Da cosa nasce il successo di due libri mediocri

Da cosa nasce il successo di due libri mediocri
Se delusioni e tradimenti risuscitano l’amore perduto

Al romanziere che prende il posto dello storico non bisogna chiedere veridicità: questo dicono i benpensanti. Lui corre dietro la propria fantasia e legittimamente la sua creatività si sostituisce ai fatti.

Non è vero. È esattamente il contrario: il romanziere fa quello che l’anonimo manzoniano non riuscirebbe mai a fare: “prendere i secoli già fatti cadaveri e rimetterli di nuovo in battaglia”; non s limita a una semplice cronistoria del passato, non ne è, come lo storico, il becchino o il perito settore ma l’evocatore che gli infonde nuova vita. Il romanziere, quello vero, coglie l’anima del tempo ed entra dentro i personaggi, li rianima, porta alla luce la loro umanità, va oltre i gesti irrigiditi o le frasi fissate, oltre le stereotipie e le ingessature.. Il romanziere va oltre lo storico, non deforma la storia ma la invera.

L’uno e l’altro. lo storico e il romanziere, si propongono di intueri, di “vedere dentro” ma il primo usa la ragione e restituisce ai fatti senso e coerenza l’altro coglie umori sentimenti e stati d’animo , in una parola restituisce la vita e non soltanto il senso.

Ho davanti a me due libri che si aggiungono alla sterminata letteratura sul Duce e sul fascismo, il saggio storico di Guerri e la biografia di Mussolini scritta da Scurati. Confesso subito che non ce l’ho fatta a leggere per intero nessuna delle due opere, accompagnate entrambe da grandi squilli di tromba. La seconda, più direttamente spinta dal mainstream continua a godere di maggiore successo editoriale ed è forse anche per questo oggetto di velenosi rilievi da parte dell’autore della prima.. Entrambe si fregiano di titoli suggestivi e pretenziosi ma anche fuorvianti :Benito, storia di un italiano il saggio storico M, il figlio del secolo il romanzo.

Guerri promette la storia di un italiano, lasciando intendere che avrebbe portato alla luce quanto nella vicenda umana e politica di Mussolini riflette lo spirito del tempo o il destino di una generazione; come se, detto più banalmente, il personaggio del Duce corrispondesse allo stereotipo dell’italiano medio. Scurati, dal canto suo, lo considera un figlio del secolo. All’uno e l’altro sfugge l’eccezionalità del personaggio, che se proprio deve essere racchiuso in una formula dovrebbe piuttosto essere definito l’antitaliano in un caso e nell’altro un sovvertitore del secolo. Si parte male, insomma.

Allo storico di norma attengono giudizi di fatto non giudizi di valore. Quelli se li poteva permettere Tacito dall’alto di una statura morale ineguagliabile; tolto lui l’approccio valutativo fa dello storico un falsario che immette nella ricostruzione storica i parametri di cui egli stesso si avvale nel presente, nella dimensione contingente della sua personale esperienza (e del suo personalissimo tornaconto), come accade nel servilismo della storiografia di regime che scivola verso l’agiografia. Guerri è il narratore che di tanto in tanto fa capolino di persona ed esprime i suoi giudizi, come quando, facendosi interprete del presente,sullo squadrismo scrive:“La nostra condanna è unanime e senza attenuanti”, o attribuisce a Mussolini contro ogni evidenza sentimenti di invidia verso D’Annunzio o Italo Balbo o, peggio ancora, tenta goffamente di sminuire l’importanza della sua risposta all’assassinio di Dollfuss, che fu in realtà un colpo micidiale per Hitler, o della sua derisione della presunta razza ariana (derisione di cui non c’è traccia nella politica francese o inglese).

C’è poi da dire che altra cosa è la biografia altra cosa è lo studio rerum gestarum: sono due approcci diversi che necessitano di strumenti e documentazioni differenti. Se li mescoli ne viene fuori un racconto incoerente senza capo né cosa che la dovizia dell’apparato fotografico non basta per tenere insieme
Più coerentemente centrata sull’uomo e dal punto di vista dell’organizzazione interna più equilibrata è l’opera di Scurati, che però non tratta del Duce ma della sua caricatura, una macchietta col mento in fuori costruita mettendo insieme una serie di luoghi comuni e non prova nemmeno a calarsi nel personaggio, , come fa qualunque autentico biografo, per rivelarne aspetti rimasti nell’ombra. Ma per farlo, oltre che acume, ci vogliono studio, umiltà e curiosità.

Ma non è mia intenzione recensire libri, tantomeno stroncarli. Mi limito a constatare che al di là delle qualità dei singoli, il clima culturale non consente una seria e spassionata rivisitazione del passato. In qualunque campo, artistico, letterario, scientifico, sono il destinatario, il fruitore, il pubblico potenziale a chiudere il circuito di retroazione della creatività. Se manca si viene meno al monito di Matteo: “non date le cose sante ai cani e non gettate le perle ai porci”. Il predicatore non ha senso senza qualcuno che lo ascolta, e come il capo o l’artista di genio si afferma se qualcuno lo stava aspettando ed era pronto a riconoscerlo, altrimenti è solo vox clamantis in deserto . Non mi sorprende l’inutilità, la superficialità, la tendenziosità della produzione letteraria italiana: mi sorprenderebbe il contrario. Dai tempi di De Felice la società italiana è cambiata e non in meglio. Le istituzioni culturali, l’accademia, la politica sono scivolate su un terreno molliccio nel quale le idee smottano senza mettere radici.

La pretesa di accostarsi a Mussolini con l’improntitudine di un maestrino non porta lontano come non porta lontano un approccio nostalgico o antifascista. Ci sono dei prerequisiti, serietà e spregiudicatezza, dai quali non si può prescindere. Senza di essi non ci si accorge che il fascismo è una scatola vuota: cessato il suo ruolo di interprete e braccio di quella parte maggioritaria della società italiana spaventata dalle violenze anarchiche e dalle smanie rivoluzionarie dei comunisti da salotto può essere riempita dal futurismo, dal reducismo, dal dannunzianesimo, dal patriottismo risorgimentale, dall’attualismo gentiliano, può essere spostata di volta in volta verso destra o verso sinistra,il suo contenuto è progressista, conservatore o reazionario,popolare o borghese, pragmatico o visionario. Ma sono la visione politica, la lucidità, la credibilità del Duce che hanno fatto la fortuna del fascismo, non viceversa, e hanno dato al fascismo una consistenza e una coerenza che non gli competono e giustificano la risonanza e il successo del regime in Europa e nel mondo.

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Churchill, tanto per fare un esempio, reduce nel gennaio del 1927 dall’incontro con Mussolini, col quale fra le altre cose aveva concordato la pubblicazione delle sue memorie di guerra sul Popolo, nella successiva conferenza stampa presso l’ambasciata britannica si era scagliato contro gli “appetiti bestiali del leninismo” e aveva riconosciuto che “il fascismo – cioè il Duce – aveva reso un servizio al mondo intero fornendo l’antidoto necessario al veleno russo”, suscitando le vibrate proteste dei laburisti, sensibili alle ragioni del fuoriuscitismo. Un’ammirazione, quella di Churchill per Mussolini mai venuta meno, ribadita nel 1933 alla Lega antisocialista britannica durante la quale lo definisce “il più grande legislatore vivente”.

Ma al di là del personale carisma e della versatilità che il regime sfruttò per farne l’incarnazione del superuomo, penso che un uomo politico e uno statista che riscosse il rispetto, la stima, l’ammirazione di tutti – tutti – i capi di Stato e di governo contemporanei e della stragrande maggioranza degli uomini di cultura dell’epoca possa legittimamente essere odiato ma non messo in burletta né essere oggetto di benevoli sorrisetti. Altrimenti si scade al livello di quanti il giorno prima (fidando magari nel raggio della morte che avrebbe rovesciato le sorti del conflitto) gremivano il Teatro Lirico per il suo ultimo discorso e il giorno dopo orinavano sul suo cadavere.
Insomma né l’uno nell’altro hanno reso un gran servizio alla storia. Uno del tutto anodino, che non aggiunge una virgola a quanto è già stato scritto, l’altro, soprattutto nella sua trascrizione filmica, una pochade accattivante che ha fatto straparlare qualcuno di capolavoro ma che non sfiora nemmeno il personaggio o la personalità del Duce. Eppure l’eco che hanno riscosso, del tutto sproporzionato rispetto al loro valore, è un segno importante del disagio che percorre la società italiana, e non solo quella. So per certo che le persone anche se considerate di buona cultura, anche se occupano posizioni di rilievo, e mi spingo a dire perfino se occupano una cattedra universitaria, del ventennio fascista non sanno nulla. Lo stesso filo della memoria familiare col passare delle generazioni si è ormai spezzato. Quel che rimane è una categoria dello spirito inventata di sana pianta, uno stereotipo che serve a dare un senso al vuoto mentale oltre che cognitivo di tanti, soprattutto giovani e studenti, che non sono in grado di colmarlo perché non riescono a incidere sulla realtà. Ma c’è qualcosa che circola indipendentemente dalle conoscenze, dalla capacità di rispondere a domande come quelle che gli inviati di Striscia rivolgono ai parlamentari per saggiarne l’ignoranza. È vero: l’italiano medio non sa che la giornata di otto ore non è una conquista sindacale, non sa che Inail e Inps nascono nel 1933 con la “f” nel mezzo, forse non sa della rivoluzione ferroviaria della “Littorina” o è all’oscuro dei primati in campo navale e aeronautico. Si sorprenderebbe delle città costruite in meno di un anno o dell’estirpazione della mafia o del ruolo di grande potenza che l’Italia aveva acquisito (per perderlo rovinosamente durante la guerra). Ma la memoria della brusca metamorfosi di una società lacerata da una feroce conflittualità sociale rimane. Una società che era stata solo sfiorata dalla versione giolittiana della belle époque servita solo ad accentuare il divario fra una ristrettissima élite e una maggioranza segnata da un’estrema povertà, terreno fertile per un anarchismo senza prospettive e un socialismo velleitario risucchiato dal bolscevismo, e che nel giro di pochi anni si scopre patriottica, solidale, ottimista. Qualcosa di sorprendente che nemmeno De Felice ha saputo cogliere e spiegare ma che si avverte nella pubblicità, nei rotocalchi, nella moda, nel cinema, nelle canzonette e che ebbe anche un risvolto negativo perché l’unanimismo, il consenso plebiscitario e la fiducia acritica nel Capo finì per spingerlo oltre i limiti che la prudenza gli avrebbe imposto. L’italiano medio non ha gli strumenti per valutare tutto questo all’interno di una cornice storica perché la scuola non glieli ha forniti né poteva fornirglieli considerata la qualità del corpo decente. E tuttavia nella memoria collettiva nonostante l’ignoranza fattuale, nonostante la retorica resistenziale, nonostante le professioni di fede antifasciste, rimane sedimentata l’idea di un Paese sicuro e ordinato, rimane il ricordo di quella improvvisa pacificazione.

C’è chi avverte in tutto questo l’attesa dell’Uomo forte a cui affidarsi; personalmente mi sembra una sciocchezza che cozza contro non dico il carattere nazionale – concetto discutibile al quale non do alcun credito – ma un insieme di elementi costanti nella società italiana, in primis uno spiccato individualismo e una spiccata insofferenza verso l’autorità. Credo invece che quella memoria, e quel rimpianto, si riferiscano non alla Guida, al Condottiero, a uno che deresponsabilizza perché si fa carico delle responsabilità di tutti, ma all’efficacia e all’efficienza di un sistema che garantisce quello che è dovuto al cittadino in quanto tale: salari coerenti con le necessità della vita, tasse eque, strade sicure, scuola rigorosa, ospedali che funzionano. Si è fatta strada la convinzione che lo Stato si sia progressivamente sgretolato e si finisce per smettere di guardare avanti per cercare nel passato motivi di rimpianto e voglia di un’impossibile restaurazione.

Le avvisaglie si sono viste con i richiami a Berlinguer, a Berlusconi, a Craxi, alla stessa Dc del dopoguerra; tutti surrogati, tutti modi per avvicinarsi al vero motivo di rimpianto, alla nostalgia che col passare del tempo permea sempre più la società italiana. Una nostalgia irrazionale perché non sostenuta dalla coscienza critica, inconfessata e inconfessabile, all’origine del distacco dalla politica e in piccola parte responsabile del consenso altrimenti inspiegabile di cui gode la Meloni, delle speranze malriposte in Salvini, del successo editoriale di Vannacci; tutti modi pudichi per esprimere quel sentimento che per l’appunto hanno sapientemente sfruttato Guerri, Scurati e i padroni di Sky: un legame erotico che non si è mai rotto, alimentato dal desiderio di un mondo migliore, di una sorta di paradiso perduto nel quale oltre il benessere materiale si possa amare il presente, vivere la vita e progettare il futuro con ottimismo e fiducia: qualcosa che somiglia alla felicità. Ingenuità, infantilismo di massa, forse; di sicuro disperazione.

Pierfranco Lisorini

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