Fra pensiero unico e affinità elettive
Sono in macchina e per tenermi sveglio e carpire qualche notizia mi sintonizzo su un giornale radio Rai ma dopo poco perso il segnale mi appare radio Libertà, l’emittente leghista; bastano pochi minuti di ascolto per ringraziare i numi tutelari della patria della batosta elettorale subita dal partito fondato da Umberto Bossi. Il conduttore, pare che sia un dirigente di quella che era la Lega Nord, è un logorroico soporifero. Di quel che ne esce, a parte la freddezza sull’ipotesi di Salvini al Viminale – l’unico ruolo in cui il simpatico Matteo può dare un segno di vita politico – e sorvolando sulle continue allusioni ad una “grandissima dottrina su cui si reggerebbe la Lega, purtroppo ignota anche agli elettori più affezionati, mi hanno colpito due cose. La prima: la Lega si autodefinisce il partito delle autonomie, da intendere non solo o non tanto sotto il profilo amministrativo – e si può essere d’accordo – ma su una base economica, culturale e addirittura etnica, con tanto di appello ai “popoli” del Belpaese.
Manca solo che si proponga la riattivazione delle cinte daziarie. Ora il posso capire, ma non giustificare, che ci sia del malumore per le risorse del nordest cha vanno a coprire le falle del mezzogiorno e delle isole: potrei osservare che è una conseguenza del patto sociale, che è così in tutti i Paesi del mondo, e che c’è stato un periodo in cui il sud è stato impoverito per risarcire il nord dissanguato dalle guerre risorgimentali, con l’industria e la cultura del sud soffocate per fare spazio al nord ma non voglio mettermi al livello delle risse da campanile; mi preme però ricordare ai signori della Lega che le tasse di uno Stato sanguisuga succhiate al nord come al centro e al sud vanno in buona parte a ceti parassitari e ad una politica dell’accoglienza che se nuoce alla grande massa degli italiani fa però comodo non solo alle Ong ma anche a tante aziende, agricole e no, di tutta la penisola, nord in testa. Il che spiega certe strane ambiguità in campo leghista sul tema dell’immigrazione clandestina e una velata ostilità nei confronti di Salvini al Viminale. La seconda: della crisi energetica che sta mettendo in ginocchio imprese e famiglie e dell’inflazione che erode stipendi e pensioni sarebbe responsabile Putin. E a corroborare il concetto interviene l’ospite politica e ti sento Laura Ravetto, deputata leghista di lungo corso, che prende spunto dalla telefonata di un sostenitore per una requisitoria – è un’avvocata, perbacco – contro il regime autocratico russo che avrebbe per sete di conquista invaso il Donbass.
Se anche in casa leghista si accreditano le corbellerie della propaganda Usa senza un minimo di senso critico, senza traccia di conoscenze storiche e geopolitiche, devo cospargermi il capo di cenere per aver dileggiato in ogni occasione elettori militanti e dirigenti pentastellati. Passo mentalmente in rassegna quelle povere anime che grazie a qualche decina di voti si sono trovati uno scranno in Parlamento e devo riconoscere che nel loro spesso goffo ripetere la lezioncina su reddito di cittadinanza ambiente e riduzione del numero dei parlamentari non ho mai sentito tanta stupida sicumera, tanta mancanza di dubbi e tanta disinformazione (Di Maio è un caso a sé). Meglio un/a sempliciotto/a piuttosto del Capezzone di turno, – quello che “con tutta franchezza” spara banalità a raffica e contribuisce a riempire di paccottiglia gli scaffali delle librerie – che infesta tutti i partiti, a sinistra, a destra e al centro. Perché la questione russa sta diventando un caso culturale e morale, prima ancora che politico. Come si può con tanta leggerezza, senza un minimo di dati a disposizione, sentenziare che il presidente della federazione russa è un autocrate quando il posto che occupa gli è stato assicurato da elezioni libere almeno quanto sono le nostre e sicuramente meno opache di quelle americane? Un autocrate perché può deporre vertici delle forze armate, un potere che ha qualunque capo di Stato? Un autocrate che però deve guardarsi dai falchi del suo partito, del suo governo e della Duma? Un autocrate il cui potere vacillerebbe se la sua popolarità dovesse calare di qualche punto? Non scherziamo.
I russi stanno perdendo la guerra, un’altra bufala accreditata unanimemente da media e politica nostrani. Se le repubbliche autonome del Donbass da due sono diventate quattro e ne è stato ratificato l’ingresso nella federazione russa dopo che vi si è svolto un referendum, la Crimea rimane russa e nessuno in occidente si azzarda a metterlo in dubbio è difficile capire quale guerra stiano perdendo i russi. L’unica cosa chiara è la volontà di Zelensky di continuare la guerra, di coinvolgere la Nato, di costringere gli Usa ad un attacco nucleare preventivo e di perpetuare le sofferenze del popolo ucraino. L’attentato che ha danneggiato, i nostri fan si auguravano distrutto e sprofondato, il ponte che unisce la Crimea al continente, è un nuovo segno del cinismo dell’ipocrisia e della pericolosità del presidente ucraino. Che prima ha esultato, poi, secondo il copione già visto a Zaporizhzhia, ha addossato la colpa ai russi, poi ne ha rivendicato con orgoglio la paternità. Ora che abbiamo imparato a conoscere il fantoccio che rischia di sfuggire di mano a chi l’ha creato non ci stupiamo. Stupisce però l’eco puntuale che rimbalza sui media europei e in particolare italiani: stesse contraddizioni, stessa ipocrisia, condite però con qualche giustificata preoccupazione: come reagirà Putin ad un attacco sul territorio russo, perché, dicono, se non vorrà perdere la faccia in casa sua una reazione inevitabilmente ci sarà. Quindi si dava per inteso che ci sarebbe stata una risposta sul suolo ucraino. Ma quando questa è puntualmente arrivata tutti si sono messi a belare: terrorismo, eccidio, ulteriore prova che lo Zar è fuori di testa, che vuole allargare il conflitto. In realtà la Russia, data allo stremo, ha dimostrato di poter colpire quando vuole come vuole e dove vuole: la sua rappresaglia non è stato un indiscriminato attacco distruttivo, come quello a cui ci hanno abituati gli angloamericani ma un preciso e sistematico colpo alle infrastrutture energetiche ucraine. Sì, però – si può obbiettare – ci sono stati una dozzina di morti e più di sessanta feriti. Mi sento di rispondere che una sola vita ha un valore inestimabile ma è un miracolo che un attacco missilistico di enormi proporzioni non abbia prodotto catastrofici effetti collaterali; e nessuno ha rifiatato su chi è rimasto vittima dell’esplosione su ponte di Kerch. E infine: quale risposta ci si sarebbe dovuto aspettare? Un buffetto, una nota diplomatica
Ma questa nuova versione del pensiero unico è testimonianza di un difetto di strumenti critici e di limiti cognitivi o c’è un interesse generalizzato a mentire nel tentativo di disorientare l’opinione pubblica? Mi trovo davanti a un dilemma e non so decidermi fra i due corni: c’è nel sistema Italia un perverso criterio di selezione a rovescio in forza del quale chi ha maggiore visibilità è anche meno intelligente o siamo in balia di poteri capaci di cucire bocche riottose o di fare parlare all’unisono quelle docili? Possibile che non ci sia uno, uno solo fra quelli di cui la voce raggiunge il grande pubblico che dissenta, che protesti, che si dissoci; possibile che tutti, tutti, i mezzi di comunicazione siano nelle mani di un solo regista? possibile che siano tutti stupidi o corrotti o ricattati? dov’è finita la complessità, dov’è il dubbio, il dissenso e soprattutto dove è finita la ricerca della verità? Sento un professore universitario di storia, quello che malauguratamente è stato trombato nell’urna, che parla di cose che non sa, che non avverte l’esigenza di documentarsi, che evidentemente non è abituato a studiare (costa fatica) e vagliare le fonti: il potenziale bellico russo è agli sgoccioli, il suo arsenale e fatto di ferri vecchi, il suo esercito è stato decimato, la Russia ha perso la guerra. Ma chi gli ha dato la cattedra.
Primo effetto della vittoria del cosiddetto centrodestra a trazione meloniana la presidenza del senato all’ex missino Ignazio La Russa. Il quale, ahimè, nel suo discorso di insediamento invece di limitarsi a un sobrio intervento di circostanza ci ha tediato con uno sproloquio ridondante, prolisso, dolciastro, rassicurante verso le opposizioni, ecumenico ma con un paio di uscite rivelatrici: la prima sull’Ucraina, dove non si è limitato a ribadire la posizione assunta dall’Ue e condivisa con sfumature diverse dalla coalizione ma ha voluto insistere sulla resistenza dei patrioti ucraini. Non sarà che aveva in mente i miliziani del battaglione Azov? L’altra quando ha tirato in ballo il Papa, non si sa a che titolo, per le sue parole sul lavoro e la necessità di un giusto riconoscimento economico ai lavoratori, sottacendo le altre più accorate e più insistite e soprattutto rivolte a una ben più ampia platea sulla follia delle armi e sull’urgenza di un negoziato di pace, di pace senza aggettivi. Un modo come un altro per censurarlo, sulla scia di tanti baciapile, con in testa il fortunatamente decaduto primo ministro. Almeno su questo Fontana, il nuovo presidente della Camera, è stato più avveduto quando, evidentemente per ribattere al nostalgico delle croci celtiche, si è anche lui rivolto al Papa ma per ricordarne l’appello alla pace.
Confesso che le tensioni nella maggioranza – anche se i motivi non sono fra i più nobili – mi fanno sperare che questo governo, che nasce nel peggiore dei modi, abbia vita difficile e magari vada a frantumarsi sul primo scoglio. Preferisco una instabilità che apre alla speranza di rinnovamento ad una continuità che smaschera la finzione della dialettica destra-sinistra (e il soccorso rosso a La Russa è un chiaro segnale) e ci condanna alla stagnazione, ci schiaccia su Bruxelles ci rende sudditi della finanza globale togliendoci qualunque barlume di sovranità. Mi spiace per chi ha puntato sulla Meloni convinto di votare per il cambiamento o per il meno peggio. Il meno peggio in questa congiuntura – posto che un’opposizione autentica come quella di Rizzo o Paragone non aveva obiettivamente spazio – erano Salvini e Berlusconi.
Da loro, infatti, ci si poteva aspettare se non altro maggiore cautela sulla questione da cui dipende il futuro economico e sociale dell’Italia: il rapporto con la Russia e la restituzione del conflitto ucraino alla sua ragion d’essere, vale a dire lo statuto delle regioni russofone e la neutralità dell’Ucraina. Fratelli d’Italia, forse perché identificano la nuova Russia con l’Urss o, non vorrei dirlo, l’Ucraina con la tetra simbologia nazista, e il Pd per inconsce o consapevoli ragioni opposte perché vede in Putin l’affossatore definitivo di quel comunismo che non ha mai abiurato si trovano, per dolo o ingenuità infilati nello stesso cul de sac dal quale, in modi e tempi diversi, gli altri Paesi europei e lo stesso Biden sanno come uscire. Il neo presidente del senato che si è fatto interprete di questa catastrofica scelta di campo dovrebbe porsi davanti all’evidenza: è impossibile, assolutamente impossibile, che la Russia venga sconfitta sul piano militare o diplomatico; è folle pensare ad una riedizione del cadeau – la Crimea russa – fatto da Kruscev ai compagni ucraini ed è da dissennati avanzare anche solo l’ipotesi che le regioni russofone del Donbass siano sottratte alla federazione russa e date di nuovo in pasto a Kiev. Gli americani lo sanno bene e agitano lo spauracchio atomico solo come strumento di propaganda: avevano degli obbiettivi e gli hanno raggiunti quasi tutti. Hanno rinfrancato la loro economia vendendo il loro gas all’Europa e con l’incremento vertiginoso dell’industria bellica, hanno rinsaldato la Nato, hanno addomesticato tutti i leader europei. A questo punto per loro basta, si può scaricare il fantoccio Zelensky. Troppo difficile da capire per Meloni, Letta, Calenda e compagnia cantante.
Pierfranco Lisorini
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