Difendiamo l’insegnamento del latino

 

Difendiamo l’insegnamento del latino

Insistere sul fallimento totale della buona scuola renziana è come sparare sulla croce rossa. Basterebbe che qualcuno si prendesse la briga di far riascoltare le parole dell’imbonitore fiorentino quando annunciava la sua rivoluzione per rispedirlo a casa con ignominia.

Difendiamo l’insegnamento del latino

Insistere sul fallimento totale della buona scuola renziana è ormai come sparare sulla croce rossa. Basterebbe che qualcuno si prendesse la briga di far riascoltare le parole dell’imbonitore fiorentino quando annunciava la sua rivoluzione per rispedirlo a casa con ignominia. Ma al di là delle sparate del bomba sta il fatto che negli ultimi decenni si sono succeduti governi brevi e governi di lunga durata, governi di centrodestra, di centrosinistra, tecnici, di sinistra, regolarmente eletti o frutto di larvati colpi di stato, ma tutti sono stati accomunati, per usare un eufemismo, dal basso profilo dei loro componenti e, in particolare, dei ministri della pubblica istruzione. Si è in parte salvata la Moratti, alla quale vanno riconosciuti la capacità organizzativa, l’attenzione al personale, il tentativo, per altro miseramente naufragato, di rilanciare l’istruzione professionale. Certo, come ebbi a rilevare una volta che mi trovai ad illustrare e difendere la sua riforma smozzicata e incompleta, quel ministero in altri tempi era stato guidato da Giuseppe De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni Gentile: ora ci toccava la moglie di un petroliere. Sugli altri meglio stendere un velo pietoso. Detto questo e riconosciuto che la buona scuola è il degno suggello di una stagione infelice, fidando che prima o poi usciremo fuori dalla palude e si potrà impostare in modo serio anche il problema del nostro sistema formativo, in questa occasione piuttosto che indugiare sulle magagne, come ho già fatto a proposito del modo sciagurato con cui viene insegnata, o, meglio, mistificata, la storia, intendo suggerire una riflessione sugli obiettivi formativi del liceo classico e sullo statuto didattico ed epistemico della lingua latina.

Perché difendere l’insegnamento del latino? Metto subito in chiaro che non a caso mi riferisco al latino e non alle lingue classiche. Infatti i motivi che spingono non solo a mantenere ma a incrementare e riqualificare l’insegnamento del latino nei licei classici non hanno niente a che vedere col greco. Sull’opportunità di mantenere l’insegnamento del greco antico si può discutere; a mio parere dovrebbe uscire dalle materie curriculari e rimanere come materia complementare per studenti interessati a proseguire gli studi in ambito umanistico e filologico. La diade greco-latino sposta il latino verso il passato, lo congela e lo rinchiude nella filologia classica dalla quale, per come io ne intendo la funzione, va liberato  se si vuole interromperne l’ibernazione e riportarlo in vita.

Bisogna sgombrare la mente  dal latino com’è ora nelle scuole e come, per la verità, è stato negli ultimi decenni. Il latino attualmente insegnato nel liceo classico ricalca infatti, seppure in maniera edulcorata, quello invalso da quando è scomparso dalla scuola media e può essere distinto in due approcci riservati rispettivamente ai primi e agli ultimi anni del corso di studi. Il primo è un approccio grammaticale, che in pratica sposta nel liceo la vecchia scuola media, il secondo è un approccio storico letterario, sostanzialmente svolto in italiano. Il paradigma didattico è rimasto lo stesso, con la differenza che un po’ alla volta è venuta meno la lettura sistematica degli autori e, mentre la preparazione media di chi insegna è calata paurosamente, l’insistenza sull’analisi grammaticale si è esasperata tanto da ridurre le poche pagine dei classici a strumenti per esercitazioni.  Insomma: oggi si fa semplicemente peggio quello che si faceva mezzo secolo fa e non è questo che intendo difendere. Il latino deve restare ma con modalità didattiche e soprattutto con uno spirito diversi. La maggior parte degli insegnanti e anche dei latinisti veri e propri che ho avuto modo di frequentare quando si poneva loro la domanda sulla funzione e l’utilità dello studio del latino rispondevano con una solenne sciocchezza: “il latino apre la mente”, con le varianti “il latino come la matematica ha una struttura logica”, “il latino è un eccellente banco di prova per l’intelligenza” et similia. Non è certo per questi motivi che si deve studiare il latino. Per stimolare l’intelligenza o aprire la mente sono più efficaci l’enigmistica o il gioco degli scacchi. Altri rispondevano: “è cultura generale”, dimenticando che l’apprendimento di una lingua, viva o morta che sia, non ha a che fare con la cultura: un poliglotta può anche essere un uomo colto ma non lo è perché comprende e parla tante lingue e, d’altronde, per essere una persona di sterminata cultura basta padroneggiarne una di lingue, la propria. Altri, in modo appena un po’ più appropriato affermavano che lo studio del latino è lo strumento per conoscere i classici, che è una mezza verità. Una mezza verità: primo perché i classici si possono leggere tradotti, come gli stessi romani facevano con gli autori greci; secondo perché per quanto bene uno conosca una lingua non sua, soprattutto se è una lingua morta, non potrà mai leggere il suo autore come poteva farlo un contemporaneo, rimane sempre, detto carduccianamente, un barbaro che inevitabilmente non coglie dettagli, sfumature, suoni.


Noi dobbiamo difendere il latino non per questi motivi, che al massimo sono accessori.

Dobbiamo difenderlo per gli stessi motivi che hanno spinto per secoli la chiesa romana a farlo suo finché era animata per davvero da uno spirito ecumenico e si sollevava oltre il contingente e la temporalità. Con il latino si era sottratta al fluire e al continuo cangiare delle lingue parlate, aveva fermato il tempo, si era dotata di una lingua che manteneva intatta e attuale la lezione di Tommaso e con quella lingua si era identificata. S’intende che il latino al quale mi riferisco non è quello di Tommaso e aggiungo, col dovuto rispetto, che della rovina dell’universalismo cristiano non solo non mi importa granché ma la considero un ostacolo in meno per attingere il nostro vero passato, la nostra vera tradizione, la nostra vera civiltà, rispetto ai quali i preti e il Vaticano sono stati solo una parentesi e una deviazione. I motivi che ci spingono al latino sono gli stessi ma su un piano diverso, che è quello della nostra civiltà, della presenza del nostro passato, del nostro essere italiani, non quello sub specie aeterni di una fissità immutabile ma quello di una vicenda terrena che non si è mai interrotta e, come un fiume carsico, ritorna alla luce. Una vicenda perenne ma non metatemporale, non ieraticamente cristallizzzata ma drammaticamente viva.

Con lo studio del latino si riannoda il filo che ci lega a Rutilio Namaziano, se ne raccoglie il testimone, si guadagna una prospettiva che ci consente non solo di vedere in una nuova luce gli autori classici ma di apprezzare la palingenesi del nuovo latino in Dante e Petrarca fino a riconoscerlo nella prosa tesa di Leopardi e nell’ultimo grande che “mostrò ciò che potea la lingua nostra”, Gabriele D’Annunzio. Lo studio del latino insomma non si chiude all’interno di uno schema grammaticale definito ma si apre nelle due direzioni retrospettiva e prospettica. Nella prima si ripercorre a ritroso il cammino della nostra civiltà attraverso la lettura di chi ce ne ha fornito la testimonianza. Una lettura che riporta nel presente un passato di cui ci dobbiamo riappropriare se vogliamo recuperare la nostra dignità di nazione. Nella seconda la civiltà latina indica il cammino della nostra modernità, si apre verso di noi anche nelle strutture linguistiche e rivive nella sua trasformazione: l’italiano.

 

Ma è vero che il latino vive nell’italiano solo a patto che lo sappiamo riconoscere. Il nostro popolo e i nostri giovani non debbono accostarsi al latino come qualcosa che può anche risultare affascinante ma resta comunque estraneo, come altro da sé, così come non debbono guardare alle memorie fisiche del nostro passato con gli occhi del turista e calpestare le antiche strade della nostra civiltà come invasori, barbari venuti da fuori. Il nostro popolo deve poter riconoscere dentro di sé l’antico romano, deve incarnare di nuovo la fierezza di una gente che ha portato nel mondo la luce della civiltà e dell’intelligenza, il seme dell’arte, della ragione, del diritto. Era questa la strada imboccata all’indomani dell’unità ed era la strada annunciata dai nostri poeti e scrittori, non inventata ma semplicemente ripresa durante il ventennio sotto la guida di Mussolini e abbandonata dopo la guerra dai vecchi nemici della patria italiana, cattolici e comunisti, con la complicità di quanti hanno confuso il fascismo e la retorica di regime con la coscienza nazionale, buttando, come spesso accade, il bambino insieme all’acqua sporca.

 

È in questa cornice ideale che sta il senso dell’insegnamento del latino, da non ridurre di nuovo a spauracchio degli studenti, strumento per la selezione e buon affare per gli stakanovisti delle ripetizioni. Ma pensare di restituire al latino la sua funzione nella scuola com’è ora e con gli insegnanti di adesso non è realistico. Le facoltà umanistiche sono quelle uscite più malconce dagli anni della contestazione e hanno contribuito in modo determinate alla dequalificazione della scuola secondaria creando la spirale perversa che ha prodotto scadimento continuo delle cattedre universitarie, alimentate da laureati sempre peggio formati. Fino a mezzo secolo fa, con tutte le pecche e la discutibile impostazione della didattica, abbondavano latinisti anche di grande valore e non tutti trovavano posto nell’accademia. Posso affermare senza tema di essere smentito che anche nei licei classici di provincia il livello non si discostava da quello della grande stagione della cultura liceale, quando dietro la cattedra sedevano docenti come Carducci o Pascoli. Immaginare che i nostri modesti laureati, privi di una preparazione specifica, ripiegati sulle lingue classiche perché meno affollate, che si accostano ai testi arrancando sulla grammatica, possano aprirli ai giovani senza ridurli a un gioco di decriptazione è illusorio. Bisogna che si rinvigorisca un sistema di alta formazione umanistica, concentrato in poche sedi universitarie, in grado non solo di alimentare se stesso ma di formare i docenti liceali. Questo che sostengo, la necessità di una preparazione specifica, vale per il latino in un modo speciale ma vale per tutte le discipline. Non c’è niente di più rovinoso all’interno della subcultura pedagogica degli ultimi decenni della convinzione che tutti possano insegnare qualunque cosa. Eredità e razionalizzazione di quando, per effetto, di un’incauta riforma, nei primi anni Settanta andarono a insegnare matematica centinaia di laureati in geologia mentre migliaia di laureate – erano quasi tutte donne – in francese, tedesco o spagnolo diventarono da un giorno all’altro insegnanti di “italiano e elementi di latino” nelle scuole medie o, quando non c’era più posto, docenti di sostegno. In uno degli ultimi corsi abilitanti, organizzati in modo sconsiderato e fatti apposta per promuovere tutti, dovetti sollecitare un’ispezione ministeriale per bloccare la collega che pretendeva di somministrare la stessa prova scritta per tre diverse classi di concorso, perché tanto, diceva, si dovevano saggiare le competenze didattiche, che sono uguali per tutti, e non quelle disciplinari. Rimane un mistero come si possano saggiare le competenze didattiche in abstracto e per di più con una prova scritta. Se in quella occasione le disposizioni ministeriali mi davano ragione e si poté almeno salvare la forma, quella era l’aria che si respirava, una diffusa e interessata svalutazione della specificità dei singoli insegnamenti a favore di un fumoso approccio multi e interdisciplinare, che si rispecchia ancora in quella cosa orribile che sono le cosiddette tesine con le quali si affrontano gli esami di maturità. Insomma, se si vuol riqualificare e dare un senso al latino nella scuola bisogna innanzitutto che chi lo insegna lo sappia sul serio, che sia un autentico latinista e non un laureato in lettere che ha superato un paio di esami di latino, considerato anche che è pressoché impossibile essere respinti ad un esame in una facoltà umanistica. Ma il latino, meno che mai il latino da riportare alla luce sepolto nel nostro passato, non è una lingua  parlata e non è suscettibile di apprendimento con metodi induttivi. Ci si può accostare al testo solo se si ha già familiarità con le strutture della lingua. Credo fermamente che lo studente che opta per gli studi classici debba essere messo in condizione di operare una scelta consapevole e motivata. E a questo punto entra in gioco la scuola media, quella che ha più sofferto delle vicende riformatrici dal dopoguerra ad oggi. Spesso per andare avanti bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro e in questo caso si tratta di recuperare l’idea che la scuola media abbia anche la funzione di incanalare, con tutta la flessibilità possibile, verso diversi percorsi formativi. L’idea non piace ai fautori della poltiglia disciplinare, dell’approssimazione, del tutto a tutti, del guai scegliere precocemente, salvo poi lagnarsi se i nostri giovani escono dalle università senza sapere e senza saper fare niente di niente. La specializzazione, in qualunque campo, richiede tempi lunghi, una disposizione mentale e attitudinale che non si improvvisano e non iniziano mai troppo presto. Ma è difficile farlo capire ai fautori della poltiglia, ai nemici delle differenze per partito preso, perfino di quelle che la natura ci spiattella sotto il naso quali le differenze di genere. I pregiudizi, le costruzioni ideali, le chiacchiere e la retorica non cessano mai di far danni soprattutto in un Paese come il nostro dove sono annidati nella cultura ufficiale. Per concludere: il recupero della nostra identità, della nostra coscienza e del nostro orgoglio nazionali passa attraverso la riscoperta non fuori ma dentro di noi della romanità. Che non intendo limitata ai giovani che intraprendono studi classici e si riappropriano della lingua dei nostri padri; in essi si oggettiva e si rende esplicita la stessa  tensione, lo stesso commune sentire in cui tutti gli italiani si devono identificare. La scuola, certo, risulta decisiva, con una responsabilità speciale per il liceo classico; ma è in tutti i canali formativi, compresi quelli dell’istruzione tecnica e professionale, che deve trovar posto e centralità lo studio della storia nazionale e della tradizione classica, che sarà anche un patrimonio universale dell’umanità, come giustamente si dice, ma è prima di tutto e nella sua vera essenza cosa nostra, radice del nostro essere Italia.

Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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