Europa e America tra illusione e disincanto
Nel 2025 la politica estera italiana è sospesa tra l’europeismo produttivo e l’atlantismo traballante.
Un’analisi delle narrazioni divergenti di Bruxelles e Washington
Europa e America tra illusione e disincanto
L’ottimismo di Metsola incontra la realtà di un’America che cambia: due visioni a confronto sulla collocazione dell’Italia nel mondo che si trasforma
C’era un tempo in cui il concetto di “Occidente” era sufficientemente compatto da poterci costruire sopra un’ideologia, un progetto, perfino un’estetica. Ma siamo nel 2025, e il paesaggio concettuale è mutato come il cielo dopo una tempesta: i contorni non sono più netti, l’aria sa di ambivalenza. È in questo scenario che due narrazioni si affrontano, come in un romanzo medievale, portando in scena il dilemma italiano tra l’abbraccio comunitario dell’Unione Europea e l’eco svanente di un’alleanza transatlantica sempre meno rassicurante.
La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, in visita in Italia con Giorgia Meloni, ha pronunciato un discorso che sembra scritto da un moderno umanista del Mercato Unico. L’Europa, dice Metsola, è al fianco dell’Italia, ne sostiene la manifattura, ne esalta il Made in Italy come fiore all’occhiello di un’identità non solo nazionale ma europea. L’Europa, nella sua visione, non è gabbia ma alleata, non ostacolo ma trampolino. L’Ue non deve essere parte del problema, ma portatrice di soluzioni. E lo dice, non a caso, davanti a Confindustria, il tempio laico dell’impresa. L’immagine scelta per raccontare il male – il tappo obbligatoriamente legato alla bottiglia – è un piccolo simbolo di una burocrazia invasiva, ma anche la promessa che esiste un’Europa diversa, possibile, perfino desiderabile.
Eppure, come in ogni narrazione ben costruita, c’è un antagonista. Non si presenta con il volto di un leader, ma come riflessione geopolitica: la “nuova America”, quella della presidenza attuale, che guarda all’Europa con crescente distacco. Se Metsola canta l’inno dell’atlantismo fiducioso, l’analisi sul mutato atteggiamento statunitense ricorda invece che il tempo degli entusiasmi è finito. L’Italia, una volta pedina privilegiata sullo scacchiere della Guerra Fredda, si trova oggi spaesata in un mondo dove Washington non è più madre premurosa ma partner distratto. Non più alleanza di sangue, ma convergenza occasionale, disillusa, persino cinica.

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La dialettica tra le due narrazioni non è solo concettuale: è storica, economica, identitaria. Metsola evoca la forza unificante del Made in Italy elevato a bene europeo, la solidarietà continentale post-catastrofe, il piano Mattei come orizzonte strategico.
Ma nel quadro dell’altra narrazione, quello statunitense, questi stessi elementi appaiono insufficienti, persino ingenui. Perché la nuova postura americana non si limita a riposizionarsi: essa delegittima, decostruisce l’idea stessa di alleanza simmetrica. E se l’Europa – e l’Italia in primis – non può più contare sull’ombrello protettivo dell’alleato atlantico, che ne è della sua sicurezza, della sua voce nel mondo, della sua stessa coesione interna?
Il contrasto si fa più drammatico se si considera il ruolo del disaccordo interno italiano. Dove Metsola vede un Paese dalle radici solide e dalla vocazione europea, l’analisi americana segnala la frattura: la crisi della politica interna, la mancanza di una linea estera condivisa, l’incapacità di scegliere. In fondo, Metsola parla a una platea, ma la nuova America osserva un sistema. E il sistema appare debole, forse troppo per affrontare il crocevia della storia.
È qui che il pensiero, caro a chi ama la semiotica del potere, si biforca. L’ottimismo europeista, necessario per non soccombere alla paralisi, rischia di trasformarsi in liturgia vuota, se non trova corrispondenza nel reale. L’atlantismo posticcio, affidato a memorie e automatismi, perde senso di fronte a un partner distratto. Entrambe le visioni – quella che confida in un’Europa amica, e quella che denuncia il disimpegno americano – sembrano chiedere all’Italia una sola cosa: una decisione. Ma, come ammoniva Borges, anche non scegliere è una scelta.

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E in questa sospensione, simile a un affresco incompiuto, si gioca la vera sfida italiana del nostro tempo: riscrivere il proprio ruolo senza copiare da modelli sbiaditi, sapendo che ogni parola detta in nome dell’identità – europea o nazionale – vale solo se accompagnata da un atto conseguente. Altrimenti è solo retorica. O peggio, propaganda.