È andata (come doveva andare)
È andata (come doveva andare)
Scenari per il dopo voto: fra la tentazione del tutto come prima e la svolta radicale
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È andata (come doveva andare)
Scenari per il dopo voto:
fra la tentazione del tutto come prima e la svolta radicale
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È andata. Le elezioni più attese ma anche le più tristi della nostra storia repubblicana sono alle nostre spalle, cronaca, o forse Storia, passata. Cronaca meschina se si guarda alla qualità dei contendenti, campionario della miseria umana, di venalità, di ambizioni prive di qualsiasi base, trionfo della mediocrità; Storia, se veramente segneranno lo spartiacque rispetto alla lunga marcia verso il potere della sinistra iniziata nel 1945 e approdata al regime finanziario e catto-massonico che ha svenduto il Paese per quattro denari. Tristi, queste elezioni, al di là dell’esito ampiamente scontato, senza un barlume di luce, di passione, di entusiasmo, tristi come i volti delle persone in fila che non si sono lasciata sfuggire l’occasione non per affermare il loro sì a qualcosa ma per imporre il no della loro frustrazione, del loro scontento, della loro rabbia. Ed è brutto votare non per qualcosa ma contro qualcuno. È stato un voto contro Renzi, contro Gentiloni, contro la Boldrini, contro tutto questo sistema di potere e di malaffare, contro chi per lucrare sull’accoglienza ha organizzato l’invasione. Ma, per quanto provi repulsione per l’establishment di sinistra, radicato nei salotti, nelle banche, nella nomenklatura, mi fa un po’ pena quel che resta di quel popolo che in nome di vecchie letture, di ideali giovanili o di un autentico bisogno di giustizia crede ancora nel partito della classe operaia, dei lavoratori, degli emarginati. Mi si perdoni la volgarità ma mi ricorda un marito innamorato cieco davanti ai tradimenti della moglie. Intendiamoci: lo zoccolo duro dell’elettorato rosso non è fatto di idealisti, di illusi, di nostalgici o, più prosaicamente, di creduloni; sono piuttosto quelli che si alimentano delle briciole o dei bocconi più ghiotti del sottobosco del regime: case popolari, un posto di bidello o uno stipendio da dirigente. Chi non ci lucra ed ha aperto gli occhi, come chi non ci ha mai creduto ma sospetta che dall’altra parte si perseguano interessi che non sono i suoi, si riconosce nella protesta pura, si unisce all’urlo liberatorio della piazza infiammata da Beppe Grillo, ma si deve costringere a non vedere la nullità dei miracolati del web, la sguaiata turba famelica senz’arte né parte che fa sembrare grande Di Maio con le sue modeste lezioncine non ancora assimilate. Ora poi che quell’urlo si è fatto fioco, che il trascinatore si è defilato e sembra guardare alla sua creatura con un certo distacco, non per questo gli elettori si son rivolti da un’altra parte, perché non sapevano dove guardare o a quale altro santo votarsi. L’altra parte era la coalizione di centrodestra. Che, a differenza del movimento (ma non è un movimento) non è solo espressione di una protesta, legittima quanto si vuole ma ferma sulla soglia dell’emotività e in buona sostanza sterile e paralizzante; ha una storia, anzi, ne ha più di una, ha un programma, o, meglio, una sommatoria di programmi e indica un cammino di cui però non si vede il traguardo. Gli eredi di un Msi pasticcione, velleitario, nostalgico di non si sa che cosa e duttile come il pongo insieme ad una Lega che cerca di scrollarsi di dosso il passato fatto di risentimenti più che di proposte e ha trovato nel pragmatismo e nell’efficienza dei suoi uomini una nuova ragione d’essere si sono trovati uniti nell’abbraccio mortale di Berlusconi che li vuol chiudere nella sua casa dei moderati. Come dire: nessun allarme, tutto come prima, non cambierà nulla. Ed è per questo che tanti, turandosi il naso, hanno preferito al più affidabile Salvini l’incognita Di Maio. E quegli stessi che hanno votato per una svolta senza rischiare il salto nel vuoto grillino, temono che Salvini venga ammaliato dalla Circe berlusconiana. Strano destino quello degli italiani. Un popolo unico al mondo per intelligenza, senso critico, individualismo, che ha sopportato per decenni la cappa di piombo di un regime clericale, ha sopportato il conformismo bacchettone e quello ancora più ipocrita e stucchevole che l’ha sostituito, ha dovuto scegliere fra un partito asservito all’America e un partito asservito alla Russia, quella sovietica, si è fatto imbavagliare dalle menadi dell’antifascismo, ha dovuto assistere al cedimento delle istituzioni di fronte all’eversione, i cui principali esponenti, invece di essere ridotti al silenzio dopo un congruo soggiorno nelle patrie galere, sono al vertice dei giornaloni, delle televisione pubbliche e private, occupano con i loro tentacoli familistici e amicali tutti i gangli del potere politico ed economico. Avverto in giro una grande stanchezza. Troppi decenni di falsa democrazia, di distanza fra la volontà popolare e gli uomini che se ne dovrebbero fare interpreti, con uno Stato flaccido, molliccio, poi improvvisamente marmoreo, indifferente e insensibile, quando non rivela la sua vera essenza di Moloch ostile e feroce. Non c’è ricerca del consenso, solo imbonimento. Nemmeno sotto elezioni ci si avvicina al popolo (meno che mai lo fa quel partitaccio che rivendica il “Potere al Popolo” trasferendo nella politica il tifo violento e stupido delle curve rosse), al massimo gli si promettono mance o si cerca di spaventarlo. Privo di pudore oltre che di senso del ridicolo il sindaco di Pavia: dopo essersi fatta l’anagrafe gli antifascisti si sono inventati l’adesivo appiccicato in qualche condominio come le stelle gialle che hanno visto nel film di Benigni. Marchiati, identificati – loro, che si sono iscritti all’anagrafe – ora vivono sotto l’incubo della deportazione e della Gestapo che alle tre di notte gli sfonda la porta col calcio del fucile. Questa trovata ridicola partorita in qualche sede dell’Anpi impensierisce il primo cittadino. Non abbassiamo la guardia: il fantasma di Farinacci sta organizzando le sue squadracce. Nel frattempo però sono i ragazzi di Casapound a finire all’ospedale, ci si meraviglia se Salvini riesce a parlare e se la Meloni se la cava con qualche sputo vuol dire che la democrazia tiene. Ecco, forse si rimarrà nella cronaca, forse questa non sarà mai Storia, forse l’assenza di entusiasmo era giustificata, forse la rivoluzione grillina finirà in burletta e la Lega si affloscerà sulla porta di Arcore; ma se appena ci venisse garantita quella libertà di espressione che tutto l’Occidente ha conquistato da tempo, almeno per questo varrebbe la pena aver votato. Perché è legittimo, e lo fanno in tutti i Paesi civili, protestare anche rumorosamente contro il Potere, contro il Sistema, contro i governi; ma voler ridurre al silenzio l’avversario politico no, non è legittimo. Tanto più se quell’avversario rappresenta una sparuta minoranza, che una democrazia autentica deve tutelare perché sono le minoranze il sale della democrazia. Sono i governi a imbavagliare il dissenso, è grottesco che all’interno della politica, della società civile, fra i rappresentanti delle comunità locali, si impedisca a qualcuno di riunirsi, di parlare, di esprimere idee che niente hanno di immorale o contrario alla decenza. Che ci siano associazioni, come l’Anpi,che non si limitano a esercitare la loro inutile funzione di museo contraffatto ma perpetuano la danza macabra di un passato – immaginario – ogni volta che si leva un voce priva del placet del regime è un’anomalia alla quale è ora di porre fine. Continuino a celebrare i loro riti, a venerare i loro santi , a cantare la loro canzonetta (taroccata anche quella su un originale che rinvia a drammi sociali autentici), ma cessino di arrogarsi il ruolo di nuova Santa Inquisizione. Ci ha pensato Marco Travaglio a stilare il florilegio delle corbellerie uscite dalla bocca e dalla penna dei soloni della politica alla vigilia del voto. Io ne voglio segnalare qualcuna nel dopo voto. Con la firma di Astolfo Di Amato sul Dubbio di Sansonetti ho letto questa affermazione strabiliante, a commento del crollo del Pd: L’impressione forte è che queste elezioni, con il loro risultato, segnalano che la parte colta del paese si è chiusa in se stessa perdendo il contatto con la vita reale delle persone per continuare poi a parlare di élite come ai tempi di Vilfredo Pareto. È un mistero dove abbia visto persone colte nel manipolo di incapaci che ci ha finora governato. E dove sono o cosa sono le élite in questo Paese? Le bande al limite della criminalità che si sono spartite il bottino? Un altro di cui non ricordo il nome ha rinfrescato la “populocrazia”, che sarebbe, ohibò, la “sovranità appartiene al popolo”: è curioso come le vestali della Costituzione, i difensori a oltranza di norme che i costituenti intendevano provvisorie, si prendano gioco dei Principi Fondamentali. Io non vedo nessuna populocrazia, che poi sarebbe quella democrazia che il radical chic aborrisce come potere della populace, della racaille; c’è piuttosto anoetocrazia, potere degli stolti, degli incapaci, degli ignoranti, che non ha dovuto aspettare i grillini per insediarsi e che è diretta espressione della nuova borghesia che pende a sinistra. Ora ci tocca assistere all’Opa di Calenda sul Pd, alla tentazione grillina di fagocitarlo, al fuoco incrociato su Renzi e a un Berlusconi disorientato che non sa più qual è il committente a cui dar conto di una missione riuscita solo a metà: ha impedito alla coalizione di raggiungere il 40% ma non è riuscito a imbrigliare Salvini e a salvare il Pd dalla valanga Di Maio. C’è il vortice del buco nero che si è creato con la dissoluzione della sinistra e c’è soprattutto il polverone alzato dai servi del potere che ha perso la sua rappresentanza politica e cerca ora di sostituirla non potendo resuscitarla. Perché l’Italia è l’unico Paese occidentale in cui la politica non solo è completamente avulsa dalla società civile ma è priva di qualsiasi autonomia. Altrove c’è una inevitabile interdipendenza fra potere economico e politica, che può reggere il confronto perché forte del legame con la società: da noi i partiti sono espressione passiva di poteri che restano dietro le quinte e tirano i fili delle marionette di turno. L’anomalia e lo scandalo di Berlusconi furono proprio il suo essere entrato direttamente in scena per non fare la fine del Contadino, costringendo così i suoi rivali a uscire allo scoperto e svelare l’inconsistenza umana, morale, ideale di tutto l’apparato politico-istituzionale. Ora che il coperchio è saltato stampa e televisione, cinghia di trasmissione fra poteri reali e politica, sono in confusione e creano confusione. Se si vuole un’analisi oggettiva della situazione in cui ci troviamo dobbiamo ricorrere alla stampa estera, ci dobbiamo guadare con gli occhi degli altri. Fuori la sinistra da qualsiasi governo e da qualsiasi maggioranza Il 70% degli elettori si è espresso contro il Pd e la sinistra; la maggioranza di loro ha votato per un cambiamento radicale, per scrollarsi di dosso la vecchia politica, per recuperare la sovranità monetaria, per il controllo e la difesa dei confini, per il diritto a continuare a vivere nella propria Patria con dignità e in sicurezza. Ed è evidente per tutti tranne che per i nostri opinionisti e politologi, veritieri come i sondaggi che hanno preceduto il voto, che la contrapposizione destra-sinistra non ha e non ha mai avuto alcun senso; la vera gara in queste elezioni era fra il vecchio e il nuovo e il vecchio è stato sbaragliato. Ora la partita si gioca fra due schieramenti e due leader più che opposti complementari: Lega e Cinquestelle, Salvini e Di Maio. Se daranno luogo a un nuovo bipolarismo o convergeranno in un unico asse saranno anche i numeri a deciderlo. Escluso il ricorso a nuove elezioni, rimanendo sul terreno della democrazia non si può uscire da questa alternativa e dal diktat di numeri che sono patrimonio elettorale dei partiti, non il risultato di un mercato delle vacche in parlamento. Quando mi riferisco alla Lega intendo la coalizione a trazione leghista, con l’incognita Berlusconi e del suo seguito. Confesso che per fare chiarezza e consentire una navigazione più sicura bisognerà buttare a mare la zavorra a costo di perdere un po’ di peso. La zavorra è la presenza sotto mentite spoglie, non solo nel centrodestra, dei nostalgici e degli infiltrati del sistema: vadano pure a rinfoltire la sparuta schiera del Pd, che prima che dai numeri è stata affossata dalle sue scelte sciagurate e dalla mancanza di idee, di ideali e di obiettivi. Qualche correzione di rotta La flat tax berlusconiana, che secondo il fedele Paolo Sisto sarebbe il primo provvedimento di un esecutivo di centrodestra, se dovesse realizzarsi ne sarebbe anche l’ultimo. Salvini sembra averlo capito e parla genericamente di un sacrosanto alleggerimento della pressione fiscale. È lo stesso fedele Sisto che non a caso dimentica l’invasione – e la promessa di riportare a casa seicentomila clandestini – con la stessa noncuranza che i compagni hanno sempre avuto nei confronti dei loro elettori. Un discorso analogo va atto per il reddito di cittadinanza, che molti, suggestionati da un Grillo visionario che scambia per l’oggi un improbabile futuro robotizzato, intendono come sostituto del reddito da lavoro. Così com’è stato inteso, e fatto intendere, scatenerebbe la corsa al sussidio: ricondotto alla sua funzione sociale non allontana dal lavoro ma ne stimola la ricerca attiva, così come la detassazione del reddito prodotto dal lavoro autonomo, e non certo l’aliquota unica per salari, stipendi e pensioni, ne moltiplica le opportunità. Chiariti questi due punti, spirito, programmi, obiettivi delle due forze popolari si conciliano perfettamente e una loro alleanza ha molto più senso di quella fra socialisti e democristiani nella Große Koalition che ha garantito alla Merkel il quarto mandato.
Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione |