Contro il presidenzialismo
Non mi piace la retorica della Costituzione italiana come “la più bella del mondo”. Le Costituzioni si misurano per l’efficacia, la giustizia, il valore; non per la bellezza.
E c’è anche da dire che la Carta attuale non è più quella del ‘48, sfigurata ormai da troppe modifiche, quasi tutte peggiorative, susseguitesi nel corso dei decenni – ultima e forse più pericolosa di tutte, la riduzione dei parlamentari.
Si può parlare di bellezza per il linguaggio: ma anche qui, se il dettato originale era (ed è, ove non sono intervenute modifiche) limpido e raffinato, la veste attuale è scesa, in molti punti, assai più in basso.
Detto questo, i cambiamenti al testo sono ovviamente legittimi; e io stesso, anche per rimediare a certi guasti, talora interverrei. Il guaio è che interverrei ove pochi vorrebbero intervenire (riaumentando il numero di deputati e senatori, difendendo se non accrescendo la presenza dei senatori a vita, differenziando le funzioni delle Camere sull’esempio britannico, abolendo del tutto non solo la riforma del Titolo V ma l’esistenza stessa delle Regioni) e non dove sembrano puntare le energie dei legislatori attuali, specialmente di maggioranza.
Trascurando ora il tema dell’autonomia differenziata, che disapprovo completamente, proverò ad articolare qualche riga contro un’altra ipotesi: la riforma presidenziale, o semipresidenziale, che sarebbe (vedremo poi) financo peggio.
Premetto che vi è, all’origine del mio discorso, una spiccata e durevole antipatia contro il meccanismo caro invece all’attuale Presidente del Consiglio, che si adopera per introdurlo nel nostro schema istituzionale; così radicata, la mia antipatia, che, se avessi la bacchetta magica, farei sparire il presidenzialismo da ogni angolo del globo ove sia presente, inclusi gli Stati Uniti americani e la Francia. Che però sono, certamente, grandi nazioni democratiche: ma perché, parlando di presidenzialismo, non si considera come a tale sistema afferiscano per esempio la Russia o la Turchia, non propriamente Paesi affidabili o in cui si vivrebbe con sicurezza di cittadino? Oppure Stati fortemente instabili quali l’Argentina o il Perù? O come stabile e sicura sia invece la Germania, paese a regime parlamentare in cui i Governi sono durevoli e solidi?
Ma non ho, forse per fortuna, poteri simili; e mi limiterò dunque a difendere il sano parlamentarismo italiano. Con un argomento, peraltro, di natura generale: a che cosa serve la figura del Capo dello Stato, Re o Presidente che sia? A fissare un baricentro del sistema, un punto di riferimento, una rappresentanza della nazione riconoscibile (e possibilmente apprezzabile) da tutti, cui stringersi e a cui guardare.
Ora: può – primo punto – una figura simile essere mischiata con le attività di governo? No, a mio parere: deve mantenersi al di sopra delle parti, perché altrimenti, specie in una società fortemente polarizzata come quella italiana, la sua legittimità come custode della Carta sarà sempre messa in dubbio da quasi metà della cittadinanza.
Ma se sovrapporre i ruoli di Capo dello Stato e Capo del Governo determina una minore rappresentatività del primo, figura cui da decenni, a prescindere da chi la incarni, va la maggior fiducia dei cittadini italiani, tanto più appare insensato – secondo punto – individuare simile figura tramite il suffragio popolare.
Chi occupa un ruolo per effetto del voto può ben dire che cercherà di interpretare l’anima dell’intera comunità, e magari anche sforzarsi davvero di farlo, ma sarà sempre gravato – specie in Italia, ove sospettiamo tutti ipso facto di doppiezza – dal peso della sua parte di provenienza; e sarà portato o a favorirla in eccesso o a volgersi, per sembrare imparziale, contro di essa: in ogni caso, scontentando tutti. Tanto più se avesse anche un ruolo esecutivo e non solo rappresentativo. (Perciò, sia detto fra parentesi, l’elezione diretta di un Presidente della Repubblica non esecutivo, come avviene in Portogallo e in Austria, è forse la più incomprensibile soluzione istituzionale possibile, con rispetto parlando per quei Paesi.)
Beninteso, si può ragionare a partire da una base diversa e ritenere cioè che la terzietà del Capo dello Stato non sia poi un valore così decisivo e che in sua assenza possa valere un sistema differente di bilanciamento: è il caso statunitense. Ma di nuovo: possiamo fare a meno, in Italia, di una figura di equilibrio dello Stato? I fatti, a me pare, dicono di no (e direbbero di no, in realtà, anche oltreoceano, massime da quando Donald Trump è sceso nell’agone politico).
Sicché quello che personalmente trovo non solo inopportuno ma proprio illogico, nel presidenzialismo in genere e in un eventuale caso italiano a maggior ragione, è proprio l’idea di eleggere direttamente una figura che è bene invece sia tenuta lontana dalle campagne elettorali, dal dibattito politico quotidiano, dal confronto delle piattaforme programmatiche: perché il Palazzo del Quirinale deve alloggiare non un capo politico ma la maestà e insieme la familiarità dell’idea stessa di Stato, cioè di possibilità di vita in comune. Compito di sintesi che deve perciò essere affidato a una figura la cui stessa identificazione sia frutto di una sintesi: sintesi nata da un percorso di compromesso fra le parti in Parlamento, come nel sistema vigente, o fissato a priori fra quelle parti stesse nell’accettazione di una famiglia reale (ove vi fosse un sistema monarchico).
Vero è che un Presidente eletto dal Parlamento o un Re possono fuoriuscire dall’alveo istituzionale e favorire scorrettamente una parte; ma ciò li delegittimerebbe all’istante, senza contare come i loro poteri, grandi ma non esecutivi, impedirebbero di per sé un esercizio arbitrario della governance.
Una parola, a questo punto, sul sistema francese: peggio che andar di notte, perché in esso si accoppia un Presidente designato dal suffragio universale, e dunque di connotazione partigiana, con un Primo Ministro a questo punto del tutto inutile, anche perché dimidiato nelle sue competenze. Meccanismo incomprensibile, ulteriormente peggiorato con la riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni, che ha reso più difficili le coabitazioni e dunque meno autorevole la politica, perché ha ridotto la necessità del confronto dialettico e dei compromessi fra le parti.
Ecco, infatti, il punto degli amici del presidenzialismo: meno compromessi, più decisioni, più stabilità. Ammesso e niente affatto concesso che ciò sia vero, perché questi valori dovrebbero essere preferibili all’equilibrio, al confronto, alla rappresentatività, tutti aspetti del dibattito pubblico enfatizzati dal sistema parlamentare?
Perciò, chiudo il discorso, già troppo lungo, con una nota provocatoria ma non solo tale: se non si vuole più la Repubblica parlamentare, si torni piuttosto alla Monarchia. Un Monarca egualmente parlamentare – e non solo costituzionale, come ai tempi dello Statuto – sul modello britannico, belga, spagnolo non crea dualismi con il Capo del Governo come può accadere a un Presidente della Repubblica ma (come affermato perfino da Hobsbawn) può rappresentare l’unità e l’animo della nazione in quanto svincolato dal gioco elettorale. Al netto delle ragioni per cui nel ‘46 votare contro l’istituzione regia era una scelta resa inevitabile dai tragici fatti di oltre vent’anni, preferirei, da uomo di sinistra ma soprattutto da cittadino, una modifica dell’articolo 139 della Costituzione, che vieta di fatto il ripristino della Corona per via legalitaria, al presidenzialismo proposto dalla maggioranza di oggi e dal Presidente del Consiglio pro tempore. Perché è seducente, lo capisco, l’idea di eleggere il primo cittadino del Paese: ma, come avverte il dottor Stockmann, i falsi democratici sono i peggiori nemici dell’uomo libero.