Fra la peste e il colera

Pare che rispondendo a un giornalista che gli aveva chiesto quale dei due candidati alla presidenza riscuotesse la sua simpatia un elettore francese abbia risposto:  fra il colera e la peste io non scelgo.  Un po’ esagerato ma c’è da capirlo: uno, l’uomo del potere finanziario, calato dall’alto, insensibile verso i  problemi del ceto medio, pronto a  far pagare a pensionati  e salariati il costo delle ricorrenti crisi che  colpiscono  l’economia francese quanto attento all’umore dei mercati, l’altra una zia bonaria  vicina  al popolo delle campagne e dei piccoli centri, paladina del nuovo quarto stato delle banlieues costretto a convivere con  la violenza degli immigrati di seconda terza o quarta generazione,  ma palesemente priva di una vera visione politica, surrogata  da promesse rassicuranti e buone intenzioni.

Macron e Lepen

Entrambi inaffidabili, seppure per ragioni opposte.  Va però riconosciuto che Marine Le Pen non ha nulla a che fare con la retorica di destra, micidiale in ogni latitudine  ma soprattutto ridicola, oltre che perniciosa, in Francia, dove la destra nostalgica evoca il fantasma di Vichy, la grandeur o le croci uncinate; il suo è un populismo diretto, propositivo, preoccupato della sicurezza ma centrato  sulle difficoltà economiche delle nuove povertà. Difficile, insomma, distinguere il suo linguaggio da quello della sinistra tradizionale, con la quale condivide una bella fetta di elettorato e verso la quale si guarda bene da alzare steccati. Macron, dal canto suo, è l’uomo delle banche e del capitale finanziario, si sforza di interpretare le istanze popolari ma non convince nessuno, fa leva sul sentimento nazionale e questa in Francia è sempre una buona carta da giocare ma soprattutto ha un occhio di riguardo per gli interessi politici ed economici francesi; il suo europeismo è segnato da venature egemoniche e il baricentro della sua politica rimane Parigi e non Bruxelles. E se in Francia la presenza di milioni di nordafricani di seconda terza o quarta generazione rappresenta un problema è la conseguenza dei trascorsi imperialistici e non si può imputare nulla al suo governo, che ha sigillato i confini a danno dell’Inghilterra, che reagisce, e soprattutto dell’Italia, che subisce. Macron poi, più e meglio di Scholz, mostra qualche difficoltà a genuflettersi davanti a Biden e ad allinearsi all’asse angloamericano (toh! siamo tornati indietro di ottant’anni buoni) e stenta a considerare la Russia l’Urss risorta o mai veramente defunta (i nostri telegiornali sono arrivati al punto di mostrarci come russe le bandiere rosse con la falce e martello!) come vorrebbero Johnson e gli americani.

Insomma, un francese esigente si rifiuta di scegliere fra due mali, non vuole né la peste  né il colera e lascia che siano gli altri a farlo. Accade così che Macron ha vinto – e forse per noi è meglio così – la Le Pen  è soddisfatta del suo 42% ma il partito che ha trionfato è quello dell’astensione.
Quell’esigente citoyen-elettore che avrebbe voluto un candidato autorevole capace di rappresentare veramente la Francia, tutta la Francia, e di difenderne gli interessi contro i nemici – e gli amici – del passato e del presente e si rifiuta di riconoscersi  in Macron o nella Le Pen, cosa avrebbe fatto se il destino l’avesse fatto nascere nel Belpaese e si fosse trovato a dover prendere partito per Draghi  o per la Meloni? Altro che peste o colera, malattie dalle quali si può guarire; qui si tratta di scegliere fra finire arrostiti o buttarsi dal ventesimo piano. Andiamo con ordine. La Le Pen, sulla carta leader della destra francese anche se impegnata a togliersi di dosso l’etichetta, corrisponde alla Meloni, leader incontrastata della destra italiana, soprattutto ora che Salvini è evaporato e quel poco che ne resta brancola di qua e di là. I francesi hanno Marine, noi abbiamo Giorgia, quella che in piazza del Popolo urlava: “sono una mamma, sono un donna, sono una madre sono cristiana!”, come se il problema più scottante per gli italiani fossero la lobby LGBT, i matrimoni gay o l’utero in affitto.

Questioni delicate, per carità, e forse nelle intenzioni di qualcuno la strada per scardinare la famiglia o l’identità nazionale ma questioni tutto sommato accademiche, che non toccano la lista della spesa, il lavoro che non c’è o si è perduto, un sistema formativo fallimentare che pregiudica il futuro del Paese, il ruolo internazionale dell’Italia, la dissennata politica dell’accoglienza. Su tutto questo Giorgia non si scompone: lei difende il suo ruolo di madre – che nessuno contesta -, rivendica la sua fede cristiana – e buon pro le faccia – il suo essere italiana – e le fa onore ma è un’ovvietà – ma la politica è altrove e il suo partito dopo l’eclisse di mister Turriani, che, giusta o sbagliata che fosse, una linea ce l’aveva, vive solo di ricordi inconfessati o incoffessabili, si tiene stretta un’eredità che a ben vedere non le appartiene perché appartiene alla storia, alla nostra storia,  e conta su un elettorato sfiduciato che ha idealizzato il regime e aspetta il ritorno dell’“uomo forte” (sarà mica Draghi?). In realtà, se è vero che tutti i bacini elettorali, da quello piddino a quello pentastellato o leghista sono puntualmente traditi dai rispettivi partiti, quello su cui può contare Fd’I lo è anche di più, non solo tradito ma dileggiato e umiliato: è un curioso modo di essere nazionalisti quello di precipitarsi, come ha fatto Giorgia bruciando tutti sul tempo, a rendere omaggio al padrone americano appena iniziata la crisi russo-ucraina. Ed è anche  contraddittorio per un partito che nell’immaginario collettivo ha preso il testimone della Rsi schierarsi con quel Draghi convinto che la nostra libertà e la nostra democrazia non siano il frutto di una maturazione nostrana ma il lascito dei vincitori. Meglio allora la pietosa bugia della repubblica “nata dalla resistenza”, una bugia che quantomeno ci rende padroni di noi stessi mentre la verità di Draghi, e del moderatume forzista, fa dell’Italia una dépendance dell’Impero (e infatti il governo gialloverde, con tutto il male che si può dire di Lega e Cinquestelle, è stato liquidato perché incompatibile con quella dépendance). E se la Meloni è politicamente una nullità, chi gli sta intorno fa impallidire per arroganza e ottusità Orlando o la Malpezzi e le new entry Santanchè e Mussolini non hanno certo alzato il livello.  Insomma se la difesa dell’italianità, l’eredità del risorgimento, la tradizione classica dovessero essere affidate alla destra finiremmo nel più cupo anonimato storico e culturale.

Macron, Draghi

Quel po’ di destra popolare e di seppur rozza e ingenua idealità patriottica non abitano da quelle parti ma fra i giovani che militano nei movimenti radicali purtroppo esposti, a destra come a sinistra, a calamitare facinorosi e psicopatici. Oltralpe da sponde opposte tutti fanno perno sulla patria e sull’interesse nazionale; a noi italiani, forse per colpa nostra, sono toccati i Fratelli d’America e  il portavoce della finanza americana. Già, il nostro Macron, paracadutato anche lui dal capitale finanziario, l’alternativa alla destra meloniana, è quel Draghi che avrebbe dovuto risanare il Paese e garantire l’afflusso e la gestione del megaprestito  europeo. Il nuovo Uomo della Provvidenza in un anno di governo sconclusionato è riuscito solo a dimostrare che l’Italia è una dittatura, e per giunta una dittatura che copre un governatorato, che il parlamento non conta nulla e non rappresenta più nessuno ed ha finito per infilare il Paese in un cul de sac dal quale allo stato attuale è impossibile uscire. Senza un voto parlamentare, con la complicità del peggiore presidente che la repubblica abbia mai avuto, nella assoluta indifferenza per la volontà popolare, con un controllo sui media peggiore di quello esercitato dal regime mussoliniano, il governo ha praticamente portato il Paese in guerra contro la Russia  e ci resta solo da sperare che l’orso russo non ci dia una zampata.  Draghi,  con tutto il suo codazzo multicolore, considera con incredibile flemma la possibilità che l’occidente, la Nato, l’amministrazione Biden, scatenino una guerra nucleare col pretesto di salvare l’integrità territoriale dell’Ucraina. Morire per il Donbass; a dirlo pare un brutto sogno. Questo è il nostro Macron; mentre l’altro, quello vero, sarà probabilmente lui a mettere un bastone fra le ruote del duo Biden-Johnson per impedire che ci portino nel precipizio; il nostro se ne sta allegramente sul carro col pensiero fisso al suo futuro ben remunerato impiego.

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