Ferrania – Fiat

Ferrania
un caso Fiat in sedicesimo

Ferrania
un caso Fiat in sedicesimo
  

Sto seguendo il caso Fiat ovviamente dall’esterno, non essendo parte interessata, e in modo certamente non approfondito. 

Mi colpiscono però le molte analogie con un altro caso che conosco, o meglio, che ho conosciuto da vicino fino a un certo punto, e cioè il caso Ferrania.

Mi colpiscono, sicuramente, mi rimescolano amarezze, ma certo non mi meravigliano, per un sacco di buoni motivi di conseguenza, ripetizione, prevedibilità e scenari.

 Tanto per cominciare, è normale che l’involuzione in negativo della fabbrica valbormidese, erede di multinazionale di punta, abbia anticipato di molto altre evoluzioni e altre crisi più nostrane, così come allora la situazione e la gestione 3M erano estremamente avanzate rispetto al panorama della grande industria italiana, di cui la Fiat, appunto, era faro e portabandiera.

 Per esempio, i sistemi di gestione qualità, come i corsi aziendali su comunicazione e presentazione, sul lavoro di gruppo e i team leader, sui vari tipi di organizzazione, e tanti altri, (ai bei tempi in cui il lavoro non era ancora una Caienna) a Ferrania così come in tutta la 3M Italia erano la quotidianità, ben prima che in Fiat si iniziasse a praticarli.

 Ora, pur nello scenario politico cupamente allineato ai diktat di Marchionne, spiccano alcune dichiarazioni un po’ più coraggiose e lungimiranti di alcuni: come avrei voluto sentire una sola vocina dell’establishment qui, ai tempi della crisi valbormidese! Eppure, vuoi per estremo provincialismo e arretratezza della classe sindacale amministrativa e manageriale locale, vuoi per scarsa determinazione dei lavoratori, vuoi per assoluta sudditanza dell’informazione, vuoi perché impreparati a scenari ancora agli albori, di una globalizzazione strisciante e non dilagante come adesso, vuoi perché Internet non era il formidabile strumento che oggi è, fatto sta che il crimine di buttar via un patrimonio industriale, umano, organizzativo, tecnologico, si consumò in un silenzio desolante, rotto solo da notizie e affermazioni ancor più desolanti. E non è ancora finita, gli ultimi brandelli si consumano tuttora.

 Chiariamo subito una cosa, però: fuor da ipocrisia, cautela e convenienza, nessuno, e dico nessuno, in tutta onestà, può trincerarsi dietro la scusa di non aver potuto prevedere, di non aver saputo, o peggio, di non aver avuto alternative.

 E’ una balla colossale: tutti, e ribadisco tutti, mettendo nel calderone chiunque avesse a che fare con questa storia, dai dipendenti e manager, ai politici e sindacalisti, agli amministratori locali e non e all’informazione, ciascuno per il suo e nel suo, poco o tanto che fosse, avrebbero potuto fare di più e di meglio, con un minimo di senso di responsabilità, collaborazione, coraggio e lungimiranza, invece di abbandonarsi al corso degli eventi cercandovi le convenienze del caso, sfoggiando per lo più meschino opportunismo.

 La situazione andava affrontata, e non rimandata o lasciata andare verso miserande soluzioni, fin dai tempi della svendita a Imation, costola rottamatrice di 3M.

 

E andava affrontata con tutto il peso e la responsabilità che le forze politiche potevano avere, per tentare un recupero che salvaguardasse tecnologia e futuro, con fondi e finanziamenti per piani industriali lungimiranti, che privilegiassero ricerca e parte innovativa.

Andava affrontata per costruire, per salvare il tessuto economico e produttivo, le possibilità di vero sviluppo.

Così non è stato. E, ripeto, nessuno ha l’alibi di non aver saputo o non aver potuto prevedere. Anzi, la consapevolezza nascosta e sottaciuta è persino un’aggravante dell’accusa di inazione.

Nerio Nesi

E vale anche per Fiat. Ai primi tempi della crisi di Ferrania, nel breve periodo in cui fui rappresentante sindacale, incontrammo vari personaggi e vari politici. Ricordo bene Fabio Mussi, che non mi fece impressione negativa, era uno dei più attenti oppositori del B., e difatti oggi è confinato in qualche extraparlamentare terra di nessuno.

Ricordo anche Nerio Nesi, uno che la sapeva lunga, con passato da ex socialista sopravvissuto alle ondate di Tangentopoli. Pronunciò qualche commento attento e preoccupato sulla disastrosa situazione de-industrializzante della Valbormida, e concluse più o meno così: “ E questo è niente. Vedrete cosa resterà del Piemonte dopo la crisi Fiat. “

Eravamo nel 1999 o giù di lì. Dodici anni fa. Qualcuno può sostenere che allora non si fosse in tempo per progetti a lunga scadenza, di sostegno alla riconversione industriale e all’innovazione?

Qualcuno può sostenere che, se già è peccato grave ciò che è accaduto a Ferrania, non sia peccato mortale lasciar degradare consapevolmente la più grande realtà industriale del Paese?

 Anche qui, vale per tutti, per lo meno per tutti quei governi di ogni colore che si sono succeduti elargendo cassa integrazione e contributi a fondo perduto alla famiglia Agnelli, invece di lottare per pretendere piani industriali che tenessero conto della crisi dell’auto, invece che subordinare gli interventi a precisi investimenti in innovazione e tecnologia e riconversione.

 C’è bisogno, dunque, di sottolineare le analogie di cui dicevo? 

Settore assolutamente maturo sulla via del tramonto: le pellicole fotosensibili da un lato, la motorizzazione di massa basata sul petrolio dall’altro. 

Le grandi compagnie non riescono a sopravvivere isolate, sono necessarie fusioni e joint venture e chiusure dei più deboli. 

Anche Fiat, così come 3M, fa giochetti finanziari ai limite del lecito, basati su new co (così si chiamava la parte debole di 3M agli albori del processo, prima del lancio di Imation), gonfia il portafoglio del management e degli azionisti impoverendo lavoratori e tessuto sociale, cede a buon prezzo le parti ricche e in salute del comparto e si prepara a sfruttare a sangue il rimanente. E il sangue è quello degli operai.

 A Ferrania, le condizioni di lavoro lentamente peggiorano, la ricerca è penalizzata, in uno stillicidio continuo. 

Alla Fiat si continuano a dare soldi, tanti soldi, sotto forma di cassa integrazione e dell’assurdo e controproducente drogaggio di mercato, gli incentivi alla rottamazione.

A Ferrania si ottengono soldi per cassa integrazione, per corsi interni spesso di dubbia utilità, si mercanteggiano forniture mediche in una forma di assistenzialismo che logicamente ha il fiato cortissimo.

Dopo Imation, subentrano dirigenti locali intesi a far cassa con la produzione fin che si può. La ricerca viene lentamente smantellata anziché riconvertita prima che fosse tardi.

Non so come stia la ricerca in Fiat, ma a giudicare dai risultati, mica tanto bene. 

Spolpata buona parte dell’osso, arrivano a Ferrania i cosiddetti imprenditori, ma della imprenditoria nostrana ormai abituata ad andare sul velluto, investire (preferibilmente soldi pubblici) in ciò che è sicuro e ad alta redditività immediata, non importa quanto sterile od obsoleto, oppure a rastrellare guadagni col minimo sforzo, smantellando e cedendo. L’imprenditoria dei soldi altrui e rischio zero, dei contributi e degli incentivi, dei prestanome della finanza come Marchionne.  

 

Abituata a far pressione sulle istituzioni agitando i lavoratori come ostaggi, per ottenere fondi.

I piani industriali, quelli che dovrebbero essere la base di tutto, sono nascosti con arroganza, negando sdegnati qualsiasi timida richiesta di palesarli. Ammesso che esistano.

 Vengono sostituiti da vaghe e non impegnative dichiarazioni di intenti. In compenso, le limitazioni di diritti economici e lavorativi sono ben chiare e tassative.

A questo punto non serve neppure più fare distinzioni frase per frase fra le due realtà lavorative, di tanto si somigliano e somigliano a molte altre italiane.

 L’unica triste differenza da sottolineare è che, se in Fiat i sindacati si spaccano, e una metà di lavoratori è ben decisa a lottare, a Ferrania la componente consapevole che intendesse protestare CONTRO l’azienda anziché PER l’azienda e la proprietà è sempre stata minoritaria se non ininfluente.

 Differenza triste, dicevo, ma per Ferrania. Perché la lotta della Fiom, comunque vada a finire, è altamente meritevole e simbolica, non a caso a fianco di un sindacato che si vorrebbe isolato nella “modernizzazione” del Paese si sono schierati intellettuali, personalità, giovani laureati emigrati all’estero e una parte consistente dell’opinione pubblica e della società civile. 

Tutt’altro che nostalgici o arretrati come li si vorrebbe, fraudolentemente, dipingere. 

Ma consapevoli (e il caso Ferrania, appunto, insegna) che quando in una azienda ci si riduce a termini asfittici, a prepotenza e ricatto, a vaghe promesse in cambio di vessazioni vere, vuol dire che quell’azienda non ha alcun rilancio concreto davanti a sé, è solo una bugia, un alibi, uno specchietto per le allodole, ma la fine è comunque già segnata, le decisioni che contano sono già state prese, qui si sta solo facendo fumo, approfittando della situazione e tentando di aprire la strada a un arretramento generale di condizioni di vita e lavorative, utilissimo per ampliare i margini di lucro. Non a caso Marcegaglia abbozza.

E’ una scelta non facile e richiede molto coraggio e lucidità, eppure bisogna lottare, perché cedere al ricatto significa solo spostare la resa dei conti allungando l’agonia, rinunciando alla dignità e peggiorando la fine. Questo la Fiom sembra averlo capito, e con essa, appunto, una parte consapevole del Paese, al di là della penosissima classe politica.

A Ferrania, invece, non lo capì nessuno, tutti ancorati al proprio particulare, a una tremante miopia.

A Savona idem se non peggio: i discorsi su piattaforma e centrale e porticcioli e cemento sono improntati al peggior ricatto del lavoro, qualsiasi voce fuori dal coro, per quanto cerchi di motivare ragioni legate alla crisi, al bluff delle false promesse, agli esempi paralleli, agli indizi del copione già sperimentato che si vuole ripetere, finisce bollata come minoranza di nostalgici ambientalisti e amen. 

Presuntuosamente, proprio basandomi su esempi simili e dati concreti e logiche previsioni, posso affermare che in molti, specie i lavoratori e i cittadini che subiscono le conseguenze di scelte disastrose, si accorgeranno in ritardo dell’errore commesso nel credere a certe sirene. 

Siamo comunque a una svolta, a un momento topico. 

Sempre uguale a se stesso il nostro Premier. Ha una mano a una opposizione balbettante e divisa, uscendo dal silenzio per una dichiarazione persino candida: se non si consuma il ricatto, Marchionne fa bene ad andarsene dall’Italia. (Naturalmente, ha poi smentito.) 

Per chi ancora avesse qualche dubbio, chiarisce che lui ragiona sempre e comunque da imprenditore di rapina e solo da quello. Potrebbe essere occasione di resipiscenza per molti suoi votanti, tra cui, ahimè, chissà quanto operai, che l’hanno sempre visto come il benefattore nazionale, anziché come uno che si fa solo gli affari suoi (e all’occorrenza degli altri imprenditori, come ammesso anche dal nostro De Benedetti di Tirreno Power, faro di una certa sinistra), e basta. Potrebbe, ma non ci spero. Neppure l’evidenza aiuta. 

Persino una tiepida come la Camusso ha avuto l’assist per una dichiarazione sdegnata, per dire quello che si sarebbe dovuto dire da tanto tempo: che Governo è, quello che non lotta per mantenere viva, produttiva, tecnologicamente avanzata la maggiore realtà industriale del Paese?

Ma che Governi nazionali e soprattutto locali sono ed erano, quelli che non si sono attivati per salvare le tecnologie, le strutture, le potenzialità e il personale di Ferrania? 

Siamo sempre lì. Non illudiamoci che rimuovendo il simbolo più deleterio ed eclatante, in molte cose solo più spregiudicato e brutale di altri, in questo Paese cambierebbe tutto come per miracolo.

Milena Debenedetti   16/01/2011

Il mio ultimo romanzo  I Maghi degli Elementi

 

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