Gavarry, un edificio da rifunzionalizzare

GAVARRY, UN EDIFICIO DA RIFUNZIONALIZZARE

 GAVARRY, UN EDIFICIO DA RIFUNZIONALIZZARE
  Non intendo affrontare.

Non intendo affrontare le motivazioni, tecniche e non solo, che stanno alla base dell’opposizione, da parte degli abitanti, sulla futura edificazione delle aree relative alla fabbrica Gavarry di Albisola Capo.

Già ne trattai l’argomento sviscerandone i diversi aspetti urbanistici dell’operazione contrabbandata per “riqualificazione” e di opportunità politiche delle diverse Amministrazioni che si sono succedute.

Sono già trascorsi otto anni dal primo Accordo di Programma, quello firmato Lionello Parodi, dove si prevedeva, una volta demolita la fabbrica, la costruzione di 149 appartamenti con 9.900 metri quadrati, 1200 metri quadrati di negozi e un edificio pubblico di 600 metri quadrati con una vasta area di parcheggio sotterranea.

Sono trascorsi anni, ormai, dalla presentazione del progetto, che prevedeva  l’edificazione di due torri di 10 e 11 piani, quest’ultima alta 37 metri, che sarebbe stato realizzato da Alfa Costruzioni di Barbano.

Non affronterò neanche le dolorose vicende legate alla dichiarazione di chiusura totale per l’avvio della procedura di fallimento dell’attività della storica fabbrica di saponi “Gavarry” che prima di quell’Accordo di Programma aveva sede ad Albisola e che poi è stata delocalizzata a Quiliano.


 Stabilimento di Quiliano

Un fallimento che lascia a casa 34 lavoratori e che apparentemente risulterebbe inspiegabile, considerato che  il marchio “Gavarry” era diventato nei decenni un sinonimo di qualità per l’industria dei saponi e dei cosmetici, arrivando ad impiegare fino a 70 lavoratori, ma anche dalla  gestione poco lungimirante fatta di errori manageriali e di accordi politici disinvolti che da più parti sono stati letti come veri e propri progetti speculativi.

Non devo ripetere che la sottoscritta ha, da sempre, dichiarato la propria avversione alla delocalizzazione forzata dell’azienda, e lo ha fatto anche in ambito amministrativo, prima ancora che si definisse il “famoso” accordo di programma.

Vorrei parlare invece della storia.

 Vorrei parlare invece di quello che è stata questa fabbrica per Albisola e per l’Italia, partendo da quando, nella seconda metà dell’800, nasceva nella cittadina francese di La Ciotat, tra Tolone  e Marsiglia, l’antico saponificio Gavarry.

Il proprietario, Monsieur Gavarry, imprenditore e maestro saponiere, stava dedicando ogni sforzo allo sviluppo della propria attività non solamente in Francia ma anche nella vicina Italia, dove avrebbe aperto un piccolo saponificio ad Arma di Taggia.

Nel 1929, Gavarry decideva di cedere le proprie attività al Sig. Domenico Sguerso che possedeva già il piccolo saponificio “Domenico Sguerso & Figli”, fondato a Savona nel 1912.

 Così nasceva nel 1929 la: “Stabilimenti Italiani Gavarry” che decideva di concentrare tutta la produzione a Savona.


Col passare degli anni il nome Gavarry diventava noto in tutta Italia per la qualità dei suoi saponi da toeletta, da barba e da bucato in vari formati, grammature e confezioni che formavano un catalogo invidiato da più parti, al punto che lo stabilimento di Savona non riusciva più a far fronte agli accresciuti volumi e il magazzino a contenere un numero sempre maggiore di prodotti.

Nel 1940 si decideva, così, di costruire un nuovo e moderno stabilimento a 5 chilometri da Savona , proprio nel Comune di Albisola Superiore, in un terreno agricolo con orti ed alberi da frutto e che solo la guerra ne ritardava la costruzione. Nel 1945 ad Albisola, nasceva, così, uno dei più moderni e imponenti saponifici che si sarebbe arricchito, negli anni 50, della produzione di altri detergenti specifici e nel 1956 avrebbe annesso anche  “L’Amande” di Vallecrosia (IM): un’azienda nata  30 anni prima, per produrre e commercializzare, in Italia e Colonie, i prodotti dell’antica “Huilerie & Savonnerie de L’Amande”: una delle più antiche fabbriche di Marsiglia, rilevata con tutti i marchi che passarono a Gavarry insieme alle ricette originali di tutti i prodotti.


Ai saponi si aggiunsero, negli anni, le linee per capelli, per barba, per le mani e molti altri cosmetici raffinati, non ultimi i prodotti sperimentali per le prime lavatrici.

Quando, nel 2002, ebbi il privilegio di visitarla provai una forte emozione nell’assistere alla produzione del sapone, il cui profumo e il prezioso impasto, mi si spiegava, fosse proprio in tutto e  per tutto quello delle antiche ricette di Marsiglia che ormai pochissime fabbriche, a quel modo, sapevano produrre.

Non intendo addentrarmi.

Non intendo addentrarmi nelle motivazioni che avrebbero spinto i proprietari dello stabilimento ad accettarne e assecondarne la delocalizzazione e quali le difficoltà oggettive della permanenza ad Albisola, la cui Amministrazione con le unghie e coi denti avrebbe dovuto facilitarne la permanenza sul proprio territorio.

Così non è stato.

 La famosa Gavarry non solo dopo cinquant’anni non è più in Albisola, ma si accinge a chiudere definitivamente i suoi battenti anche a Quiliano.

Le vicende che interessano l’edificio di Albisola.

Le vicende che interessano, invece, l’edificio di Albisola che ancora esiste, credo che debbano essere motivo di ampia riflessione.

Gli edifici produttivi di carattere industriale dal 19° secolo agli anni ’40, come quello di Albisola, sono, da qualche tempo, oggetto di studi sotto il profilo architettonico e storico e per questo racchiusi in quell’interessante capitolo denominato: archeologia industriale.

      Le vaste dismissioni industriali hanno aperto, anche nel nostro territorio, un problema strategico nell’ambito più generale del patrimonio edilizio dismesso, sulla cui riutilizzazione e  gestione si pongono oggi in discussione, dopo decenni di politiche di invasione di nuove zone territoriali, questioni fondate sulla riconversione delle aree e sul recupero degli edifici, considerati ormai dalla critica internazionale  testimoni di processi vitali della società negli ultimi due secoli.

      Questi edifici sono stati facilmente trascurati, abbattuti, ignorati per lo scarso valore conferitogli dall’opinione corrente, mentre il mondo della ricerca architettonica e urbanistica  ha già aperto una vertenza importante, avanzando richieste di revisione del Codice dei Beni Culturali, in modo da accogliere i resti storici dell’industria tra i beni culturali.

        La questione della gestione del patrimonio industriale dismes¬so, non è certo stata nel savonese, fonte di dibattito come in altri Paesi del mondo, perché la problematica  della crescente consistenza di aree e di edifici non destinati alla residenza e progressivamente dismessi, accumulatasi spesso in zone “appetibili”, è stata risolta facilmente trasformandole sotto l’aggettivo “riqualificante” in volumetrie a destinazione residenziale  e quindi di facile profitto immobiliare e per questo, spesso, hanno avuto bisogno di delocalizzazioni forzate delle aziende.

 In altri luoghi, anche d’Italia, altre decisioni e altre esperienze urbanistiche si sono e si stanno facendo.

 Un esempio.

 A Roma gli edifici della società Aerostatica “Avorio” del 1936 passano nel 1991 alla Salini 


Costruttori che dopo una ristrutturazione sono dati in locazione all’Università.

Tutti gli edifici insistono in una zona depressa e l’edificio principale si presenta con un aspetto architettonico severo, a pianta quadrata,  con bande di blocchi di tufo e mattoncini che ne decorano la facciata.

Il lato est che presentava un atrio, oggi appare coperto per uso laboratorio e una grande ala della fabbrica è oggi diventata spazio per sale studio di studenti e docenti.

Anche i capannoni sono stati recuperati per un uso consono all’Università e in parte sono collegati con pensiline trasparenti, sempre conservandone l’aspetto architettonico preesistente.

Se osserviamo l’edificio  Gavarry.

Se osserviamo con occhi attenti, l’edificio Gavarry notiamo quante straordinarie qualità architettoniche presenti e quante analogie possiamo trovare con l’edificio citato.

Per di più l’edificio Gavarry si colloca in una zona centrale della città,  che ben si presta a operazioni strategiche per futuri programmi urbani che, proprio dopo anni di  occasioni perse e scelte sbagliate, potrebbero costituire stimolo ad investimenti e progettualità diversa da quella ad uso immobiliare .

Il processo d’invecchiamento prodotto dal mancato uso e dalla mancata manutenzione non  ha svilite le caratteristiche architettoniche di quell’architettura industriale razionalista che ha caratterizzato il 900, progettata con estrema cura e attenzione nei dettagli delle facciate , con armoniose bucature che nulla hanno di incompatibile con l’edificazione intorno.

Quale compatibilità avrebbero le due torri al posto di una pianta articolata con altezze riconducibili all’attuale edificazione della zona?

 Non è forse giunto il momento di riformulare il problema del patrimonio della produzione industriale per arrivare a un nuovo modello di sviluppo da proporre?  Dare un nuovo ruolo ai siti e ai ‘monumenti’ dell’industria nelle politiche di sviluppo locale, del marketing territoriale, della loro partecipazione alla ripresa del ciclo edilizio e infine alla realizzazione di nuove forme di coe-sione sociale e d’identità locale nella competitività territoriale?

  

  Non si pretende di imitare ciò che è avvenuto nella Ruhr.

Non si pretende di imitare ciò che è avvenuto nella Ruhr, dove in pochi anni, una delle più grandi aree deindustrializzate e avvelenate d’Europa è stata trasformata in una metropoli culturale, con  400 musei  e centri culturali e ben 3.500 monumenti industriali recuperati ad usi capaci di configurare un modello del tutto nuovo di uso del territorio, naturalmente  con in-novativi processi di sviluppo sostenibile.

Si chiede, però, di amministrare un territorio nella consapevolezza che non sia più ragionevole pensare di uscire dalla crisi, che investe anche l’edilizia, continuando a operare soltanto sulla dialettica  “demolizione-ricostruzione-profitto immobiliare”, ma convincersi che il «recupero» e la «rifunzionalizza¬zione» degli edifici industriali, costituiscano terreni favorevoli al dibattito culturale e politico, aprendo percorsi sui quali è possibile indurre pratiche virtuose di risparmio di territorio, di conservazione di paesaggi e di delicati equilibri territoriali e ambientali.

Si leggeva su un quotidiano pochi giorni fa: “ExGavarry, aree in stato di degrado. Si evidenziano le prime crepe sui muri dell’ex saponificio Gavarry di Albisola Capo, i terreni circostanti sono invasi da erbacce, pozzanghere nei piazzali sterrati. E’ la fotografia della vasta area in abbandono da due anni, da quando l’attività lavorativa è stata trasferita a Valleggia e prima il Tar, poi il Consiglio di Stato, hanno accolto il ricorso degli abitanti della zona sul progetto di riqualificazione, ritenuto troppo invasivo.”

Non strumentalizziamo crepe, erbacce, pozzanghere per forzare la mano a Tar e Consigli di Stato e rendere accettabile un intervento ormai superato, ma proprio perché l’abbandono non sia immobilismo culturale, cominciamo a girare pagina.

ANTONIA BRIUGLIA

 

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