Da via Rasella alle Fosse Ardeatine senza dimenticare gli eccidi del Regio Esercito

Eccidio di Domenikon

Fra le cose più infami commesse da un esercito in guerra, oltre a quella di considerare gli esseri umani bersagli da luna park, ci sono le decimazioni al proprio interno per i casi di insubordinazione, di diserzione o di fuga davanti al nemico e le rappresaglie contro la popolazione civile da parte dell’occupante nei casi di sabotaggio o di azioni di guerriglia. Il primo caso è tristemente documentato soprattutto nella Grande Guerra; ne ho una personale testimonianza nella mia famiglia di origine.  Il secondo è stato pratica comune, del tutto discrezionale o normata – si fa per dire – nel diritto militare, durante la seconda guerra mondiale. Ed è per questo che insistere sul concetto di stragi naziste sia un modo ipocrita per creare un capro espiatorio di colpe che gravano su inglesi, americani, francesi, tedeschi – ovviamente – senza, ahimè, risparmiare gli italiani (e, per carità, non si dica i fascisti perché si tratta del Regio Esercito, che non era propriamente impegnato a distribuire caramelle).  I nostri manuali scolastici indugiano sui gas e le pallottole esplosive in Etiopia ma sorvolano sull’eccidio di Domenikon del febbraio del 1943, quando non una soldataglia allo sbando ma le nostre truppe di occupazione della divisione Pinerolo agli ordini del generale Benelli  dopo un attacco di partigiani a un nostro convoglio che aveva provocato la morte di nove soldati circondarono il villaggio tessalo, lo incendiarono e fucilarono 97 abitanti,   non sazi di averne ammazzati 43 al momento dell’attentato . “Esempio e monito per il futuro” scrisse il generale nel suo rapporto. Insomma, rispetto alla consuetudine di 1 a 10 i nostri ci andarono piuttosto larghi e, quel che più impressiona, nessuno fra ufficiali e gregari fece una piega, tutti convinti di essere nel giusto e di aver giustamente castigato i greci che osavano resistere all’occupante.

Attentato di via Rasella

Una cosa un po’ diversa rispetto all’azione dei partigiani greci quella di via Rasella nella Roma occupata dai tedeschi e sotto la sovranità puramente nominale della RSI.  Il 23 marzo 1944 una quindicina di gappisti, fra i quali spiccano il futuro critico letterario Carlo Salinari, Franco Calamandrei,  che si era distinto da giovane universitario fascista ai littoriali per l’arte e dopo la guerra prima di passare all’Unità sarà redattore del Politecnico di Vittorini, e Rosario Bentivegna, destinato a diventare dirigente medico e figura di riferimento della sinistra italiana, fecero esplodere un bidone carico di tritolo  al passaggio di un reparto non combattente di  altoatesini  del Polizeiregiment Bozen. Trentatre soldati morti  fra quelli saltati in aria e quelli colpiti dalle bombe a mano scagliate dopo l’esplosione e un numero imprecisato di feriti, e, come danno collaterale, una  dozzina di malcapitati romani  feriti e due morti, uno dei quali un ragazzino di dodici anni.

Inevitabile, e prevedibilissima, la rappresaglia, che portò alla fucilazione dentro le Fosse Ardeatine di 355 italiani, scelti affannosamente con i criteri più disparati, nessuno dei quali coinvolto direttamente o indirettamente con gli autori dell’attentato. Un attentato dal valore puramente simbolico, di nessun effetto politico o men che mai militare che valse ai suoi organizzatori ed esecutori medaglie al valore e la morte  di 355  incolpevoli romani e forse qualche notte insonne turbata dai fantasmi di Salvo D’Acquisto e del ragazzino romano.

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A guerra finita, al momento della resa dei conti, nessuna corte internazionale si fece carico della condanna dell’atrocità commessa dalle autorità germaniche, da chi aveva  ordinato  e da chi aveva eseguito l’orribile strage di cittadini italiani, ritenuta legittima come rappresaglia col consueto surreale rapporto uno a dieci. E proprio attaccandosi a questa assurdità fu possibile a un tribunale italiano imbastire un processo per strage grazie all’errore di calcolo che aveva fatto levitare di cinque unità le vittime. Riguardo alle quali mi preme osservare  che ai tedeschi della circostanza che esse fossero antifascisti o comunisti non gliene importava nulla. I tedeschi volevano in prima istanza colpire i responsabili diretti dell’agguato e ove questo non fosse stato possibile intendevano  rifarsi sui loro complici veri o presunti, eliminando con l’occasione qualche ebreo e, se non fossero bastati, erano disposti ad attingere ai detenuti per reati comuni. Stando così le cose è lecito far passare la rappresaglia per una strage nazista ai danni dei patrioti antifascisti? Non mi interessano le supposizioni su faide interne ai compagni (tipo quella di chi voleva che Gramsci uscisse di scena), osservo solo che col criterio della rappresaglia applicato dagli italiani in Grecia o dagli stessi tedeschi in altre circostanze il comando tedesco si sentiva in diritto di punire in modo esemplare tutta la città come monito per i terroristi. “À la guerre comme à la guerre”, pensavano, e poi, si sa, gli ordini quando si indossa l’uniforme non si discutono e in questo caso pare che l’ordine venisse direttamente dal Führer. Lungi da me l’intenzione di attenuare la responsabilità di Priebke o di Kappler: secondo me gli ordini si discutono eccome e proprio perché se si indossa l’uniforme si deve essere disposti al sacrificio piuttosto che rendersi colpevoli di un crimine.
Insomma, la retorica dei compagni (uccisi perché antifascisti) e la reticenza della Meloni (“innocenti massacrati solo perché italiani”, ha dichiarato, chissà cosa intendeva) sono due facce della stessa medaglia e se devo scegliere trovo più ripugnante proprio quella della Meloni, Perché il vero crimine è la guerra, che va sempre condannata. La guerra non è un gioco, un torneo, una sfida cavalleresca:  è il ritorno alla barbarie, alla ferinità, è la perdita di ogni senso di umanità: guerra è il conto dei morti ammazzati, dei ragazzi bruciati dentro un tank, polverizzati da una granata, fatti a pezzi da una mina antiuomo e guerra sono ubriachi con le mostrine a stelle e strisce che giocano a palla con le teste di vietnamiti, marocchini liberi di stuprare uomini e donne di ogni età come ricompensa per i sacrifici sopportati, soldati ucraini che sparano ai prigionieri fatti sdraiare per terra. Nel secolo del politicamente corretto non si può chiamare cieco un cieco né negro un negro ma si può impunemente dileggiare il pacifismo, come se fosse un’opzione fra tante e non l’unica posizione razionale.

Al generale prussiano von Clausewitz andrebbe conferito alla memoria il Nobel dell’idiozia per aver affermato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi: la guerra è la fine della politica, la sospensione della civiltà e di ciò che intendiamo per umanità: i bombardamenti a tappeto degli angloamericani sulle nostre città per distruggere il morale degli italiani e indurli ad odiare il loro governo sono un crimine pari a quello delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki; il famigerato Unabomber che terrorizzò il Veneto era solo un emulo degli stessi alleati che paracadutavano giocattoli esplosivi: chi scrive ha ancora impresso nella memoria i moncherini di ragazzini che non avevano dato ascolto ai moniti provenienti dai manifesti che tappezzavano le città .
Con sublime ipocrisia  e assoluta malafede un ospite fisso delle reti Mediaset ebbe a dire qualche sera fa che la posizione dell’Italia sulla guerra è ininfluente e pertanto non ha senso prendersela con il bellicismo di maggioranza e opposizione. Niente di più falso: se il governo italiano si smarcasse dalla guerra provocherebbe un effetto domino, metterebbe in crisi la Nato e darebbe la stura ad una mobilitazione dell’intera Europa dei  popoli, che nessuno ha mai consultato su sanzioni o invio di armi.

Generale Von Clausewitz

 Bruxelles, Strasburgo, Francoforte sono luoghi di un potere fittizio, del tutto privo di consenso popolare, retto solo dalla distanza  e dall’assenza di qualsiasi tipo di feedback e di controllo da parte dei cittadini-elettori. Troppo comodo l’alibi ripetuto dalle nostre parti: “noi facciamo come gli altri”, “noi rispettiamo le alleanze”, fino allo sfrontato “la nostra democrazia e la nostra libertà sono in pericolo”. L’Ucraina, per fortuna, non fa parte dell’Ue né della Nato, quindi il pretesto del vincolo delle alleanze non regge. La Nato non è nata come  gendarme del mondo né per agire sulla base di presunti criteri morali: se, di fatto, è uno strumento dell’imperialismo americano, di diritto è un’alleanza militare difensiva che si attiva nel caso in cui uno dei suoi membri venga aggredito da un nemico esterno. Stop. Nessuna giustificazione se non quella del proprio personale tornaconto  di chi manda armi e boicotta  i tentativi di porre fine alla guerra in nome di una pace “giusta”, vale a dire che rispetti l’integrità del sacro suolo dell’Ucraina, libera di riprendersi la Crimea regalatale da Krusciov e di continuare il tiro al bersaglio sul Donbass.
E le anime belle la cui esistenza è guidata dai “valori” ricordino che la Pace è il valore supremo della nostra identità culturale e che i primi a rivendicarlo furono proprio gli antichi romani, rappresentati da una storiografia vittima di luoghi comuni come un popolo guerriero che finisce per perdere  se stesso quando dismette le armi e infiacchisce.

Un popolo in armi non è un popolo che si diverte con le armi:  semmai con le armi in pugno conquista e difende la propria pace continuando a considerare la guerra una calamità né voluta né cercata. Detto questo, si vergogni la Meloni e si vergognino i baciapile diventati improvvisamente sordi alle parole del Pontefice, si vergognino  e quando si pongono davanti alle tragedie del passato come quella delle Fosse Ardeatine invece di sguazzare nella melassa della retorica ricordino che il vero responsabile non sono le ideologie, singoli individui perversi o popoli accecati dall’odio e dalla paura ma la guerra che recide il filo della civiltà.

Pierfranco Lisorini

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