Elogio della vecchiaia

Elogio della vecchiaia
Doni e potere della terza età

Elogio della vecchiaia
Doni e potere della terza età

Quasi senza accorgermene mi son trovato come livre de chevet il ciceroniano De senectute. È un’opera breve ma densa, suscettibile di chiavi di lettura differenti ma sostanzialmente riconducibile a due motivi: l’apologia di quella che noi ora chiamiamo la terza età e il confronto con la morte nel momento del bilancio conclusivo dell’esistenza. Sullo sfondo, un sordo rancore verso le nuove leve della politica, che poi sono i suoi avversari politici, sconsiderati e irrispettosi del mos maiorum, con le stoccate al mito e alla sicumera della giovinezza, perché la morte incombe in egual misura su giovani e anziani: nessuno al mattino può essere sicuro di arrivare vivo a sera. 


In questa rilettura ho avvertito una contraddizione insanabile fra la convinta adesione ad una prospettiva escatologica platonico-pitagorica, anticipatrice di quella cristiana, che mi è parsa enfatizzata da copisti – e manipolatori – medioevali, e il richiamo alla morale tradizionale romana. Da un lato l’alternativa consolatoria fra nullificazione e rinascita nella beatitudine di una pura spiritualità, dall’altro l’alternativa, tutta terrena, fra l’oblio al quale è destinata un’esistenza incolore e la sopravvivenza affidata alla memoria di chi resta e, per pochi eletti, alla storia collettiva. Nel primo caso vale per l’arpinate il principio pascaliano: nel dubbio conviene puntare sull’immortalità dell’anima e vivere come se la vita terrena fosse un ponte verso la vera vita, nell’altro il rinvio ai valori degli affetti, della comunità, della patria, dell’armonia con la natura e la divinità, che, ricordiamo, per gli antichi non allontana dal mondo ma dà senso al mondo in cui viviamo. E, su tutto, la consapevolezza di aver bene speso l’opportunità dell’esistenza. Non dubito che sia questo l’atteggiamento prevalente della romanità e dello stesso Cicerone.


Che, in sintesi, è la conciliazione fra finalità e situazione, è l’oraziano carpe diem che non dissipa ma dà senso all’esistenza, è tensione morale ben impiantata nella quotidianità, risolta nel senso dello Stato, dei doveri civici, del bene comune. Sotto questo aspetto il valore della vita è funzione della dignità personale e quando questa non può più essere garantita resta il suicidio, non più gesto disperato o suggello della incapacità di sopportare il peso della vita ma scelta consapevole di libertà e di coerenza. Niente di più lontano dalla morale cristiana.

Torniamo alla vecchiaia. Una volta raggiunta l’età adulta l’intelligenza non cresce più di quanto non cresca la statura, semmai è destinata a declinare. Lo stesso vale in misura anche maggiore per gli strumenti dell’intelligenza, che sono le capacità sensoriali e percettive, a cominciare dall’udito, che condiziona in modo decisivo i rapporti sociali. Per ciò che riguarda l’efficienza fisica il decadimento è ovvio: l’organismo dopo aver raggiunto la piena maturazione procede ineluttabilmente verso il proprio disfacimento. Come si fa allora a sostenere che la vecchiaia sia non solo una meta auspicabile – Leopardi diceva il contrario facendo suo il motto di Menandro ma era un suo modo per esorcizzare la paura della morte -, non solo un traguardo; ma anche la stagione felice del raccolto? L’esistenza è un campo minato, zeppa di insidie e di cattive sorprese e esserne usciti indenni è di per sé motivo di legittima soddisfazione, turbato, si dirà, dalla consapevolezza che il futuro non ci appartiene più e che ci viene tolta la capacità progettuale. Posso rispondere a questa obiezione che vivere nella prospettiva del futuro fa perdere la dimensione del presente ma non è questo il problema. Quello che ci fa vivere non è un calcolo astratto ma un’energia interiore, la stessa che fa sì che da vecchi non si perde la voglia di piantare un ulivo che non si vedrà mai crescere: semplicemente non si sta ad aspettare che cresca e cominci a produrre. Se quella energia interiore rimane non si rinuncia a progettare, lo si fa ma con una punta di distacco o di disincanto, che se vogliamo rende il progetto più piacevole e meno ansiogeno. Ma non è questo il principale vantaggio della senilità: è piuttosto nel poter guardare dall’alto alle proprie vicende, alle proprie inquietudini passate e allo scorrere delle vicende altrui e alle altrui inquietudini. È un investimento di senso meno tumultuoso, depurato dalle pulsioni, emancipato dalla necessità e dal bisogno.


Si è arrivati sulla sommità affrancati dalla debolezza e dalla fragilità dell’essere umano, dal crisma dell’inferiorità e dall’obbligo di darsi da fare per affermarsi, liberati dal peso di un’autorità incombente che rinnova continuamente la soggezione infantile e suscita la rivolta interiore – in qualche caso l’acting out – e la puntuale conseguente frustrazione, dalla spinta all’emulazione, parente stretta dell’invidia, dal senso della propria inadeguatezza, che la tentazione della sopraffazione non riesce ad annullare. 

Non avverti più il peso dell’autorità, sei tu l’autorità. Niente ti mette in soggezione. È questo uno dei motivi per cui i giovani nutrono verso l’anziano sentimenti di malcelata avversione e diffidenza. L’esibizione della forza fisica, del successo, della ricchezza non fa presa sul’anziano, per lui valgono i principi fondanti non la dinamica di superficie del gioco sociale. E, infatti, una società che si illude di poter sopravvivere con la crescita, il dinamismo, la competizione, il valore assoluto dei beni non riesce a capire né vuole integrare i valori della vecchiaia, della sazietà, della bonaria superiorità, del distacco dalla cupidigia infantile


Del resto è difficile pensare che sub specie aeterni mantengano qualche significato il denaro o la condizione sociale. Potere e prestigio suonano come una moneta falsa, rivelano il loro carattere effimero e convenzionale. Il dato anagrafico, che norme e consuetudini sociali vorrebbero usare contro il vecchio, peso morto nel circuito produzione-consumo-produzione, si ritorce contro le nuove generazioni, ricondotte ad una dimensione di subalternità. L’essere più giovane depotenzia status e riconoscimenti sociali, perché il rapporto adulto-bambino, padre-figlio, docente-discente è fissato una volta per tutte e non si può impunemente scrollarselo di dosso. E l’ostentazione del disprezzo verso il vecchio nasconde un insopprimibile sentimento di inferiorità.

Gli antichi avevano ben compreso questa aspetto della natura umana e ne avevano esaltato l’importanza e la funzione, riconoscendo che l’origine, l’impianto e la custodia dello Stato, della famiglia, della giustizia poggiano sulla saggezza l’equilibrio e il disinteresse degli anziani, un dato confermato del resto nella generalità delle culture. L’autorità del pater familias, mantenutasi attraverso i secoli nel mondo contadino, corrisponde a quella del Consiglio degli anziani, il Senato, ed è all’origine del rispetto verso le istituzioni, che di quella autorità senile sono la manifestazione tangibile, anche con i risvolti negativi di un potere paternalistico che inchioda i cittadini nella condizione di sudditi.


La tecnica corre velocemente, le conoscenze sono in evoluzione continua, una laurea in ingegneria o in medicina presa dieci anni fa e non seguita da immediati continui e dimostrabili aggiornamenti non vale più nulla; nemmeno in agricoltura, che ne era il terreno d’elezione, l’esperienza e la tradizione reggono il confronto con l’innovazione. Sotto questo aspetto l’autorità e l’autorevolezza dell’anziano cedono il passo al giovanilismo (anche se di tanto in tanto si avverte qualche timido riflusso e un cauto richiamo alle antiche consuetudini: è difficile negare che quello che del lavoro del contadino e dell’allevatore d’antan finiva in tavola fosse più sano e più appetibile del prodotto dell’industria agricola e della zootecnia). Come sia sia resta il fatto che in ogni campo il valore dell’esperienza risulta fortemente ridimensionato. L’esperienza, si dice, non è altro che la somma delle scelte sbagliate e comunque anche quelle giuste non sono applicabili a situazioni nuove. Insomma non è dall’esperienza o dalle conoscenze acquisite e tesaurizzate che proviene l’autorità dell’anziano ma proprio dal suo semplice essere anziano, dall’essenza stessa della vecchiaia.


Sul terreno delle conoscenze, del sapere e del saper fare, l’età non ha alcun peso né dà alcuna garanzia: per il giovane valgono le stesse regole del vecchio riassunte nel motto dell’ateneo pisano: “chi sa sa e chi non sa su’ danno”; il sapere, per l’uno e per l’altro, si conquista e si rinverdisce giorno per giorno, non si accumula: la mente umana non è né una biblioteca né un’enciclopedia ma un elaboratore di dati che essa si deve procurare. Il vecchio in questo non ha alcun vantaggio. Ma il vecchio ha il dono divino di poter guardare con sufficienza e con la piena consapevolezza della loro provvisorietà a tutto l’universo dei saperi perché ne avverte la miseria e l’intrinseca vacuità, non inferiore a quella del lusso, del possesso, degli oggetti. Ed ha anche, nel rapporto con l’altro, la consapevolezza di valere per se stesso, per ciò veramente è non come strumento ma come fine, non come forma mutevole e sfuggente ma come esempio di realizzazione e di stabilità. Caduca, illusoria? Forse, ma per chi non ha più bisogno di correre diventa possibile fermarlo il tempo, se si vive per ciò che si è e si ha e non per quello che si vuole essere o avere. 

C’è bisogno di vecchi, liberi da pregiudizi, indifferenti alle mode. Disincantati, non imbrigliabili, fieri anche delle loro debolezze, refrattari al politically correct, vecchi che possano mettere in guardia i giovani contro la tirannia del conformismo, del pensiero unico, di una scienza cialtrona e asservita come quella di cui intende servirsi il cicisbeo per soddisfare il suo delirio megalomane. 

Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.