Complessità e paradossi della questione sociale e…
Complessità e paradossi della questione sociale e delle rivolte di piazza
I rivolgimenti autentici avvengono nelle urne
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Complessità e paradossi della questione sociale I rivolgimenti autentici avvengono nelle urne |
Una scrittrice cilena intervistata da un giornalista della Rai sui disordini che stanno scuotendo il suo Paese, considerato finora il più stabile e prospero dell’America latina, ha fatto un’ammissione rivelatrice dello stato dei problemi sociali nel ventunesimo secolo. Dopo aver riconosciuto che l’aumento, per altro insignificante e subito ritirato, del costo dei biglietti della metropolitana è stato solo l’esca che ha fatto esplodere la rivolta, a conferma di come dietro una calma apparente si nasconda spesso un risentimento che aspetta solo l’occasione per venire alla luce, ha posto la questione cruciale: risentimento per che cosa? Per l’ostentazione da parte dei ceti benestanti dei simboli della ricchezza inaccessibili ai più, come un paio di scarpe di marca o una maglietta griffata, è stata la sua risposta.
Una tesi paradossale, che urta contro l’evidenza di un autentico disagio che accomuna tante piazze, da Hong Kong a Parigi, da Beirut a Baghdad, ma contiene anche una parte significativa di verità (e ne sottace un’altra, ancor più degna di attenzione: il dato anagrafico e sociale dei dimostranti e il carattere violento delle manifestazioni. Mi sorprende che fra tanti analisti politici e titolati sociologi non ce ne sia uno che si sia posto qualche domanda). I bisogni soggettivi indotti dalle mode, dal cinema, dalla televisione, dall’emulazione e dall’invidia, sono una formidabile spinta alla protesta sociale per chi non ha alcuna difficoltà a soddisfare i bisogni primari e stravolgono il senso della rivendicazione di equità e giustizia. Il risentimento di chi si sente escluso perché non si può permettere di passare le vacanze a Cortina o sulla Costa Smeralda e avverte la necessità inderogabile di vedere da vicino i fiordi, le cascate del Niagara, il Pão de Açúcar e la piramide di Cheope non ha niente a che fare con l’aspirazione ad un mondo migliore. Lo stesso si può dire della fretta degli adolescenti di godere dei presunti privilegi degli adulti, primi fra tutti i loro genitori. La corsa alla condivisione dei comportamenti dei ricchi non porta ad un mondo migliore. Al contrario, alimenta una spirale perversa e alienante alla cui origine stanno l’assolutizzazione del valore del denaro e dei gadget in cui esso viene investito, il rovesciamento di tutti i valori e il trionfo dell’infantilismo culturale. Una società non è ingiusta per i fatto che ci siano persone che accumulano denaro in un modo non proporzionale al resto della popolazione ma lo è se lo stile di vita di quelle persone diventa il modello da seguire. Nell’antica Roma le distanze economiche erano abissali, eppure la rispettabilità si otteneva vivendo parcamente e rispettando il mos maiorum e si perdeva esibendo la ricchezza e vivendo smodatamente. Il ricchissimo Trimalcione è un personaggio goffo e ridicolo, l’esibizione del lusso finisce per diventare involontariamente comica. Il liberto arricchito è il bersaglio preferito della satira antica e, per converso, la parsimonia, la sobrietà, il rigore morale di chi, pur godendo di una posizione sociale elevata, è contentus pauci, ricorrono come modelli di vita in tutto l’arco della latinità. Un problema di giustizia sociale non è tanto l’accumulo del denaro nelle mani di pochi quanto l’importanza sociale che viene data al denaro e, di conseguenza, alle cose che si possono comprare col denaro. C’è un limite oltre il quale il carattere convenzionale del valore del denaro e degli oggetti diventa palese e la ricchezza finisce per perdere ogni consistenza. Quando ci si accorge che non esiste una differenza significativa fra una bottiglia di vino da tre o quattro euro e una da quattrocento euro o fra un paio di scarpe da 100 euro rispetto a una calzatura che ne costa cinquemila; e sarebbe ridicolo fare della inaccessibilità della seconda per la grande maggioranza delle persone una questione sociale. Non esiste un elisir di lunga vita che solo i ricchi si possono permettere, non esistono scarpe che rendano leggeri come piume e il sedile di una Panda è più comodo di quello di una Ferrari. Insomma c’è qualcosa di triste nell’importanza e nel valore simbolico che viene attribuito a certi oggetti o a certi comportamenti. Ammesso, e non concesso, che dormire in uno yacht migliori la qualità della vita, il marinaio che vi passa buona parte del suo tempo ed è pagato per farlo dovrebbe essere assai più felice del proprietario che ne fruisce sporadicamente e magari soffre il mal di mare. Un problema di giustizia sociale è il fiato sul collo del lavoratore da parte di uno Stato esoso che non riconosce il valore del lavoro, che cerca in tutti i modi di peggiorare la vita al cittadino, lo angaria con l’imposizione fiscale, con le gabelle, con le multe, gli tende agguati per spillargli soldi, lo mette in affanno con le bollette, le scadenze, si fa pagare per l’assistenza sanitaria e poi pretende il ticket, lo costringe a rivolgersi alle cliniche private e consente che le case farmaceutiche ingrassino sulla sua pelle, gli impone di pagare il pizzo alle banche e pretende di vedere come spende quello che si è guadagnato, si tiene una parte del suo reddito per la pensione e poi stabilisce arbitrariamente se e quando può goderne. Un problema di giustizia sociale è la difficoltà di tanti che non riescono ad arrivare alla fine del mese, dei pensionati disperati se ciò che gli spetta viene pagato con un giorno di ritardo, un problema di giustizia sociale è il doversi indebitare per avere un tetto sopra la testa, un problema di giustizia sociale è vedersi la vita rovinata per una malattia o per un figlio disabile o un debito con l’agenzia delle entrate. Ma l’invidia sociale è una brutta bestia e non porta niente di buono. Pesa ancora l’eredità dell’analisi marxiana e, con quella, l’idea paleoliberale della plutocrazia, del potere del denaro, del primato del capitale sulla politica, sulla società e sul costume. Fuori della sua funzione di motore della produzione il denaro sia dal punto di vista economico sia per le sue implicazioni di ordine etico e comportamentale finisce per diventare un orpello senza valore e provocare una perdita di senso esistenziale in chi lo detiene e in chi aspira ad averlo. Il benessere è correlato alla ricchezza entro un certo perimetro, oltre il quale si rischia lo sradicamento e l’alienazione. Come segno di alienazione è il denaro come traguardo, l’aspirazione alla ricchezza: la ricchezza è costituita da simboli, da convenzioni, come ben sapevano gli antichi filosofi. Per esorcizzare il potere vero, che è quello del carisma personale, dell’intelligenza, della bellezza, delle competenze, esso viene trasformato in denaro e confuso con quello. Nel mondo reale, nelle transazioni e nelle interazioni che costituiscono la società civile quel che conta è quel potere vero, se vogliamo ancestrale, primitivo, di fronte al quale il potere simbolico del denaro – ma anche quello della politica e dello status – si affloscia fino a vanificarsi. “I poveri destinati a diventare sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, sempre più numerosi i primi, sempre meno numerosi i secondi”. Questa la lezione – volgarizzata – di Marx. Uno spirito matematico ne ricava uno scenario in cui uno solo detiene tutta la ricchezza del mondo. Il punto debole di queste banalità, gabellate per assiomi nelle nostre scuole, sta proprio nella evanescenza dei concetti di povertà e di ricchezza. Francescanamente la povertà è semplicemente rinuncia ai beni del mondo assolutamente inutili – alle belle vesti o agli ornamenti – per godere meglio dei beni dello spirito: più che una rinuncia una conquista. E la ricchezza è la possibilità di vivere nel lusso, vale a dire circondati di oggetti inutili, o di comprare ciò che altri ottengono naturalmente: l’obbedienza, l’amicizia, l’amore. Oltre un certo limite di comodità e soddisfatti i bisogni primari la ricchezza perde ogni valore, a meno che la politica non diventi anch’essa merce da comprare. I detentori di ricchezza quando non sono più motori dell’economia ma semplici consumatori perdono non solo il loro ruolo sociale ma il contatto con la società civile, ne vengono in qualche modo sradicati e da privilegiati finiscono per diventare emarginati. Si costringono a vivere in un mondo a parte, presi in una spirale dissipatrice, separati dal corpo vivo e operoso del Paese, che, nel momento in cui li ignora ne decreta l’inutilità e quindi la morte sociale. Sul piano umano le conseguenze possono essere devastanti e colpiscono la capacità di organizzare un progetto di vita, di gestire la propria sessualità, i rapporti con l’altro e l’investimento di senso sulle cose. Il loro risvolto patologico sono depressione, alcolismo, promiscuità, tossicodipendenza. La cronaca e il gossip ne offrono una quotidiana testimonianza. Il benessere che ogni essere umano ha il diritto di perseguire non consiste nella fruizione di beni dal valore convenzionale ma nella disponibilità di beni reali il cui valore deriva da necessità naturali: un ambiente sicuro e confortevole, mutuo riconoscimento e accettazione reciproca, integrazione culturale, che significa accesso all’istruzione e al lavoro, e nessun affanno per la soddisfazione dei bisogni primari. Almeno sulla carta, tutti i Paesi civili garantiscono questo diritto insieme alla parità giuridica e alla condivisione della sovranità (quelle cose che nei salotti radical chic e nei deliri di Grillo vengono messe in discussione). Intendiamoci: non lo garantiscono all’universo mondo ma ai loro cittadini. Oggi in Italia quel benessere non è più garantito. Uno Stato complice dell’immigrazione illegale non ha più l’autorevolezza per far rispettare quella Legge che esso stesso sistematicamente viola; uno Stato che viene meno al suo obbligo fondamentale di garantire la sicurezza e non solo consente ma favorisce l’occupazione delle città da parte di clandestini senza remore, spacciatori, prostitute e fruitori abusivi del nostro welfare; uno Stato incapace di porre un freno alla predazione delle nostre industrie da parte del capitale straniero; uno Stato che abdica di fronte ad un’Europa costruita per difendere gli interessi franco-tedeschi; uno Stato che si accanisce su quanti col loro lavoro tengono in piedi le istituzioni e spilla soldi a chi fatica a mantenere sé e la propria famiglia mentre resta indifferente di fronte alla migrazione forzata di centinaia di migliaia di giovani; uno Stato così giustifica un sentimento diffuso di abbandono e di tradimento che, in democrazia, deve trovare la sua espressione nel voto elettorale. Nel voto, non nelle rivolte di piazza, che lasciano sempre il sospetto di manovratori occulti e che, in ogni caso, danno spazio ad una hybris cattiva e perversa, stupidamente violenta, che mette i figli contro i padri, giovani viziati contro lavoratori in divisa, fa tremare i negozianti, porta alla ribalta l’altra faccia della noia, dell’abulia, della mancanza di autostima e produce simboli e protagonismi che oscurano i problemi reali. La violenza non porta mai nulla di buono: l’unico effetto certo è che mette al centro i violenti, gli psicopatici, gli ammalati di protagonismo. Ed è per questo che, se ha il minimo senso dello Stato di diritto, se ha la minima cognizione del significato e della funzione del patto sociale dal quale discende lo Stato, Mattarella deve dare ascolto alla richiesta composta ma decisa del popolo di piazza San Giovanni senza distogliere lo sguardo dall’esito delle elezioni europee e di quelle che ne sono seguite fino a quello eclatante, e esaltante, dell’Umbria. Prenda atto che il parlamento non è più legittimato dalla volontà popolare e ne tragga le conseguenze. Pier Franco Lisorini docente di filosofia in pensione
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