inalienabile, Hamas la resistenza come missione sacra. Due verità assolute che, scontrandosi, cancellano ogni verità umana.
E mentre Gaza brucia, il mondo fa finta di non sapere da che parte guardare. Chi si indigna per Gaza ma tace su Kiev, chi difende Israele ma dimentica il diritto internazionale, chi predica la pace con le bandiere ma poi vota per i bilanci militari. È la solita geopolitica dell’indignazione selettiva, in cui la coerenza è una parola troppo scomoda e l’ipocrisia una virtù diplomatica.

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In questo scenario entra in scena — di nuovo — Donald Trump, che tra una minaccia di dazi e un comizio promette la “pace vera” per il Medio Oriente.
La chiama “sustainable, long-term peace”, una pace “sostenibile e duratura”. L’ha definita addirittura “extremely fair”, estremamente giusta, invitando Hamas ad accettarla “prima che scoppi l’inferno”.
Un linguaggio apocalittico travestito da buona volontà.
Ma la “pace voluta da Trump” ha un suo prezzo: il silenzio dei bombardamenti in cambio della resa politica, la ricostruzione di Gaza in cambio del suo controllo. In un suo piano del 2025 — mai formalmente adottato ma ampiamente discusso — Trump propose persino che gli Stati Uniti assumessero la gestione amministrativa della Striscia, trasformandola in una sorta di “Riviera del Medio Oriente”. Un’idea tanto visionaria quanto sinistra: ricostruire un luogo distrutto a condizione che chi ci vive diventi ospite della propria terra.
È una pace dall’alto, calata come un decreto: la pace dei vincitori, quella che nasce non dal dialogo ma dalla stanchezza, non dalla giustizia ma dal controllo.
Eppure, la parola resta affascinante. Pace. Tre sillabe che Trump, Netanyahu, Biden e tutti gli altri usano come una moneta di scambio per comprare consenso e tempo.
Ma la pace non è un piano politico, né una bandiera da sventolare ai comizi.
La pace è un lavoro quotidiano, fatto di verità, memoria e coraggio.
E oggi, a Gaza, mancano tutte e tre.
Perché nessuno chiede davvero la pace — tutti chiedono di vincere.
E finché la pace sarà confusa con la vittoria, a Gaza continuerà a non esserci né l’una né l’altra
أنطونيو النبيل