Fine del berlusconismo?

   DOPO LA CADUTA
Fine del berlusconismo?

   DOPO LA CADUTA
Fine del berlusconismo?

Ei fu. Ma sarà proprio vero? Non sarà che una volta di più si rivelino premature così le esequie come le libagioni? Non sarà più prudente aspettare che la polvere si posi e l’aria si illimpidisca prima di mettere il lutto o di tirar fuori dall’ armadio l’abito della festa? Siamo sicuri che sia già arrivato il Venticinque aprile e di non esser più nel dopo Venticique luglio?

Siamo sicuri che i veleni e i miasmi che hanno ammorbato il clima etico-politico (e non solo: si considerino, ad esempio, i casi Parmalat, Unipol, Coop emilane, Ospedale S. Raffaele, Banca Popolare di Milano, Unicredit e Finmeccanica, tanto per citare i primi che vengono in mente) da Tangentopoli ai giorni nostri, vengano come per incanto  dispersi dal venticello tecnocratico-finanziario che spira dal nuovo Governo Monti-Napolitano- Bce-Vaticano? Non sarà, voglio ben credere, per un mero atto di cortesia istituzionale  che il nuovo Presidente del Consiglio ha voluto ringraziare  il suo predecessore e rivolgergli un “cordiale saluto con rispetto e attenzione per l’opera da lui compiuta”.

Ora io capisco i ringraziamenti di rito, e anche l’atteggiamento della mano tesa verso una persona che detiene comunque il potere di appoggiare o affossare il Governo appena costituito grazie alle sue dimissioni forzate, quindi è comprensibile il tentativo di captatio benevolentiae messo in atto dal nuovo premier nei confronti del vecchio e dimissionario “senza essere stato sfiduciato formalmente dal Parlamento” (anche se sfiduciato di fatto dalla società civile, da tutte le organizzazioni sindacali, da Confindustria e, in ultimo, persino dalle prudentissime gerarchie ecclesiatiche); capisco l’importanza di scegliere le parole e i toni  giusti, cioè adatti a propiziare, appunto, un clima di ritrovata concordia nazionale dopo le passate lacerazioni  e reciproche accuse di “demonizzazione dell’avversario politico”, ma perché spingersi fino a profferire la  parola “rispetto” per chi in tutti questi anni ha dimostrato di non rispettare né le istituzioni, né le leggi, né gli avversari, né la comune decenza?

Non bastavano  il semplice ringraziamento e “l’attenzione per l’opera da lui compiuta”? Che cosa significa, infatti, la parola “rispetto”? Significa, secondo lo Zingarelli, “Sentimento di deferenza, stima e considerazione verso persone, principi e istituzioni.” E anche “Sentimento o atteggiamento di riguardo verso la dignità o il valore altrui, che ci trattiene dall’offendere, dal recar danno e simili.” Può darsi che il primo ministro Mario Monti, con quella dichiarazione di rispetto intendesse  anche esprimere la sua netta disapprovazione per la gazzarra di sabato sera contro il Cav. (sconfitto ma non domo), ormai dimissionato, e contro qualche suo malcapitato accolito; ma un conto è il giudizio su chi maramaldeggia, un altro quello sulla “dignità e il valore” di chi, con i suoi comportamenti pubblici e privati , oltre a screditare se stesso ha gettato discredito sul nostro Paese agli occhi del mondo.

E, per non maramaldeggiare a mia volta sul perdente, ometto di ricordare il significato dell’espressione “uomo di rispetto”, che meglio gli si addice.

A questo punto è tuttavia inevitabile porsi la domanda: “Fu vera gloria?”. Inevitabile? Non sarà troppo presto per poter formulare un giudizio storico equanime ed equilibrato? Intanto, il fatto che sia caduto il Governo Berlusconi non sigifica che sia archiviato anche il fenomeno, o meglio, l’insieme di fenomeni ormai comunemente rubricato sotto il nome di “berlusconismo”; a proposito del quale sarà pur lecito indagare anche solo da un punto di vista sociologico e di costume.

Prima questione: come ha potuto un simile personaggio dominare per quasi un ventennio la scena politica, mediatica e giudiziaria italiana? Seconda questione: in quale misura la mentalità e i costumi dell’italiano medio erano berlusconiani prima di Berlusconi, e in quale misura Berlusconi non ha fatto che interpretarne gli umori, volgendoli a suo beneficio personale e politico? Mi rendo conto che già l’espressione “simile personaggio” è tutt’altro che neutrale, e che non promette bene sotto il profilo dell’oggettività e dell’imparzialità “fenomenologica”, o “descrittiva” della mia interpretazione; ma non ho trovato altre espressioni più adeguate all’argomento; pazienza! Così almeno il lettore sa, nel caso non se ne fosse ancora accorto, da che parte pende il sottoscritto. Dunque: come è stato possibile?

La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi è avvenuta in un momento di disorientamento  e di sfiducia profonda nei confronti di una  classe politica in agonia e falcidiata dalle inchieste della Procura di Milano: la Prima Repubblica, tra crisi di governo, crisi petrolifera,  megacongressi di partito e finanziamenti illeciti, stava affondando sotto i colpi del potere giudiziario e dell’incubo default; inoltre, come se tutto questo non bastasse, si profilava una vittoria certa alle elezioni del 1994, con sistema maggioritario, del Pds di Occhetto, unico grande partito uscito pressoché indenne dalla bufera e dalla gogna mediatica mandata in onda quasi in diretta dal Palazzo di Giustizia di Milano. In questa situazione, il videomessaggio dell’imprenditore di successo che prometteva “un nuovo miracolo italiano” e che avrebbe impedito la presa del potere da parte dei “comunisti” entusismò il popolo delle partite IVA, illuse tanti delusi dai vecchi partiti, rincuorò  i moderati senza più casa politica, affascinò i teleutenti-dipendenti già “educati” dalla tivù commerciale di sua proprietà, convinse anche alcuni intellettuali che credettero nella promessa di una “rivoluzione liberale di massa”; insomma, sparigliò i giochi e gli schieramenti, e, alleandosi strategicamente con Bossi al Nord e con Fini nel Centro-Sud,  vinse a sorpresa le elezioni. Il seguito è noto: tre volte nella polvere, tre volte sull’altar.

In questo quasi ventennio ho cercato più volte di capire, mettendomi anche nei panni di quegli italiani che, in buona fede, gli hanno creduto, e si sono lasciati conquistare anche perché gli sentivano dire cose che anch’essi pensavano e con un linguaggio piano ed efficace – ben diverso dal politichese anora in uso nei Palazzi del potere – che andava dritto ai loro desideri e alle loro speranze di vita facilitata e semplificata. Si aggiunga il preoccupante stato confusionale in cui versavano i partiti (e i partitini) della Sinistra, la crisi e la caduta del primo governo Prodi ad opera di Fausto Bertinotti, la fallimentare strategia del connubio Cossiga-D’Alema, la crisi e la caduta del secondo governo Prodi, travolto dai rifiuti napoletani, dall’inefficienza politico-amministrativa dei dirigenti campani, dalla instabilità della sua risicata ed eterogenea maggioranza – appesa, per sopravvivere al Senato, ai voti dei senatori a vita – , dal suo disastroso stile comunicativo, quanto mai deleterio nell’epoca dei mass media in cui un leader che non “buca lo schermo”, o parla in modo incomprensibile, è destinato a perdere – e, infine, come è noto, dal voto di sfiducia dell’allora ministro alla giustizia Clemente Mastella; e si può così comprendere come il Cav, sia potuto risorgere per la terza volta dalle sue ceneri (che, per la verità, non erano affatto spente). Ma è chiaro che non bastano gli errori e l’autolesionismo di una sinistra confusa e divisa a spiegare la fortuna quasi ventennale  di un leader così “anomalo” come Berlusconi; ci deve essere qualcos’altro. Che cosa?

Il berlusconismo è stato anche definito “populismo mediatico”, o “videocrazia”, ma come ha potuto imporsi e durare così a lungo (ammesso che sia uscito di scena con la costituzione del Governo tecnocratico del professor Mario Monti) nel nostro Paese? Secondo il sociologo Giuseppe De Rita, il berlusconismo non si esaurisce nel populismo, l’altra sua caratteristica è il “soggettivismo etico”. Intervistato da Mattia Feltri su La Stampa del 16/11, circa il mutamento di scenario anche sociale a cui stiamo assistendo, De Rita conferma che lo scenario è mutato, ma aggiunge: “non sono sicuro che la coscienza collettiva lo stia cogliendo. Le contrapposizioni, la rabbia, il rancore e i giudizi morali… sono ancora predominanti e non fanno capire che il ciclo del berlusconismo è chiuso.” Ma il giornalista insiste: “Lo dà per chuso?” –  “Come soggettivismo etico – risponde il professore – è chiuso; come tendenza a cavalcare la cultura popolare forse non ancora, anche se l’ultimo videomessaggio era così ripetitivo che si aveva l’impressione di un leader incapace di trovare un linguaggio nuovo adeguato ai tempi nuovi.” Come dire: non si è accorto che la sua videocrazia non funziona più in un regime ormai palesemente tecnocratico.

Domanda successiva: “Che cosa intende per ciclo del soggettivismo etico?” – “Intendo la libertà intesa come libertà di essere se stessi. Non è una tendenza recente…” E qui De Rita – a mio modo di vedere – del tutto fuori luogo, cita don Milani, l’obiezione di coscienza, il primato del soggetto e della coscienza; e poi, con qualche ragione,  Marco Pannella e i referendum sul divorzio e sulla libertà di aborto. Soggettivismo etico che è indubbiamente servito a Berlusconi e ai suoi avvocati ad assolvere i suoi comportamenti privati in quanto, appunto, attinenti solo alla sua insindacabile (in)coscienza morale. Ma De Rita trascura una terza e vistosa caratteristica del berlusconismo: il sistema cortigiano così ben analizzato da Maurizio Viroli (cfr. La libertà dei servi, Laterza, 2010). Ma qui il discorso dovrebbe estendersi a tutta la storia dello spirito pubblico in Italia, e non mi resta che rinviare il paziente lettore ad autori come Machiavelli, Guicciardini, Castiglione, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Cuoco, Mazzini, De Sanctis, Croce, Gramsci, Moravia, Calvino, Pasolini…

 Fulvio Sguerso

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