Figli…figliastri e figli di…
La rubrica firmata da Alberto Bonvicini, già comandante della Polizia Postale di Savona, ci accompagnerà con riflessioni dedicate all’impatto dei social network, di internet e delle nuove tecnologie sulla nostra società.
Con lo sguardo esperto di chi ha vissuto in prima linea l’evoluzione (e le derive) del mondo digitale, Bonvicini ci offrirà analisi lucide e senza filtri su temi che toccano da vicino il nostro quotidiano: dalle devianze giovanili alla cultura dell’emulazione, dal web come strumento educativo o distruttivo fino al lento smarrirsi del senso critico.
Uno spazio di pensiero libero, per leggere con occhi diversi quello che ci succede intorno
Figli…figliastri e figli di…
L’ipocrisia è un mostro a tante teste e a tanti colori. Spesso si mimetizza bene, mascherandosi da buono, gentile, premuroso, affettuoso, altruista, coraggioso o protettivo.
La trasformazione più frequente, però, è quella del parlare bene e poi, in pratica, agire secondo l’esatto contrario.
Tutti i giorni, in tutti i campi e anche nella vita quotidiana, ne possiamo notare numerosissimi aspetti.

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Alcuni giorni fa c’è stata una rappresentazione “fregoliana” che aveva come argomento il non coinvolgimento dei minori nelle storie o notizie che riguardano i grandi. Non per forza genitori, nonni, zii o parenti, ma nel caso in questione sì, si trattava proprio di quello.
Da lì è nato un fitto scambio di vedute, con allusioni e citazioni di animali più o meno nobili. C’è stato chi ha espresso giudizi o sentenze su cosa si deve o non si deve dire, vedere, trovare o nascondere, tirando in ballo lettere e testamenti.
Qualcuno ha scritto: “Non si deve permettere.”
Qualcun altro, a de curtisiana memoria, ha aggiunto: “Si vergogni.”
Un altro ancora ha pontificato, giudicato o ribaltato l’argomento. E poi c’è stato chi ha detto: “Non ce la faccio a stare zitto” e così via.
Passato il tornado sul caso, è arrivata la quiete dopo la tempesta.
E qui, per non scivolare nel sentimento pessimo citato all’inizio, occorre sottolineare due cose.
La prima: deve essere un dogma, non solo a parole o come regola da usare quando conviene, che tutte – e ripeto tutte – le persone normali (non dico buone, sante o cattoliche praticanti, dico tutte indistintamente) dovrebbero provare un sentimento naturale: essere felici se a qualcuno non capita nulla di male.
Che sia un conoscente o uno sconosciuto, pubblico o anonimo, nessuno dovrebbe augurarsi una caduta, un guaio o un incidente. Figurarsi se si tratta di un bambino.
O la si pensa così, oppure è inutile cercare giustificazioni: chi ragiona diversamente è dotato di un sentimento opposto.
La seconda: riguarda il super citato, acclamato, sponsorizzato e continuamente nominato “diritto di cronaca”.
Questo diritto comprende, o dovrebbe comprendere, la diffusione di una notizia arrivata in redazione per segnalazione o per altre vie. Ma il dogma, in questo caso, è di cartone.
Sappiamo tutti che spesso le notizie vengono usate come arma. Chi con il proprio lavoro non è in linea con la “mamma santissima” della corrente politica dominante in quel momento – e magari in quel posto da secoli – diventa un fastidio, un pericolo o semplicemente antipatico.
E allora scatta la punizione mediatica a tempo indeterminato, fino a quando non gli succede qualcosa o comunque viene rovinato per sempre.
E qui sta il punto.
Se una persona viene ritenuta degna di diventare oggetto di pubblico ludibrio, non si ha alcun riguardo per lui, per il suo nome, per la sua famiglia.
E se ha dei figli che passano ogni giorno davanti all’edicola, chissenefrega: saranno costretti a leggere articoli che accusano il padre o la madre di questo o quello, spesso di reati infamanti.
Chissenefrega, ripeto, se qualche anno dopo non comparirà neanche una riga ad annunciare l’assoluzione piena.
Le venti, trenta o più locandine che per mesi lo hanno bollato come ladro, assassino, violentatore, resteranno. Quelle sentenze mediatiche, spesso accompagnate da foto e nomi sbattuti ovunque, non solo erano ingiuste o false, ma non sarebbero neppure dovute uscire.
In quel caso va bene? È giusto? È corretto? È deontologicamente accettabile?
E i minori, in questo scenario, come la mettiamo?
Ah già, lì si può: si tratta di figli di un dio minore.
Meglio allora rileggersi il titolo. Ognuno tragga le proprie conclusioni: saranno cento volte più corrette e sincere di quelle di chi esprime opinioni a comodo, per lecchinaggio estremo, trasformando tutto in un falso buonismo ipocrita e parziale.
Alberto Bonvicini