Est est, non non. Ma non è sempre così
“Se chiedono il tuo parere rispondi est est, non non”, sostenevano i pitagorici, in scoperta polemica con le sottigliezze sofistiche. Cinque secoli dopo Matteo attribuiva a Gesù le stesse parole per ribadire il valore della chiarezza e di quella che oggi viene definita con l’abusata e stucchevole espressione “onestà intellettuale”. Sì sì, no no: non si scappa, bisogna prendere posizione e rischiare di prendere quella sbagliata o, che può costare più caro, quella contraria alla maggioranza. Se tieni alla popolarità, se vuoi essere amato, non prendere posizione, rispondi come vogliono che tu risponda, dai un colpo al cerchio e uno alla botte ma fallo in modo pensoso, anche un po’ sofferto e ti guadagnerai il rispetto e la considerazione dei benpensanti. Eppure ci sono delle circostanze in cui la schiettezza del “sì sì no no” diventa schematismo e banalizzazione, vuoi perché i problemi sono malposti vuoi perché la realtà qualche volta è intimamente contraddittoria. La querelle sulla giustizia in Italia è a questo proposito un caso di scuola, come lo è quello della minaccia della Chiesa alla laicità dello Stato.
Il referendum promosso dai radicali e sponsorizzato dalla Lega si farà, a meno di colpi di mano che con l’aria che tira mi sentirei di escludere. E dico subito, tanto per non essere frainteso, che lo voterò convintamente perché mi pare fuor di dubbio che la magistratura debba essere riformata e che si debba fare chiarezza sul ruolo della pubblica accusa, sulla terzietà del giudice e sulla intollerabile lunghezza delle cause civili. Ci sarebbe da mettere le mani sulla professionalità degli inquirenti, sulla sovrapposizione di polizia di Stato e carabinieri e sulla titolarità delle indagini ma non chiediamo troppo. Detto questo, e ribadito che voterò convintamente le norme previste dal referendum, non condivido affatto l’atteggiamento dei suoi originari promotori né il giudizio di sprezzante condanna sulla magistratura che viene da molte parti, a destra e a sinistra dello schieramento politico. Attaccare la magistratura in quanto tale è una follia ed è una follia minarne la credibilità. Perché, quali che siano state le vicende che l’hanno compromessa e per quanto deplorevoli siano state, per quante prove di malfunzionamento possano essere esibite, dai tempi del porto delle nebbie al caso Calamara, bisogna assolutamente evitare di mettere in discussione uno dei pilastri sui quali si fonda la convivenza civile (non dico la costituzione e lo faccio di proposito per non scadere nella retorica).
Se, infatti, non ci si fida aprioristicamente della giustizia vengono meno la stabilità dei rapporti sociali e il senso di sicurezza sul quale poggiano: la legge è il fondamento dello Stato ed è il discrimine fra la civiltà e la barbarie. È un po’ come col sistema sanitario: dopo tante chiacchiere distruttrici al bar o sotto l’ombrellone quando la salute propria o dei propri cari è in pericolo ci si affida al medico, ci si mette nelle sue mani e guai non fidarsi di lui. Ed è così con la scuola: si parli pure, e straparli, di tutti i suoi mali, veri e presunti, ma metterne in discussione la funzione e la stessa esistenza come faceva qualche burlone oltreoceano negli anni Sessanta è puro delirio. Modalità organizzative sono sempre correggibili e perfettibili, nella scuola come nella sanità e nella giustizia e all’interno delle organizzazioni ci sono sempre singoli individui che ne minacciano il buon funzionamento: il medico incapace, l’insegnante incompetente, il giudice corrotto ma i servizi che il sistema garantisce al cittadino vanno difesi e guai delegittimarli. Tanto più che la principale accusa che viene rivolta alla magistratura è palesemente priva di senso: la magistratura italiana, si dice, è il vero potere forte di questo Paese. A forza di sentirlo ripetere si rischia di crederci ma in realtà non c’è niente di più falso.
Intendiamoci: che i magistrati siano dei privilegiati non ci sono dubbi: retribuzioni che sono un’anomalia nel quadro complessivo del pubblico impiego, assolutamente sproporzionate rispetto alle competenze, ai titoli di studio, alle responsabilità, alla sostituibilità (chiunque può fare il giudice ma sfido chiunque a sostenere la stessa cosa per ruoli di non minore responsabilità che in più richiedono specifiche attitudini e logoranti processi di apprendimento), automatismo della carriera, autogestione disciplinare, organizzazione verticistica più forte di qualsiasi sindacato di categoria, potere discrezionale delle procure o dei pubblici ministeri che può essere percepito come ricattatorio; ma non esageriamo, come fa quotidianamente Sansonetti. La magistratura è uno strumento, uno strumento formidabile ma niente più che uno strumento al servizio del cittadino ma suscettibile di essere usato impropriamente da un autentico potere forte. Non c’è un solo episodio nella storia repubblicana che giustifichi l’accusa che viene rivolta ai magistrati di prendere iniziative autonome, che, se venissero dimostrate, configurerebbero un colpo di Stato. Al massimo i magistrati e per loro l’Anm, si sono rivoltati contro tentativi di toccare i privilegi acquisiti: lo farebbero tutte le categorie, sia pure con minore risonanza. Rovesciando platealmente la realtà si arriva a dire che la politica è sotto schiaffo di certa magistratura. La verità à che purtroppo certa magistratura è succube della politica, dove per politica si intende il partito che storicamente si è prefisso di fare della magistratura, della stampa, della scuola e della stessa sanità un proprio strumento di potere, il partito erede del totalitarismo comunista. Fanno sorridere i commentatori politici di destra che avvertono i compagni: attenti ai magistrati, perché finora hanno subito Berlusconi e le destre ma domani potrebbe accadere anche a voi. Come se non fosse evidente che se c’è stata persecuzione giudiziaria e uso politico della giustizia questo fosse accaduto per un capriccio dei magistrati e non per mandato della sinistra! Il singolo magistrato è un uomo, o una donna, che vive in un preciso contesto ambientale ed è esposto ai contraccolpi che le sue scelte provocano all’interno di quel contesto.
In questi giorni si è spesso citato il giudice Livatino portandolo ad esempio di come dovrebbe essere un magistrato. Si dà ad intendere che sia un valore mettere a repentaglio la vita per svolgere il proprio lavoro. In realtà il giudice Livatino è stato vittima di uno Stato incapace di tutelarlo, di un sistema politico marcio che l’ha mandato allo sbaraglio. Non ci devono assolutamente essere in uno Stato di diritto e in uno Stato che funziona giudici eroi. Sarebbe come se l’insegnante che boccia un alunno rischiasse una pallottola in fronte al pari del chirurgo che non riesce a salvare il paziente: se questo accadesse – e purtroppo qualche volta accade – gli insegnanti smetterebbero di bocciare e i chirurghi di operare perché lo Stato non può pretendere dai suoi servitori di comportarsi da eroi disposti al sacrificio. Chi parla di eroi e di sacrificio in buona o cattiva fede non fa altro che coprire le magagne dello Stato, la sua inefficienza e l’incapacità dei governanti. Quello del giudice, dell’insegnante o del medico sono mestieri delicati ma non possono essere considerati pericolosi. Se lo diventano significa che le istituzioni non funzionano e questo non può essere accettato. Per concludere: al di là delle riforme, senza dubbio opportune, occorre assolutamente che i giudici, e in generale la magistratura, vengano messi al riparo dalle pressioni dei politici e dalla paura di pestare qualche piede delicato, sia quello di un cardinale, di un grembiulino o di un uomo d’onore.
Poi c’è la questione delle ingerenze della chiesa cattolica sullo politica, che fa gridare le oche del campidoglio all’attentato alla laicità dello stato. E anche in questo caso il “sì sì, no no” non funziona. Intanto insospettisce la circostanza che tra coloro che strillano di più ci siano gli entusiasti delle parole di Bergoglio in favore dell’accoglienza, messa a repentaglio al tempo in cui Salvini era seduto al Viminale. Quella che ora è un’entrata a gamba tesa contro un parlamento in procinto di varare la legge Zan era allora un doveroso e sacrosanto intervento; qualcosa non torna. Aveva tutto il diritto la Chiesa di esprimere allora le sue preoccupazioni così come lo ha ora. Ci mancherebbe altro che uno Stato pretendesse di tappare la bocca ai preti di qualunque fede religiosa; la libertà di opinione e di espressione vale per tutti e non si vede perché non dovrebbe valere per la Chiesa. Ma, si obietta, qui non si tratta della Chiesa ma del Vaticano, che, forte del concordato inserito in costituzione grazie ai compagni, impone limiti all’autonomia dello Stato su questioni di particolare rilievo religioso, come, tanto per citarne una, l’ora di religione a scuola e la nomina di chi la insegna, delegata al vescovo.
E allora il problema si fa più complicato: se sono la Chiesa o qualche suo esponente ad ammonire il governo e la politica perché temono le conseguenze della legge sull’omofobia, facciano pure ed è irrilevante che i loro timori siano condivisi o no: l’importante è che le istituzioni non ne vengano toccate e che i partiti si ricordino di rappresentare i loro elettori e non autorità esterne; se invece è un vulnus nell’ordinamento costituzionale che mina la sovranità dello Stato quel vulnus va sanato correggendo la costituzione, stop. Per concludere, Chiesa o no, che la legge Zan sia un abominio lo dimostrano sia il testo sia i personaggi che la sostengono e i modi con cui la sostengono. C’è una sola cosa peggiore della pretesa di giudicare e sanzionare i gusti sessuali delle persone: volerli imporre e rendere pubblico quello che è squisitamente privato e personale e pretendere di fruire di diritti e privilegi che lo Stato riserva alla famiglia non perché le coppie che l’hanno formata si amano tanto ma perché potenzialmente si assumono l’onere di generare e di assicurare il futuro alla nazione, una cosa che l’onorevole compagno e suo “marito” difficilmente possono garantire. Sarebbe piuttosto il caso che lo Stato riservasse alle donne che da sole allevano i propri figli le attenzioni che riserva alle cosiddette unioni civili omosessuali.
Pierfranco Lisorini docente di filosofia in pensione