Dal lavoro ai lavoretti (come ci siamo arrivati)

DAL LAVORO AI LAVORETTI

(come ci siamo arrivati)

 DAL LAVORO AI LAVORETTI
(come ci siamo arrivati)

 Qualche numero fa ho illustrato un quadro tipico delle traversie che un giovane d’oggi, senza “santi in paradiso”, deve affrontare per cercare di restare a galla nel mare procelloso della globalizzazione. Oggi cerco di mostrare i vari stadi attraverso i quali è passata la nostra società per condurci all’attuale situazione che non esito a definire disperata.

I vari stadi del declino della qualità del lavoro sono il frutto di stratagemmi escogitati da quello che un tempo si chiamava “padronato”, che ha cambiato nome e titolari, per abbattere le conquiste fatte dai lavoratori fin verso la fine degli anni ’70.

 


Henry Ford, avversato per le catene di montaggio, fu però fautore della condivisione degli utili coi suoi dipendenti: più soldi avranno da spendere più prospera sarà la società. Una visione progressista battezzata “fordismo”. Oggi i robot hanno rimpiazzato quegli operai, e la società sta molto peggio

 

Il capitale stava assistendo con raccapriccio alla costante diminuzione della “valorizzazione degli investimenti” –profitti- nell’economia reale e, attraverso stadi successivi, mise in atto la demolizione del benessere generale (welfare), fino agli infimi livelli attuali. L’ideologia guida non era più quella, inaugurata da Henry Ford negli anni ’10 e ’20, del progressivo miglioramento salariale dei dipendenti in parallelo ai successi aziendali, preferendo trasferire gli utili in dividendi per gli azionisti e in speculazioni finanziarie. La regola era diventata quella della massimizzazione dei profitti immediati, tagliando sulla manutenzione e ammodernamento degli impianti e intensificando la produttività soprattutto a spese di occupazione, salari e stipendi (v. grafico più sotto)

 


 

Spiegazione: se facciamo 100 il valore di partenza di Paghe e Classe Media, vediamo, a grandi linee, la discesa di entrambe al procedere dei vari stadi, architettati dal grande capitale.

Fino ai primi anni ’80 i lavoratori erano quasi totalmente italiani e le paghe garantivano un livello di vita soddisfacente per la maggioranza della popolazione.    

Il primo spartiacque, meramente finanziario, si ebbe nel 1981, quando s’innescò la graduale e poi impetuosa transizione dall’economia alla finanza. Fu l’anno dell’ormai famigerato divorzio, nelle segrete stanze, tra Banca d’Italia e Tesoro, con i Titoli di Stato gettati in pasto alla speculazione dei mercati internazionali, anziché godere della protezione garantita dalla Banca d’Italia; che da allora d’Italia lo sarebbe stata sempre meno, meritandosi la spregiativa nomea di Bankitalia.

Il secondo spartiacque si verificò nel 1992, col ricorso in grande stile alle privatizzazioni, in base all’assioma neoliberista che “privato è meglio”. 

I lavoratori cominciavano a pesare troppo sul prezzo spuntabile dei prodotti, così il capitale adottò il primo espediente per non soffrirne troppo: delocalizzare le fabbriche (outsourcing) in Paesi più “benevoli”quanto a legislazione sindacale ed ambientale. Furono gli anni in cui si attuò una poderosa dislocazione di fabbriche verso Est, per poi esportare anche in Italia i prodotti prima prodotti in patria. Di conseguenza, vennero a mancare allo Stato i cespiti dalle relative tasse e contributi previdenziali; mentre, all’inverso, usciva la nostra valuta e cresceva il passivo per le indennità di disoccupazione degli ex dipendenti delle società delocalizzate. Di più, rarefacendosi i posti di lavoro, quest’ultimo diventò più ambito, in quanto gli aspiranti si moltiplicarono e furono disposti a compensi al ribasso pur di ottenere un posto. Cominciò la discesa a ruota libera; e per accelerarla si spalancarono le porte ad un’immigrazione massiccia e incontrollata, col risultato di un mix di lavoratori italiani e stranieri sul nostro suolo, in competizione tra loro. 

 


Chi gestisce una piccola attività, come un bar, un ristorante, un negozio, sa che la maggior voce di spesa è il personale, con tutto il gravame di contributi obbligatori, in aggiunta a quelli del/dei titolare/i. E cerca di contenerne il numero. Le grandi aziende puntano ad eliminarlo del tutto, fino al traguardo di “personale zero”: il concetto non vale solo per le auto senza conducente

 

Il successivo ragionamento fu: perché tenere all’estero le nostre fabbriche con i salari che cominciano a crescere anche lì? Trasferiamo da noi quei lavoratori; tanto, mentre là i salari salgono, qui da noi non fanno che scendere! È questo il fenomeno del reshoring, del ritorno alle natie rive.

Un fenomeno destinato però a cozzare in seguito con un altro, di altrettanta, se non più vasta portata, e cioè il terzo stadio: il rimpiazzo del cervello umano con quello artificiale, computer e robot, per ridurre ai minimi termini colletti bianchi e blu.

A questo punto, mentre robotizzazione e computerizzazione stavano falciando posti di lavoro, si cercava di convincere la gente che “nuovi lavori sostituiranno quelli vecchi, pesanti o ripetitivi, in pari misura”: un controsenso, dal momento che i grandi gruppi non avevano apportato robot e computer per rendere più piacevole la vita ai lavoratori, ma per diminuirne –e alla grande- il numero e aumentare i profitti.

Si era così creato un mondo lavorativo dove vigeva una conflittuale coesistenza di italiani, stranieri e macchine, con queste ultime in vigorosa crescita, sottraendo sempre più spazio agli umani. La beffa, oltre al danno, consiste nel fatto che istituzioni e sindacati continuano ad enfatizzare il tabù, individuale e sociale, del lavoro, mentre per il capitale è ormai il nemico numero uno.

Questa situazione mi ricorda l’alveo di un fiume dove, con l’arrivo della siccità estiva, l’acqua si restringe in pozze sempre più piccole, nelle quali i pesci rimasti lottano per una sopravvivenza senza speranza.

L’ultimo stadio di questo progressivo cappio al collo è stato quello della gratuità di gran parte delle forme di intrattenimento, in particolare cinema e musica, resi disponibili in rete a prezzo zero. Produrre quegli spettacoli e quella musica, però, non è a costo zero; e questo sbilancio si riflette con la contrazione delle occasioni di lavoro in seguito al dissesto delle case di produzione. Quando ci rallegriamo di ottenere qualcosa gratis dobbiamo pensare a quante persone stiamo togliendo il lavoro e a quanto avviliamo queste moderne espressioni artistiche. In più, dobbiamo capire che, quando otteniamo qualcosa per nulla, in realtà stiamo dando noi stessi qualcosa di gratuito: i nostri dati personali, le nostre scelte, i nostri gusti: un piatto estremamente ghiotto per i nostri pelosi “donatori”, che infatti, accumulando ricchezza, sono diventati i più ricchi capitalisti del pianeta, a fianco delle multinazionali e delle grandi banche d’affari. Vi dicono niente nomi come Google, Facebook, Youtube, Apple? O i colossi delle vendite online Amazon, ebay, Alibaba? Provate a lavorare ad es. per Amazon e incontrerete turni massacranti e micro paghe. Se invece pensate di vendere i suoi prodotti online, l’unità di misura dei compensi sarà in centesimi…

 


Un concerto all’Arena di Verona. La musica ha salvato coi concerti i suoi maggiori esponenti. Il cinema non è riuscito a fare altrettanto per combattere la gratuità, ormai data come normale per fruire di opere che, al contrario, sono costate fior di soldi

 

Con tutti i posti di lavoro, più o meno tradizionali, rimasti vuoti, cos’altro resta da fare a schiere di giovani o meno giovani, espulsi da ogni attività lavorativa? Darsi ai lavoretti (gigs nel gergo colloquiale americano), di massima precarietà, senza tutele e sottopagati. È in questo clima di poveracci che hanno potuto prosperare i nuovi colossi della condivisione (sharing), come Uber, Lyft, Airbnb, che hanno fatto proprie iniziative inizialmente lodevoli, per l’alleggerimento del traffico o per arrotondare le magre entrate ospitando in casa un estraneo, per poi risolverle nell’ennesimo sfruttamento di gente prossima alla canna del gas, con un divario ancor più stratosferico rispetto agli utili dei nuovi capitalisti. 

In parallelo, si sono moltiplicate le mini e micro partite Iva, in buona parte finte, ossia contratti di facciata per far risparmiare l’azienda sui contributi, mentre in realtà sono attività dipendenti camuffate da indipendenti. Per non parlare delle varie forme di collaborazione a tempo determinato fino all’estremo dei lavori “a chiamata”, che tolgono alla vita ogni parvenza di programmi e quindi di futuro. 

Con il succedersi dei vari stadi sopra descritti, si è verificato un enorme aumento della produttività, mentre paghe e occupazione marciavano in controtendenza, col risultato di aziende ad altissima intensità di capitale, ossia con pochissimi dipendenti rispetto all’immenso giro d’affari. Il paradosso è venuto alla luce quando alcuni pesci grossi (p. es. Google e Facebook) hanno comprato pesci più piccoli, come Youtube, Instagram e Whatsapp: i rapporti tra prezzi di vendita e addetti sono stati i più alti in assoluto. Per Whatsapp € 345 milioni per ciascuno dei 55 dipendenti! In sostanza, mentre l’azienda ingigantiva, il suo personale diventava lillipuziano. L’anno di distacco delle due curve di produttività e numero di addetti, che sino allora procedevano di pari passo è stato il 2000: dopo quell’anno la curva della produttività è schizzata verso l’alto, lasciando l’altra al palo. 

 

Grafico datato, ma la situazione non è certo migliorata. Le 2 curve superiori indicano la crescita della produttività; quella in basso il tasso di occupazione. Qui tratta del comparto pubblico, ma la situazione è analoga, se non più accentuata, nel comparto privato. E possiamo accoppiare alla curva in basso quello delle retribuzioni. Il divario tra curve inferiori e superiori equivale al crescente profitto del capitale

 

In uno scenario così allucinante, promosso dal ventennio berluscon-piddino, mi duole vedere le piazze che si riempiono di sardine in adorazione di un ragazzotto eternamente sorridente che parla del nulla, o i talk show che si sbracciano in ferventi dibattiti intorno a temi fuori della realtà quotidiana come l’anti-fascismo, l’anti-semitismo e fumoserie simili, mentre sulle loro teste si consolida la vera sfida, ormai quasi persa, tra capitale e lavoro, sfruttatori e sfruttati, creditori e debitori, parassiti e parassitati, finanza ed economia, plutocrazia e miseria. Per non parlare del disastro ambientale, che tanti ciechi fingono ancora di non vedere. Eppure, sento ancora deridere Greta, attribuendole occulti sponsor nel mondo della finanza e del web, che stanno per lanciare il Green New Deal. Smettiamola di demolire ogni buona crociata agitando lo spettro di enormi interessi, che certamente ci sono e cavalcano l’onda; ma non è meglio che si impegnino in opere utili anziché nello sfacelo del pianeta?

Al termine della mia scorsa conferenza sul disagio giovanile, dove ho affrontato i temi di questo articolo, a fronte di tanti complimenti per la mia chiarezza espositiva, qualcuno non ha esitato a dirmi –in sintonia con i proclami dell’amico Sguerso- che i miei discorsi deviano verso la destra estrema, verso il nazismo! Ma che c’azzecca, come direbbe Di Pietro, una puntuale disamina del tragitto verso la tragedia del lavoro zero con il nazismo? Forse s’intende dire che, come il nazismo nacque dalle ceneri del lavoro, in una Germania stremata dalla disoccupazione, il denunciare io una situazione che si avvia verso la stessa direzione, stile Repubblica di Weimar, significa fare apologia del nazismo? 

 


Mattia Santori, promotore delle sardine. Invece di rincorrere ombre del passato e lanciare frusti slogan, il giovanotto dovrebbe preoccuparsi del suo futuro, che è poi quello della nazione in cui vive, con oltre metà della popolazione che vive sulle spalle della minoranza produttiva, per il calo costante dei posti di lavoro

 

Sardine: discorsi roboanti in stile sessantottino. A supporto del governo, però. E poi, giù la maschera, con il “congresso” in uno stabile occupato. E mezza Italia ad applaudire “la fresca ventata di gioventù”

 


Altri giovani assistono a Madrid alla discussione su un tema di ben maggior spessore e concretezza, come il riscaldamento globale. Traspare dai loro volti che c’è ben poco da ridere

 In sostanza, la vera, epocale sfida che ci si para dinnanzi è quella della marcia verso un mondo con pochissimi eletti, in grado di padroneggiare lavori di estrema complessità, in un mare di disoccupati o dediti a lavoretti: i nuovi paria analfabeti. Con l’approssimarsi di uno scenario simile, appare inefficace ogni lotta alle diseguaglianze, come quella sistemica contro il signoraggio, perché il mondo si avvierà comunque verso un’abissale differenza di classe tra i nuovi chierici e una massa plebea, in lotta per la sopravvivenza in una società che la considera esuberante, inutile, pericolosa. Se il lavoro è diventato il nemico numero uno del capitale, significa che anche l’uomo lo è. E non è detto che negli opachi circoli dei think tank il suo sfoltimento non sia già contemplato, o addirittura in atto. Non ho doti di preveggenza, ma i segnali dell’insofferenza verso la presenza stessa dell’uomo, la sua sempre più accentuata emarginazione, dalle fabbriche, dagli uffici, persino dalla guida della sua autovettura, indicano la direzione verso un population crunch. Tramite la natura o in via diretta: i mezzi ormai non mancano.

 

 Marco Giacinto Pellifroni  22 dicembre 2019

 

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