Forza, debolezza…. del governo gialloverde
Forza, debolezza, rischi e prospettive
del governo gialloverde
|
Forza, debolezza, rischi e prospettive del governo gialloverde
|
La forza dei diarchi Il quotidiano, martellante tentativo di scardinare l’alleanza gialloverde, che vede in prima linea il Fatto e il Giornale, deve fare i conti con la solidità del patto fra Salvini e Di Maio. La natura di questo patto sfugge a commentatori imprigionati negli schemi e nelle categorie della bassa politica e dell’etica mercantile. La sua solidità va oltre il contratto e l’alleanza fra le due forze politiche che l’hanno sottoscritto perché poggia sulla volontà dei due leader, che ormai, come accade per i leader autentici, sono svincolati dalla parte che li ha espressi e agiscono guidati dalla loro personale umanità, dalla loro personale intelligenza e dalla loro personale moralità. Che è poi quella che rende così forti e durevoli i legami basati sulla lealtà e sull’amicizia se si è portatori di questi valori, cosa che raramente capita ai politici, che risolvono nel ruolo la persona. Salvini è passato indenne attraverso le beghe di partito, si è alimentato di quel che di buono era nella Lega, ha saputo rinnovarla e depurarla, non si è fatto intimorire da chi minacciava di appenderlo a testa in giù e ora i reazionari europei e di casa nostra, il Vaticano, le banche, la sinistra e gli eurocrati, hanno imparato ad aver paura del suo faccione bonario. Di Maio è stato, almeno per me, una piacevole sorpresa. Avevo temuto che dietro il completo da impiegato di concetto non ci fosse altro che una miscela di luoghi comuni e ho dovuto ricredermi. Il ragazzo, a differenza del suo storico partner globe trotter, ha stoffa e carattere e cresce al crescere delle difficoltà che si trova davanti. Del resto in questi mesi il consenso per il governo è cambiato, non solo quantitativamente, come rivelano i sondaggi, ma soprattutto per intensità e profondità e il baricentro si è spostato dagli originari supporter, il cui tifo rimane acritico e urlato come nelle partite di calcio, alla parte più fredda e pensante della pubblica opinione, quella che si distribuisce fra i diversi schieramenti politici ed è più tentata dall’astensione. Si è visto a Genova ma si avverte in tutto il Paese. Ed è un consenso sempre meno rivolto ai due partiti o movimenti che siano, e sempre più alle persone, ai diarchi, ai quali si aggiunge un Conte che è bene si limiti, come finora ha ben fatto, a svolgere un ruolo di intelligente e consapevole rappresentanza. La debolezza degli apparati Poi però ci sono i due partiti e i loro apparati ed è da questi, più che dalle bordate dei portavoce dei poteri che si credono più forti di quanto non siano, che possono venire pericoli seri per il governo. In parte dell’elettorato della Lega, dei suoi militanti e perfino nei vertici del partito, permangono residui di regionalismo, una mentalità bottegaia e una nostalgia del centrodestra che alimenta il sospetto che qualcuno faccia il doppio gioco, con in più il rischio di inquinamento per la diaspora berlusconiana. Ma il pericolo più grave viene dai Cinquestelle. Nel movimento si distinguono tre componenti: la dirigenza, la base, gli elettori. Nella dirigenza, neutralizzato Fico e autoesclusosi Di Battista, gli sbandamenti sono controllabili; gli elettori sono in buona parte sovrapponibili a quelli della Lega ed è sciocco cercare di ripartirli fra la destra e la sinistra tradizionali, ma è la base, dalla quale escono i dirigenti periferici, che desta preoccupazione. Troppa gente col paraocchi, un misto di testimoni di Geova incattiviti dall’invidia sociale e di giacobini assetati di vendetta, rigidi, guidati da pregiudizi scambiati per ideali, spaventati dalle competenze e dalle teste pensanti. Pessimi amministratori a Roma come a Torino e Livorno, dove si aspetta con ansia l’occasione per sbarazzarsene. Per concludere: la solidità del governo poggia essenzialmente sul rapporto personale fra Salvini e Di Maio e soltanto la solidità di questo rapporto personale può neutralizzare gli attacchi esterni e la debolezza interna. La manipolazione dei fatti Intanto la stampa di regime, quella vicina alla vecchia maggioranza e alla sua finta opposizione, si impegna per generare confusione, distogliere l’attenzione, nascondere i fatti. Dopo il crollo del viadotto di Genova i due leader, all’unisono, hanno dichiarato l’intenzione, per altro ovvia, di revocare la concessione a Autostrade per l’Italia, interrompendo così il flusso di denaro verso Atlantia e la famiglia Benetton. Su questa materia e sulla posizione del governo si è alzato un incredibile polverone con l’intento di frastornare l’opinione pubblica mescolando situazioni diverse, strade, ferrovie, frequenze televisive, trasporti e assimilando la revoca di concessioni ad una nazionalizzazione, statalizzazione, esproprio. Sallusti, per esempio, dà ad intendere che le autostrade siano proprietà di privati, come se le avessero costruite loro, privati che lo Stato minaccia di derubare; il lettore ignaro si convince così che il pedaggio ripaga il costruttore. Non dice che governi e partiti collusi hanno graziosamente donato ad un privato la gallina dalle uova d’oro con la clausola che le uova sono comunque del privato e se la gallina muore o si ammala lo Stato provvede a rimpiazzarla. È un mistero dove sia il vantaggio dello Stato, cioè della comunità nazionale, nel concedere per un tempo infinito ad una società privata il diritto di riscuotere pedaggi in cambio di manutenzione quando è la stessa società che stabilisce quanto spendere in manutenzione senza compromettere i propri profitti. Se un ponte crolla e non è stata una bomba a buttarlo giù è evidente che chi doveva monitorare non l’ha fatto, chi sapeva del pericolo l’ha nascosto, chi doveva prendere la decisione di abbattere ha preferito mettere delle toppe. Insomma l’alternativa è fra incompetenza e malafede; eppure si mette in dubbio la revoca della concessione, di una concessione che, oltretutto, non avrebbe mai dovuto esserci stata. È un po’ come per l’invasione, o immigrazione illegale che sia. Quello che è ovvio diventa problematico, come se sull’evidenza avessero diritto di confrontarsi opinioni discordanti. Ma c’è sempre un motivo. C’è nel caso dell’invasione (si pensi all’assurdità, apparente, del comportamento della Guardia costiera o alle contraddizioni sfrontate dell’Unione europea, che incoraggia l’invasione ma pretende di confinarla in Italia in cambio di un’elemosina). E c’è anche nel caso del viadotto perché, al pari di tutti i casi di malcostume nel nostro Paese, l’affaireopaco delle concessioni non è un episodio isolato ma è perfettamente coerente col sistema inquinato che si è compattato dal dopoguerra ad oggi. I media italiani sono le voci di quel sistema e lo sono in modo più sfacciato e diretto proprio i telegiornali che raggiungono il maggior numero di persone. Voci che coprono la notizia tragica del crollo di un viadotto insistendo sul tonfo in borsa di Atlantia, come se ci si dovesse preoccupare del danno sofferto dagli azionisti quando, vittime a parte, centinaia di persone si sono trovate da un momento all’altro fuori dalle loro case senza nemmeno la possibilità di recuperare i propri effetti personali; le stesse voci strappalacrime per i disperati sequestrati a bordo della nave Diciotti che cercano di far dimenticare che quei disperati si aggiungono ai settecentomila che hanno invaso l’Italia in questi anni sciagurati di regime cattocomunista. Certo, che si sia arrivati al punto che un magistrato sollecita la consumazione di un reato, qual è l’ingresso illegale nel Paese, e incrimina il ministro che si preoccupa di impedirlo, è la migliore dimostrazione del lavorio svolto dal tarlo comunista sull’edificio dello Stato. La tela di ragno stesa dalla sinistra sul Paese Del resto quando il rappresentante di un’istituzione eretta a ente morale – l’ISPI, creatura fascista – offende platealmente il ministro degli interni o un illustre cattedratico pagato per insegnare ai nostri figli chiama “pezzi di m.” tutti quelli che non si indignano perché non si dà via libera a gente che pretende di entrare illegalmente nel Paese, si capisce che se il governo non ha nulla da temere dall’opposizione parlamentare secondo le regole della democrazia rischia però di essere soffocato dalla tela di ragno stesa sulla società civile. Ognuno di noi, quale che sia il mezzo di cui dispone, la carta stampata, le onde hertziane, internet, la parola, deve poter dire quello che gli passa per la testa purché si mantenga nei limiti dalla legge, con l’ovvia precisazione che le opinioni private sono come tali legittime. Quindi liberi tutti di dire all’interno della propria cerchia tutto e il suo contrario, e libero ognuno di noi di nutrire i convincimenti più stravaganti. Quando però il mezzo è pubblico ci si assume la responsabilità di quello che si dice o si scrive. E, a questo proposito, per quanto mi senta convintamente liberale, trovo ripugnante il trionfo della pornolalia, gli insulti e le calunnie nei confronti degli avversari o il dileggio dei costumi o delle credenze altrui; è un segno dei tempi e non resta che prenderne atto. Ma quando la voce che parla attraverso un mezzo pubblico è la voce dello Stato, dello Stato, non del regime, allora si debbono esigere rispetto verso chi ascolta, imparzialità, sobrietà, serietà e competenza, doti che sarebbe azzardato attribuire ai giovanotti e alle fanciulle approdati chissà come sul piccolo schermo. Ma in questo momento storico accade qualcosa di sorprendente. Non solo le garrule voci che vengono dai telegiornali, privati e pubblici, Ski, Mediaset e Rai, cantano all’unisono ma le emittenti di Stato, di norma servili col governo di turno, ora sono scatenate contro la maggioranza gialloverde e, in particolare, contro i due viceministri. È questa la prova migliore che in Italia non c’è mai stata un’opposizione autentica e che nel corso degli anni il regime si è consolidato fino al punto di trasformarsi in una autocrazia. Non si era mai vista una spaccatura tanto drammatica fra la gente comune e quanti occupano tutti i gangli della società e delle istituzioni, industriali, accademici, magistrati, dirigenti, attori, cantanti, ballerine, pornostar e la pressoché totalità dei giornalisti, tutti come i vertici del Pd privi di un minimo sentimento patrio, tutti addosso al governo, che in momenti delicati come questi dovrebbe essere avvertito come il governo di tutti. Nessuno, in questa accozzaglia, che avverta il rischio tremendo che l’Italia sta correndo con l’invasione, nessuno che si chieda la ragione per cui, quale che sia il loro colore, tutti i governi europei – dico tutti, dal Belgio alla Francia all’Ungheria – non tollerano più l’ingresso di un solo clandestino nei loro Paesi. Strappare la tela di ragno, smascherare i nemici della Patria Questa spaccatura mette tutti noi, il nostro Paese e il nostro legittimo governo, di fronte ad una alternativa, comunque preoccupante. O ci rassegniamo a vivere in un simulacro di democrazia, nella quale se il governo e la maggioranza espressi dal voto popolare non si omologano al regime metapolitico vengono sottoposti ad un attacco continuo interno e internazionale e di fatto paralizzati o il governo e la maggioranza espressi dal voto popolare, forti del consenso e della partecipazione popolari, attaccano frontalmente il regime e lo distruggono. Lo possono fare perché hanno con sé la piazza, quella vera, non qualche centinaio di spaccavetrine, lo possono fare perché nonostante qualche dubbio sulla marina, i corpi armati dello Stato sono un baluardo per le istituzioni democratiche, lo possono fare perché lo strapotere della magistratura non discende dal Verbo ma dalle leggi e le leggi le fa, e le disfa, il parlamento. Sono questi i due corni del dilemma italiano. Non so se a Salvini e Di Maio basterà l’appoggio della grande maggioranza degli italiani per reggere all’urto di corpi dello Stato complici delle opposizioni. L’affare Diciotti è una cartina di tornasole: chi comanda veramente in Italia? Nel conflitto fra leggi di diverso rango, fra impegni con l’Europa veri o presunti, convenzioni internazionali, principi giuridici e metagiuridici, si muovono con disinvoltura magistrati, amministratori pubblici, sindacati, autorità civili, preti e esponenti del terzo settore, tutti impegnati a scardinare il potere legittimo della politica. La difesa dei confini è diventato l’ultimo dei problemi per la nostra marina militare; il comandante di una nave militare sembra agire in piena autonomia: è come se la catena di comando si fosse spezzata; silenzio di tomba dal ministero della difesa, silenzio di tomba dallo stato maggiore della marina: le decisioni le prende il comandante, che si sente autorizzato a interpretare a modo suo ora le “leggi del mare”, che tali non sono, ora l’operazione Sophia, dilatandone la portata fino a farne smarrire del tutto lo spirito e lo scopo originari: doveva essere caccia ai traghettatori e ci si è trasformati in traghettatori. Del resto questa frammentazione del potere vale per qualunque capo di ognuna delle centoquaranta procure della Repubblica, che può decidere che si può sbarcare sul territorio nazionale senza passaporto, senza visto d’ingresso, senza documenti e non solo non è omissione di atto di ufficio da parte delle forze dell’ordine se non lo impediscono ma è sequestro di persona se si azzardano a farlo. Ora, se è vero che un giudice può incriminare un ministro – è un rischio che corre anche Trump – è anche vero che se un giudice attenta alla sicurezza dello Stato anche nella repubblica delle banane finisce in galera e si butta via la chiave. Noterella finale Sulla migrazione non si scherza: mentre dal Vaticano escono immagini sospette di torture inflitte in Libia il quotidiano di confindustria sente il bisogno di sentenziare che non c’è alcuna emergenza migranti. Evidentemente alla chiamata alle armi nessuno si può sottrarre. Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione |