Dialetto a scuola. Ma quale?

Dialetto a scuola. Ma quale?
La notizia pare d’averla già sentita. Negli ultimi anni un po’ dappertutto si è tornati sulla “valorizzazione del dialetto” e anche la Liguria non è da meno

Dialetto a scuola. Ma quale?

 La notizia pare d’averla già sentita. Negli ultimi anni un po’ dappertutto si è tornati sulla “valorizzazione del dialetto” e anche la Liguria non è da meno: è stato approvato dalla giunta regionale il finanziamento di 20 mila euro per il nuovo bando per l’insegnamento del dialetto nelle scuole della Liguria. Sonia Viale, assessore alle politiche sociali, in proposito ha dichiarato: “Mantenere viva la conoscenza del nostro dialetto significa anche rinnovare la consapevolezza delle nostre radici e delle nostre tradizioni. Promuovere la trasmissione del dialetto ligure alle nuove generazioni, attraverso l’insegnamento in appositi corsi nelle scuole liguri, è importante per fare conoscere la nostra storia ai bambini e ai ragazzi”.

 Ho letto questa nota della Regione Liguria e ho ripensato alle molte chiacchiere sul dialetto, sulla cultura e sulla Storia Locale che mi è capitato di sentire e talvolta persino partecipare. Di per sé, occorre dire, qualsiasi finanziamento alla scuola è benvenuto. Investire nella formazione, nello stimolo, nello scambio a vantaggio dei bambini è sempre positivo. Però ci sarebbe da aggiungere qualcosa.

Il dialetto è destinato a scomparire. Le lingue che in questo mondo globalizzato e tendenzialmente spianato dal mercato scompariranno sono molte di più, il dialetto ligure non farà fine diversa. Inoltre è da tenere conto che non esiste un dialetto ligure. Ne esistono molti, con molte inflessioni, termini gergali o addirittura strutture più simili al piemontese che al ligure (come il valbormidese). Chi conosce un poco il dialetto ricorda che ogni paese ha una sua propria cadenza, e (almeno i vecchi) sapevano riconoscere la provenienza di una persona non appena apriva bocca, distinguendo una frazione da un’altra. Dunque, quale dialetto insegnare?

Non si vuol denigrare nulla, sia ben inteso: il fatto è che i linguaggi, tutti i linguaggi, sono figli dell’uomo che li pronuncia e del lavoro che fa. Qualcuno ha detto che il linguaggio è, a tutti gli effetti, uno strumento di lavoro, come tale può modificarsi, usurarsi, arrugginire, diventare obsoleto.

Il dialetto di Osiglia sarà specifico per certe colture, per certe bestie e per certi lavori di legna, sasso, acqua, terra e neve. Il dialetto di Boccadasse (non so se esiste) sarà adatto per la marineria, il tempo, il pesce, il mare. Eppure sono dialetti liguri. Ora, se nessuno vive più come cent’anni fa, così come il giogo da porre sui buoi per trascinare un carro (a Osiglia), il linguaggio che qui è stato generato finisce come il giogo: nella migliore delle ipotesi in soffitta, nella peggiore a decorare un poggiolo, al massimo in una rassegna voluminosa di reperti di un’altra era, raccolti e accatastati senza ordine e senza motivo, solo perché pittoreschi. E il pittoresco è l’aberrazione, la distorsione della memoria e dunque della Storia.


Per conoscere la propria Storia (contemporanea) non c’è altro da fare che studiarla, con tempo e dedizione, incrociando storiografia, archivi, memorie, statistiche. Certo, comprendendo anche il dialetto, le persone anziane che ancora lo conoscono e lo frequentano, come previsto dal progetto finanziato dalla Regione, ma anche con la consapevolezza che non si può rianimare, riportare in auge, diffondere, un linguaggio (tra tanti) che è destinato all’estinzione. Si può fare, invece, una buona banca dati con registrazioni audio e video delle persone che parlano della loro vita, del loro lavoro in dialetto, proprio con l’intenzione di salvare il più possibile.

Riguardo alla consapevolezza delle nostre radici e tradizioni, l’unico modo per farlo è insegnare ai bambini cose rivoluzionarie, come produrre da sé una parte del proprio fabbisogno alimentare, coltivando un orto, allevando animali di bassa corte, procurando la legna per scaldarsi, intessere buoni rapporti di scambio e sostegno con i vicini, scambiare i semi, raccogliere la frutta, preparare le conserve, il pane, la pasta, il pesce sotto sale, comporre fiori selvatici, altri coltivarli, costruire giocattoli, arredi e stoviglie, riparare oggetti guasti, prestare e farsi prestare libri di poesie, suonare strumenti e cantare (da soli e in coro). Tutte cose che si possono fare in dialetto (ed è meglio) ma anche in italiano, inglese, arabo o cinese. Ma l’ostacolo alla realizzazione di tutto questo è il tempo, non la lingua. Il lavoro assorbe tutte le energie, la manutenzione della casa completa l’opera. Resta giusto il tempo per un poco di televisione e per sentirsi in colpa verso i propri figli, già addormentati (visto che hanno fatto scuola, judo, piscina, tennis e yoga).

 

Il nemico più potente della tradizione è l’attuale modo di vivere, che ci richiede performances sempre più alte. Dobbiamo essere belli, efficaci e guadagnare molto. Dobbiamo avere una casa bella, grande e vistosa, come l’auto. Dobbiamo avere bambini belli, bravi e intelligenti. E soprattutto dobbiamo consumare prodotti e servizi, e per il resto essere inabili a qualsiasi lavoro.

Prima di concludere cambio argomento: Vale la pena citare brevemente anche una notizia positiva dalla Regione Liguria, che ha stanziato un milione di euro a favore delle botteghe dell’entroterra. Tutti i dettagli si trovano sul sito della Regione. A me questa pare un’iniziativa a cui plaudere senz’altro: le botteghe nei piccoli paesi resistono con coraggio all’assalto della convenienza senza pudore dei supermercati, rappresentando di fatto un luogo di aggregazione sociale, di conoscenza, di legame affettivo tra compaesani. Non solo una rivendita, dunque. E in tempi di crisi molte botteghe potrebbero chiudere i battenti. In alcuni paesi, la bottega è l’unico e l’ultimo motivo per cui i pochi residenti possono ancora abitare il loro paese. Speriamo che il finanziamento vada a buon fine!

 Alessandro Marenco

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