Conversazione d’omaggio a Cesare Pavese

Da A’ CIVETTA Periodico di Celle Ligure. 
E’ in edicola il numero 40

 CONVERSAZIONE D’OMAGGIO A CESARE PAVESE nel 70° della morte

Da A’ CIVETTA Periodico di Celle Ligure.

 Avvenimenti storici, aneddoti, proverbi, curiosità, aforismi, profili, elzeviri, spigolature, indiscrezioni, ‘chicche’

CONVERSAZIONE D’OMAGGIO A CESARE PAVESE

nel 70° della morte

 

Pavese a Celle di Giorgio Siri

Cesare Pavese (1908- 1950) è stato ed è uno dei casi più problematici ed interessanti della letteratura italiana. Personaggio che sfugge alle etichette, animo tormentato, tanto che la sua fine, anch’essa letteraria pur nella sua tragicità, facente parte dell’essenza della sua vita, è, come si sa, segnata dal suicidio; la fine di un uomo provato da se stesso e dalla sua opera di apparente immediato approccio, in realtà di esclusiva complessità. Ebbene gli esordi di questo personaggio chiave della letteratura italiana del ‘900, sono distantissimi da ciò che verrà riflettuto in “Dialoghi con Leucò” o in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, sono gli esordi di un ragazzo che non testimonia ancora il “disagio di vivere”, che sarà un marchio della sua futura narrativa e sono esordi che, a quanto pare, sono iniziati nella nostra Celle, nel 1922, in occasione di un soggiorno di dodici giorni, col gruppo di scout di cui faceva parte: il “Riparto II – La Salle”, fondato dai Fratelli delle Scuole Cristiane dell’Istituto “La Salle” di Torino. Di tale breve periodo di vacanza, Pavese lasciò un diario, dal titolo “Dodici giorni al mare”, forse la sua prima prova letteraria, che venne ritrovato da Mariarosa Masoero, una studiosa di Pavese fra le più competenti. Il diario “balneare” di Pavese appare lo scritto di un ragazzo entusiasta e curioso, che spesso riferisce dei pasti e delle merende che il gruppo in escursione consuma con appetito, illustrandoci così un po’ della vita e delle abitudini di allora. Eppure nelle pagine di uno scrittore ancora “in erba” già si colgono i tratti di una futura personalità di autore, le sfumature di sensibilità di chi aveva già letto Melville, di cui sarà poi anche un traduttore e, dalle colline del Piemonte, sotto tali suggestioni, si era fatto un’immagine del mare. Il diario è conservato, in duplice copia, una “brutta” a matita ed una “bella” a penna “ad inchiostro nero”, negli archivi del Centro Universitario per gli studi di Letteratura Italiana in Piemonte “Guido Gozzano – Cesare Pavese” ed è stato pubblicato, per la prima volta, a cura della professoressa Masoero, nel 2008.

Cenni sul pensiero “istintivamente” giuridico di Cesare Pavese dell’Avv. Massimo A. Chiocca

 

Traggo da “La casa in collina” il romanzo di Cesare Pavese edito da Einaudi nel 1948. Ci sono giorni in questa nuda campagna che, camminando, ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi.

Qui la guerra mi ha preso e mi prende ogni giorno.

Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi svegliano.

Lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tiene noialtri inchiodati a vederli, a ri- empircene gli occhi. Ogni morto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.

Dopo aver sparso il sangue del nemico, bisogna dare una voce a questo sangue, perché, altrimenti, chi lo ha sparso non si giustifica.

*

 

Sappiamo che Pavese non si nega – in modo particolare in quest’opera – alla descrizione di sé stesso: anzi nella vicenda di Corrado egli (ri) vive la propria storia personale.

Corrado è un professore di Torino, è un “intellettuale”. Un ruolo che sembra quasi una condanna; un anti-eroe per definizione, che rifiuta ogni parte attiva nella guerra; la guerra, che è morte e desolazione, dalla quale Corrado rifugge, guadagnando riparo in un monastero.

I rimorsi del protagonista, per la sua manifesta inettitudine all’azione, cercano nell’isolamento, ma senza riuscirvi appieno, una salutare purificazione.

Per i morti, infatti, la fine ha un senso, per quanto assurda sia la guerra; per Corrado, la guerra nei confronti della vita, invece, non cesserà mai. Come tragicamente sappiamo. Forse perché “per tutti la morte ha uno sguardo”.

Il rifugio dell’uomo – tormentato incessantemente dalla propria coscienza, la quale giudica più di ogni altro essere umano – è una tematica che accosta Pavese al pensiero di Carl Schmitt, il più studiato giurista tedesco di diritto pubblico del secolo scorso [nota 1: nato e morto a Plettemberg: 1888 – 1985].

L’accostamento potrebbe, a prima vista, sembrare avventato.

Carl Schmitt, avendo professato fede nazional-socialista ed avendo sostenuto il III Reich, rischiò di essere tratto, anche lui come imputato, a Norimberga [nota 2: studiatissima è la definizione di Hitler, nel 1934, quale “Oberster Gerichtsherr” – Giudice Supremo – dopo il massacro di Rohm, il capo delle “SA”, e dei suoi accoliti].

Per due anni tra il 1945 e il 1947 nella “vastità di un’angusta cella” – come scrive nell’opera “Ex Captivitate Salus” – La salvezza della prigionia – anche Schmitt fa i conti con se stesso e con l’intera sua epoca.

Un’epoca connotata da un potere di dominio e da una volontà di annientamento, con forme e modalità mai prima accadute o riscontrate.

In questa sua analisi storica, i vent’anni che lo dividono da Pavese, nato nel 1908, non appaiono rilevanti affatto. 

*

Dunque, l’ultimo rifugio, scrive Schmitt, non può che essere la preghiera. Anche Corrado, nel chiuso del monastero, ha tempo per inter- rogarsi su fede e religione [nota 3: l’esperienza della reclusione la si trova anche nell’opera Il carcere del 1938].

“Entrai qualche volta da solo in cappella, nel freddo buio mi raccolsi e cercai di pregare; l’odore antico dell’incenso e della pietra mi ricordò che non la vita importa a Dio, ma la morte. Per commuovere Dio, per averlo con sé – ragionavo come fossi credente – bisogna aver già rinunciato; bisogna esse- re pronti a spargere sangue. Pensavo a quei martiri di cui si studia al catechismo. La loro pace era una pace oltre la tomba, tutti ave- vano sparso del sangue. Com’io non volevo. Volevo essere buono per essere salvo”.

È nel tormento, attraverso la preghiera – scrive da parte sua Schmitt – che riconosciamo Dio e Lui ci riconosce. È una via segreta, che conduce alle molte forme del tacere e del silenzio, ma anche alla speranza di un risorgimento.

*

 

Sarebbe tuttavia riduttivo, ed anche scontato, fermarsi a questa prima similitudine: infatti, ogni volta che avanza il bisogno di riconnettersi interiormente, si ricorre – direi naturalmente – al confronto con sé stessi.

Un dialogo che ci conduce e ci unisce prima di tutto agli altri, mediante un filo invisibile; “l’altro” – che non è “l’estraneo” – è colui con il quale condividiamo la tragedia della vita e della morte. Ogni tentativo di gettarsi “fuori dal sé” si scontra infatti con i limiti della natura [nota 4: marchiato di tracotanza – “hybris” – è chi aspiri ad andare oltre, eccedendo la

“giusta misura” (Katà Métron), come insegna il mito di Prometeo].

Il nostro Dio – prosegue Schmitt – non fu lapidato, né decapitato. Morì la morte degli schiavi, la crocifissione.

Perché (sì che) non aveva colpe, ma non aveva diritti.

Così, morendo, ha somigliato esattamente “a chi resta” – come dice

Pavese – e ogni giorno, nel nostro intimo, ci domandiamo il motivo di quella feroce, disumana, esecuzione.

È il Cristo che ce ne chiede la ragione. Una raffigurazione del Dio in- carnato che ci tormenta; esattamente come i morti di guerra – riferiti da Pavese – perché “siamo inchiodati a vederl[o]”, “a riempircene gli occhi”. Seconda similitudine.

*

Anche il pensiero di Corrado, già intriso di dubbi sui sacrifici da dedicare a Dio, non poteva non cadere, alquanto terrenamente, sui “morti repubblichini”, ai quali si sarebbe dovuto “dare voce”. In aperta sfida contro l’imperante Intelligencija del PCI di allora, il quale partito, d’altronde, si “smarca” da Pavese nel 1950 (l’anno della sua morte – come sappiamo).

Altrimenti l’azione di chi aveva “sparso quel sangue” non avrebbe trova- to legittima giustificazione, non bastando a ciò, certamente, il folle teatro della guerra.

Non tanto, tuttavia, per “ragioni ideologiche”, o banalmente “politiche”, come si sarebbe portati a credere, quanto per ragioni giuridiche, che evidentemente allignavano per istinto naturale (non oso dire inconsapevolmente) nel Nostro.

Vengo, quindi, alla terza similitudine.

Sul significato della violenza e della guerra il Maestro di Plettemberg – Schmitt – già aveva scritto pagine importanti nell’opera, del 1922, Die Diktatur – La dittatura.

Egli era giunto alle seguenti considerazioni:

(a) che il detentore del potere assoluto lo eserciti anche senza osservanza rigorosa dei “limiti costituzionali”, soprattutto per quanto riguarda la violenza e la sua massima espressione che è la guerra;

(b) che, nelle moderne tendenze politiche, sussista un orientamento ideologico diretto all’esaltazione della dittatura, ossia all’uso concreto del potere assoluto, quale principale risorsa di (auto) legittimazione;

(c) che tre siano gli indizi rivelatori di ciò: “razionalismo”, “tecnicità” e “supremazia dell’esecutivo” rispetto ad ogni altra istituzione. Pavese percepisce l’orrore dell’ambivalenza della guerra, che è poi l’ambivalenza del potere: il “potere” è premuroso e rassicurante – da una parte – assumendo le responsabilità della risoluzione dei problemi collettivi; ma che – dall’altra – è sempre pronto a trasformarsi in odiosa tirannide, producendo condizioni di indeterminatezza ed imprevedibilità insostenibili e pericolose per la stessa stabilità sociale.

La guerra, dunque, come manifestazione di un “procedimento legale”; ove la pena è inflitta non a chi ha “meno diritto”, ma a chi ha “più forza”. Dove non già la forza è al servizio del diritto, ma il contrario: il diritto al servizio della forza.

Ecco il monito finale di Corrado – che è intriso di fortissimi fondamenti giuridici: anche i vincitori devono accettare il limite del diritto.

Già l’arrogante ambizione di assumere il posto di Dio, scegliendo cosa è bene e cosa è male, sta all’origine del peccato e ha consegnato all’umanità il dramma dell’esistenza. Non possono, quindi, i vincitori, avere la pretesa di essere legislatori, giudici, esecutori: perché nessuna garanzia offrirà mai la guerra sul fatto che, dopo la vittoria, la sanzione, allo sconfitto, sia stata inflitta a chi aveva torto, e giustamente.

Non è viltà. Corrado è umiliato perché sa consapevolmente che “al posto del morto potremmo esser[ci] noi” e che “se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato”. Dunque, assoluto rispetto per l’etica del limite.

In correlazione, anche Carl Schmitt fonda tutte le sue costruzioni giuri- diche partendo da concetti negativi; ma – precisa – rientra proprio nella natura di tali concetti svolgere la funzione che disveli, nel massimo grado, la “giuridicità” dei rapporti.

La violenza al di fuori del diritto sarebbe un qualcosa che inquieterebbe, ancor più che quel cadavere: in discussione verrebbe, altrimenti, l’esistenza stessa del futuro assetto sociale e costituzionale. Tuttavia l’etica del limite – nonostante la lucida esortazione di Pavese – appare oggi un modello epistemologico e comportamentale storicamente lontanissimo.

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