ESTATE: AMICA O NEMICA?

Se avessi posto una domanda simile fino a un paio di decenni fa, sarebbe sembrata assurda. Ma oggi…[VEDI]
Se invece ritorno alla mia adolescenza e prima maturità, non l’avrei neppure pensata. Mi sia qui concesso un breve excursus in “amarcord”.
Per almeno 30 anni dopo la fine della guerra, l’estate era una delle granitiche certezze che non ammetteva contraddittori; era la stagione delle vacanze scolastiche e delle ferie lavorative, che accendeva di luce propria ogni grigio giorno d’inverno, liberandoci di abiti pesanti e cappotti per correre verso il mare, coperti del minimo indispensabile per offrire il nostro corpo ai benefici raggi del sole.

Immagine tratta da “Perché l’estate non ci piace più” [VEDI]

Al mare, però, si andava solo d’estate, prendendo in affitto un alloggio o dimorando pochi giorni in albergo. Non c’erano ancora le seconde case; il mio paese di elezione (Finale Ligure), dove da due generazioni si recava la mia famiglia d’estate, era ancora, davvero, un paese; non si fregiava del titolo un po’ vanitoso di “Città di Finale Ligure”, come compare oggi nel sito ufficiale del Comune.

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Non era ancora un’entità dipendente quasi per intero dalle ricadute commerciali del turismo di massa, che lo avrebbe anno dopo anno gonfiato fino a giustificare il suddetto titolo di Città, con tutti i suoi risvolti negativi di congestione, traffico, inquinamento, ivi esportati dai fugaci visitors dei weekend.[VEDI
Verso Ponente resisteva brillantemente il glorioso stabilimento Piaggio, primaria fonte di occupazione per i residenti, ormai da anni traslocato per rovesciare altre migliaia di metri cubi di edilizia residenziale su un tessuto urbano già saturo, lasciando nel frattempo in bella mostra scheletri di archeologia industriale, in fiduciosa attesa che “cessi la crisi”.
Il rango urbano ha cancellato anche il pregio, in vigore fino a tutti gli anni ’80, della libertà derivante dall’assenza di regole soffocanti che gli ultimi decenni “beneducati” ci hanno abituati a considerare come normali, inclusi autovelox e telecamere di sorveglianza, a ossessiva tutela, ça va sans dire, della nostra “sicurezza”: un vocabolo divenuto passpartout per attuare qualsiasi privazione delle nostre svanenti libertà. D’altronde, più cresce un paese verso la dimensione cittadina, più cresce la delinquenza e si rende inevitabile un giro di vite sulle libertà di tutti.

Spiaggia del Malpasso (Varigotti) in un’immagine fuori stagione. Fino agli anni ’80 libera a tutti, è oggi recintata, sorvegliata, con cabine a rotazione e botteghino per l’ingresso a pagamento dei non residenti. Rimpiango i tempi in cui le istituzioni erano meno protettive verso i cittadini. Sono forse un po’ anarchico?

Ricordo, come mirabile esempio di libertà, il selvaggio litorale del Malpasso, al quale chiunque poteva accedere senza restrizione alcuna. Era frequentata da un caleidoscopio di ragazzi di mentalità aperta, in particolare genovesi, le cui ragazze, lontane da casa,  non si facevano problemi a mostrarsi in arditi topless, dando sfoggio di un variegato campionario di cui oggi non resta neppure l’ombra, né sullo stesso Malpasso né altrove: tutte educate  dalla nuova morale che, come ai tempi canonici, vede il peccato dietro ogni esposizione di nudità, secondo le “regole delle community” rigidamente imposte dai padroni del web, che ormai fanno testo. Tutte insieme, uniformemente, in castigati bikini o, fuori spiaggia, in denim hot pant, per sopperire in qualche modo allo smarrito sex appeal balneare.

Se sulle spiagge il bikini ha sconfitto il topless, per le strade gli fa da controcanto la moda dei denim hot pants, più sexy del nudo

Ma la parola estate mi porta ancora più indietro negli anni, quando le valli finalesi e, più vivida nella mia memoria, la valle dello Sciusa (Finalpia), vantava, risalendo verso Calvisio, campi coltivati a perdita d’occhio, sia a fondo valle che lungo le pendici collinari, che antiche mani sapienti avevano faticosamente strappate ai pendii e terrazzate a “fasce”.
E le estati assistevano ad un ricco via vai di camion che passavano a ritirare, dai bordi della strada, pile di plateau stipati di pesche, albicocche, pomodori, e tutta una varietà di frutta e ortaggi dal profumo e sapore dell’appena colti. Oggi, a coltivare i campi restano pochi agricoltori che, quasi moderni eroi, non hanno ceduto alle sirene della speculazione edilizia, per vivere di rendita anziché del proprio lavoro.

Insomma, estati così amiche si vagheggiavano tutto l’anno, scolastico o lavorativo, nelle città lombarde e piemontesi. Certo, la canicola c’era anche allora, ma non in crescendo di anno in anno, macinando tutti i record di temperature, sia dell’aria che dello stesso mare, che raggiunge persino i 30°C, e specie tropicali che trovano a queste latitudini i loro nuovi habitat. [VEDI]
Oggi, sconfinando da un discorso prettamente campanilistico a livello nazionale (anzi, ormai globale) attendiamo con serpeggiante angoscia l’arrivo dell’estate, al pari di una minaccia, con il Sole che, pur indispensabile alla vita, mostra sempre più il rovescio della medaglia, con l’acqua, sua antagonista, che passa allo stato gassoso al crescere delle temperature, mentre i fuochi, appiccati da scriteriati per creare i maggiori danni possibili, gareggiano con l’edilizia nel sottrarre terreno ad usi meno distruttivi, come l’agricoltura o una “improduttiva” area boschiva.
Di pari passo all’esplosione demografica e all’avanzare della tecnologia, l’estate si mangia l’inizio e la fine dell’inverno, con previsioni di 2 soli mesi di tiepidi inverni e almeno 6 mesi di torride estati.  [VEDI]

Un vecchio adagio inglese recita “The straw that broke the camel’s back” (La pagliuzza che ruppe la schiena al cammello), a indicare che, esagerando (tirando troppo la corda, diciamo in italiano), prima o poi si arriva al punto di rottura. Un monito di cui la società della crescita senza sosta e senza limiti non tiene minimamente conto. Eppure, le nostre estati sono un chiarissimo avvertimento in tal senso

Per contrastare l’invadente canicola, un numero crescente di persone, martellate dalla pubblicità, installano condizionatori, che estraggono il caldo dagli interni per buttarlo negli esterni, consumando elettricità, col risultato di richiedere maggiori sforzi ai condizionatori, in un progressivo avvitamento, che ricorda l’uomo che taglia il ramo su cui sta seduto.
Del resto, la corsa ai consumi, necessari o superflui, è in pieno svolgimento in ogni campo: nessuno vuole farsi mancare niente, e più consuma, più è costretto a consumare. Una bulimia non solo culinaria.
E le autorità, cosa fanno? Al massimo qualche limitazione al traffico per eccesso di polveri sottili; ma assolutamente nulla per arginare tutte quelle attività che accentuano l’attuale tendenza verso il surriscaldamento climatico, con in testa i condizionatori: ma la lista è davvero lunga, troppo lunga per trovare un seguito consapevole e volontario. Si dovrà arrivare alla coazione, alle imposizioni dall’alto, di cui abbiamo avuto un macabro trionfo durante gli anni del Covid. Del resto, il green deal di frau von der Leyen della dittatura verde ha tutte le caratteristiche, senza però la certezza di percorrere la strada giusta.

Uso qui, come allegoria dell’ossessione igienista delle massaie odierne, martellate dalle pubblicità dei detersivi, questa originale opera di “arte partecipata”, dal titolo Apologia dei Panni Stesi, dell’artista finlandese Kaarina Kaikkonen, esposta a Bergamo lo scorso anno, tra feroci polemiche [VEDI]

Oggi come oggi, non vedo, neppure in nuce, la volontà dei singoli di ridurre i propri consumi, neppure con gli ultimi folli aumenti di luce e gas; ragione per cui, le temperature continueranno a salire, e con esse l’uso forsennato di condizionatori, lavatrici e una nutrita serie di pratiche energivore. Ad maiora!
Del resto, date all’uomo una macchina, e ne farà sicuro abuso. [VEDI]

Marco Giacinto Pellifroni     28 luglio2024

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