Filosofia
APPUNTI DI PRATICA FILOSOFICA (V) |
APPUNTI DI PRATICA FILOSOFICA (V) |
“Socrate diceva che nessuno è cattivo volontariamente, che si è cattivi per ignoranza del bene , che, d’altra parte, il bene non è il piacere né la potenza, che non si può essere padroni di nessuna cosa, se non si è prima padroni di se stessi. Diceva che il bene consiste nel conservare la propria anima pura da ogni macchia, da ogni attacco della passione. Il male è sempre una debolezza e la virtù sempre una forza, anche quando apparentemente è il contrario (tiranno e uomini torturati dai tiranni). Un tiranno incosciente è più debole di colui che, in piena coscienza, accetta di farsi uccidere dai tiranni.” (Simone Weil, Lezioni di filosofia, Adelphi). Se accettiamo come vera l’idea socratica che il male deriva dall’incoscienza, il primo dovere per un essere pensante è conoscere se stesso: “conosci te stesso” è l’imperativo iscritto sul tempio di Apollo a Delfi che Socrate fa suo, in quanto condizione preliminare di ogni conoscenza autentica. |
Ma come possiamo conoscere veramente noi stessi? Sappiamo infatti, anche se non avessimo letto Freud, come è facile ingannarsi sul proprio conto: pur con le migliori intenzioni, potremmo crederci più intelligenti e virtuosi (o più viziosi) di quanto effettivamente siamo. E’ per questo che non è pensabile arrivare alla conoscenza vera senza quel metodo dialogico-dialettico, chiamato, appunto, “socratico”; e senza conoscenza vera, così per Socrate come per il suo allievo Platone, non può esserci nemmeno virtù: “La salvezza morale e la salvezza intellettuale sono una sola e unica cosa: occorre distaccare la propria anima da ciò che è passeggero per rivolgerla verso ciò che è, ossia liberarla dalle passioni. Se non ci si è esercitati a pensare senza passione per mezzo del ragionamento puro, non ci si può riuscire.” (Idem). Questa è la pratica dell’ascesi, come è descritta e raccomandata ad esempio nel Fedone; ascesi che prepara l’anima alla liberazione dal corpo, considerato suo carcere e sepoltura, e che quindi ci libera dalla paura della morte, che non riguarda l’anima ma solo il corpo, il quale, finché vive, ci impedisce di conoscere in tutta la sua bellezza e splendore il vero essere, intelligibile solo dall’intelletto. Ora, dato che il vero essere è all’origine così del pensiero come della virtù, e non è percepibile dai nostri sensi ma intelligibile solo dall’intelletto, è evidente che nella concezione socratico-platonica la virtù dipende dall’intelligenza. Qui tuttavia ci troviamo di fronte a un’aporia di non facile soluzione: se non possiamo essere virtuosi senza essere intelligenti, allora non possiamo essere intelligenti senza essere anche virtuosi, ma se non si dà intelligenza senza virtù, allora l’intelligenza dipende a sua volta dalla virtù, la quale non può esserci senza l’intelligenza, e così via ad infinitum. Se dal piano puramente teorico passiamo a quello della prassi, cioè al terreno del nostro agire quotidiano, vediamo che è possibile conoscere il bene in teoria e fare il male in pratica, a danno altrui e nostro, come ben sapeva Ovidio quando scrisse video meliora proboque deteriora sequor, verso ripreso dal Petrarca e poi dal Foscolo nel suo autoritratto: “Conosco il meglio e al peggior m’appiglio”; e qui cade opportuno il richiamo alla Lettera ai Romani, là dove Paolo scrive: “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona: quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che è in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene , ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio ma il male che non voglio.” (Rm 7, 14-19). Dal momento che è impossibile desiderare qualcosa senza conoscerla, Paolo ci testimonia che, pur conoscendo il bene, a causa della debolezza della carne, compie il male; dunque non basta l’intelligenza per essere virtuosi, insieme all’intelligenza ci vuole la volontà; ma, dice ancora Paolo, neanche la buona volontà, di per sé, è sufficiente: per compiere il bene ci vuole qualcosa in più. Che cosa? In teologia questo di più ha un nome: si chiama “grazia”; sennonché la grazia può venire solo da Dio, e gli uomini (e le donne) possono solo invocarla e riceverla, ovviamente se sono cristiani. E gli altri? Gli altri, quanto alla virtù, possono scegliere se fondarla sulla ragione o sul sentimento, e siccome tanto la ragione quanto il sentimento non sussisterebbero senza la coscienza, eccoci costretti a tornare al punto da cui siamo partiti, al “conosci te stesso” del tempio di Apollo delfico. Ora, chiunque rifletta onestamente su se stesso, non potrà non accorgersi della pluralità di parti o istanze che compongono la mappa della sua psiche (o anima). In uno dei miti di cui Platone si serve per spiegare la struttura tripartita dell’anima si ricorre all’allegoria del sacco contenente un piccolo uomo, un grande leone e un’idra dalle mille teste. L’allegoria è chiara: all’uomo corrisponde l’intelletto, al leone la collera e il coraggio (quindi anche la volontà), all’idra dalle mille teste – alcune delle quali feroci, altre miti – gli impulsi e i desideri che turbano l’armonia dell’insieme e premono per essere soddisfatti a qualunque costo. L’intelletto ha il compito di mantenere in equilibrio le altre parti, servendosi, quando è il caso, del leone per tenere in rispetto l’idra insaziabile dei desideri. La giustizia consiste, come viene argomentato nella Repubblica, nell’armonia e nella collaborazione così delle parti dell’anima tra di loro come delle parti che compongono la società della polis ideale. La quale è governata non dal suo cuore (il coraggio e la forza dei guerrieri-custodi) e tanto meno dal suo basso ventre (la massa incolta e suggestionabile, intenta ai suoi affari o affarucci), ma dalla sua testa (i filosofi che conoscono il vero essere e si dedicano esclusivamente al bene comune). Non per niente è una città ideale. Fulvio Sguerso |