È arrivata la modernité

È arrivata la modernité

È arrivata la modernité

“Prendi il telefono e fammi una foto”. Questa frase sarebbe assolutamente inesplicabile alla generazione che non c’è più. Soprattutto se pronunciata fuori casa: prendere il telefono? In mezzo a una piazza, magari. In riva ad un fiume, o nel bosco? E che hai, una prolunga enorme? E poi, cosa ci vuoi fare con il telefono? Una foto? Col telefono?! E con la macchina fotografica cosa ci fai? Stiri le camicie? E poi com’è questa storia per cui appena scattata la foto ti vien detto: fammela vedere. Eh, un momento: tolgo il rullino, lo faccio sviluppare, tempo qualche giorno ho la foto. Ah, bene, allora mandala ai parenti in America. Si, bene, ci vorrà un mese. Macché: subito, adesso. Non si dice neanche più “manda” una foto, ma “condividi”, proprio perché la vedi praticamente assieme a un altro tizio lontano decine di migliaia di chilometri.

 

Quella generazione non aveva ancora finito di stupirsi per tutte le novità che il “secolo breve” ha portato violentemente nelle loro vite, che ancora dovrebbero ricominciare a stupirsi e sempre di più, e forse a sentirsi ancora di più inadatti ad un mondo tanto veloce, complicato e intricato.

Alcuni anziani che conoscevo ricordavano il racconto che gli era stato fatto quando in paese era stata costruita la ferrovia (stupore, incredulità, ma tutto sommato un ponte e una strada ferrata erano comprensibili, erano cose senza trucchi, statiche e grevi), ma soprattutto quando era stata avvistata la prima locomotiva (1874, la Torino – Savona): una diavoleria. Sicuramente quel pentolone fumante su ruote conteneva un cavallo. Non c’è altra spiegazione. Ci volle del bello e del buono per convincere quelle persone che era un meccanismo, che si trattava di una macchina. Parola nuova, questa, che deriva anche lei dal termine più antico macina, quella del mulino, unica macchina dinamica complessa conosciuta fin dai tempi più antichi.


Ho passato le estati a Giusvalla. Da bambino, la sera, potevo stare ad ascoltare i discorsi dei vecchi. Ricordo vagamente reduci della Prima Guerra Mondiale narrare di bombarde e baionette. Ne ho purtroppo un ricordo confuso. La guerra ha portato la ventata più grande di modernità. Chi era partito per le trincee ne era tornato con un’altra mentalità (questo senza considerare le implicazioni emotive derivate dalla carneficina). Aeroplani, camion, automobili, mitragliatrici, gas e maschere, bombe e carri armati. Per chi era vissuto fra prati e boschi assistere a tutte quelle novità ad un tempo, anche senza la battaglia vera e propria, doveva essere quantomeno traumatico. Eppure quella forza sarebbe arrivata anche nelle campagne. Un parente (classe 1928) mi raccontava che a cinque anni suo padre lo aveva accompagnato a vedere una trebbia a vapore. Arrivato a pochi metri dal mostro, il bimbo era esploso in pianto dirotto e s’era bagnato, letteralmente terrorizzato dall’ordigno meccanico. Si trovano rari quaderni di scuola, della stessa epoca, in cui giovani allievi raccontano della visita nella vetreria di Altare. Le parole usate, le immagini sono le stesse che troviamo utilizzate per designare l’inferno: fuoco, fumo, puzza, rumore, fatica, confusione, sofferenza.

Prima che arrivasse la Seconda Guerra, le campagne furono sconvolte dall’elettricità: le lampadine (LA lampadina, poiché di una sola per tutta la casa si trattava) era accesa solo dopo una certa ora, e previo consulto tra capofamiglia e la moglie. Non era una decisione da prendere a cuor leggero. Dopo poco la corrente elettrica portava un’altra innovazione sorprendente: la radio. Alcuni si indebitarono (e non poco) per riuscire ad acquisire un colossale cassone di legno, pesantissimo e dal contenuto misterioso. Si raccontava di un uomo particolarmente scettico, invitato da un facoltoso proprietario di un apparecchio radiofonico. L’uomo andò in veglia a vedere l’apparecchio, l’ascoltò, e riportò a casa il seguente commento: “Hanno comprato una baule che parla e suona, che nessuno la può interrompere”. E, pensandoci bene, l’uomo aveva già colto il limite e la violenza di un mezzo di comunicazione pervasivo, ma unidirezionale, a senso unico: che non concede repliche.


Più recentemente ricordo benissimo anziani contadini, nella tarda sera estiva, commentare le notizie (arrivate appunto da una radio, magari più piccolina, a transistor) dello sbarco sulla luna dell’ennesima missione spaziale. Fandonie! Com’è possibile arrivare sulla Luna? Eh ma i pianeti, il sole, la terra che gira… Ma cosa gira? Se casa mia è sempre nello stesso posto non gira. Se girasse casa mia sarebbe da un’altra parte!

L’ultimo episodio legato all’arrivo della modernità l’ho tenuto come conclusivo, è quello a cui ho assistito direttamente, per cui ne posso offrire memoria diretta.

Vigente l’estate del 1973, le cascine erano ancora laboriosi centri di produzione, anche se non c’erano più giovani a lavorare i campi. D’estate arrivavano anche i villeggianti, le seconde o terze generazioni che possedevano e posseggono ancora una vecchia casa, e che abitano solo nel periodo estivo. Quell’anno il mio vicino genovese, il figlio di una coppia proprietaria della casa accanto alla mia, aveva appena raggiunto i 23 anni. Solido, alto, abbronzato, bello. Faceva pure il calciatore in una squadra importante, o forse c’era andato vicino. Faceva anche un’altra cosa che lo rendeva misterioso e autorevole: il disk jockey. Non si diceva ancora DJ. Peraltro la questione colpiva molto anche mia nonna, che si era fatta ripetere diverse volte l’appellativo, per concludere: “Ah! Mette i dischi. Ma è un lavoro?!”, causando un certo disappunto.

 

Il vicino quell’anno fece una cosa inusitata: una corsetta. Mise pantaloncini, scarpette ginniche, canotta, e prese a correre a passo lieve e cadenzato fra i prati falciati, sui sentieri e sulle stradine fra i boschi. Qualche minuto dopo la partenza era arrivano da noi un contadino che abitava la cascina prossima, trafelato. “C’è qualcuno che sta male?” aveva chiesto a mia nonna.

“No, che io sappia, perché?”
“Perché ho visto coso, lì, quello lì di Genova che fa il disgioi che corre. Ho detto: se corre, va a chiamare qualcuno, che c’è chi sta male, o qualcuno s’è fatto male”.

“Ah no, no – intervenne sua madre dalla finestra – Fa jogging”

“Ah. Cosa fa?”

“Ma corre, così, per fare allenamento!”

“Allenamento a cosa?”
“Eh, ginnastica”

“Ah ecco…”.

Ma le novità non erano finite. Di lì a qualche giorno arrivò in campagna anche la morosa del vicino. Trattavasi di giovane fanciulla piuttosto fornita del suo, biondo platino, con un caschetto molto ben ordinato e tagliato di netto. La fanciulla, abituata alla vita frenetica della città, si annoiava. Dormiva fino a tardi, poi si metteva in bikini (altra grande novità) e si piazzava nel cortile comune, su uno stuoino, a prendere il sole, anche se non avrebbe avuto bisogno, ché nera, lo era già discretamente.

Mai come in quella estate i contadini del circondario ebbero bisogno di consigli e di attrezzi in prestito come quell’anno. Tutti i momenti arrivava qualcuno a chiedere una corda, una zappa, magari per vedere se mia nonna sapeva se la luna era nuova o piena, se aveva un consiglio per la muffa, se aveva sentito la volpe, nella notte. Mentre parlavano con mia nonna, roteavano gli occhi in direzione della bionda, presumibilmente radiografando quel poco che si poteva ancora radiografare.

La sera qualcuno veniva in veglia, giusto per commentare la giornata. Si stava sulla panca di sasso, davanti a casa. Quella sera un vicino aveva parlato del fieno, delle bestie, del fiume. Poi, abbassando la voce, per non farsi sentire da me, che ero troppo piccolo per certe cose, disse a mio padre: “Hai visto che roba quella lì. Chissà come mai, da noi, bestie così non fanno. Non hanno mai fatto”.  Non saprei dire come, ma non c’era in quelle parole niente di maschilista o di gretto. “Non fanno”, si dice in dialetto di specialità esotica, puoi dirlo delle banane, ad esempio. E insieme accetti che sia così: non ci appartiene. Non è una fortuna o una sventura. Era però anche quello un bel segno dei tempi moderni che arrivavano impetuosi, cogliendoci come sempre e da sempre impreparati.

ALESSANDRO MARENCO

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