Commento al 6° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:

(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).

Perché Montale non scrive “La speranza di rivederti ancora”, più semplice e più in linea con l’usuale disposizione sintattica?
L’endecasillabo, se proprio esigeva un endecasillabo a primo verso, era comunque rispettato.
Si tratta di un vezzo poetico?
Non affatto: “La speranza di rivederti ancora” è una proposizione denotativa: dice quello che dice. “La speranza di pure rivederti” invece dice di più di quello che dice, perché oltre a ricalcare il significato dell’espressione che abbiamo immaginato alternativa, vi aggiunge come si tratti di una speranza capace di sopravvivere testardamente all’idea di irrealizzabilità, e perciò la mera univerbazione di “e pure” in “eppure”, risulta essenziale a creare un significato contrastivo.
Ciò gli attribuisce evidentemente un peso specifico maggiore, facendone il termine più denso e poetico di tutta la lirica.
Ecco, nel primo verso la speranza di rivedere di nuovo Irma nonostante l’evidenza di un incontro ormai reso impossibile dagli eventi, stava abbandonando il poeta.
Egli è vicino alla resa, perché ciò che vede attorno a sé gli si presenta come una serie di immagini su uno “schermo”, il quale, come tale, nasconde una realtà altra, non necessariamente unica e più vera, ma comunque quella cui anela perché irraggiata da Irma e che con Irma assume senso. 
Vengono alla mente i versi di una poesia degli “Ossi”:
“Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto”.
Però attenzione! Non c’è in essi l’assunzione di una realtà giusta nascosta da una realtà sbagliata.
Se è sbagliata lo è solo nel senso che depriva del gusto di vivere.
E’ perciò un concetto che ha a che vedere con l’emozione che viene o non viene suscitata, non con un criterio morale o gnoseologico.
Ciò che ci sta attorno, è prosciugato da ogni rimando, per cui un qualsiasi oggetto rappresenta solo se stesso; non indica, è statico, nel senso che è pieno solo di sé, irrelato.
Sono immagini che non lasciano immaginare, e come tali hanno “i segni della morte”.
Nella migliore delle ipotesi “questo schermo d’immagini” lascia filtrare dal passato “un tuo barbaglio”. E “barbaglio” (parola già presente negli “Ossi”) altro non è che una balbuzie visiva, un fatto rivelante e insieme ostacolante, un’intermittenza di fari nella notte che proprio nel fendere il buio feriscono gli occhi e impediscono di vedere rendendo quasi più sofferente e spaesata la situazione che se si restasse completamente avvolti dal buio.
Lo sviluppo della frase è completato. Ciononostante il poeta non termina così. Con i due punti  introduce una esplicativa del tutto particolare e al limite dell’accettabilità sintattica.
Al fine di dimostrare che è passato dal discorso concettuale a quello esemplificativo, stacca in un’altra strofa, e, per di più, chiude il suo richiamo tra parentesi.
Orbene, se una delle funzioni dei due punti è quella di introdurre una spiegazione, dovremmo pensare che il poeta stia cercando di spiegarci qualcosa relativo alla frase precedente.
Ma ciò darebbe adito ad un nuovo problema: bisognerebbe aver modo di capire se per frase precedente si deve intendere tutta la parte di poesia che precede la parentesi (la quale parte essendo un testo che al suo interno non ha neanche un punto fermo potrebbe rivendicare una sua continuità), oppure se si deve intendere solo la porzione che ricomprende i versi dal terzo al settimo, raggruppata in un’unica strofa.
Lo stacco dato dal cambio di strofa e dalla parentesi risulta talmente marcato e il contenuto (quanto meno in apparenza) così avulso dal testo che lo introduce, che tanto provando a vedere la spiegazione in senso più ampio che più limitato, non si riesce a pervenire ad un risultato.
E’ pur vero che neanche la critica più accorta, nel cimentarsi nella sua interpretazione, è riuscita a pervenire autonomamente e direttamente ad un senso.
Dare coerenza a una frase messa lì, apparentemente estranea alla concatenazione logica non è agevole.
C’è voluto il riluttante intervento dell’autore stesso per soddisfare (ma soddisfare fino a un certo punto) la giusta curiosità dei critici e di quei lettori preoccupati che il suo ermetismo potesse nuocergli se scambiato per qualcosa di enigmistico, o, se si vuole, di volutamente lambiccato, al solo scopo di suscitare attenzione.
Così com’è, invece, questa parentetica ha il sapore del realismo magico, per esempio, di un Buzzati, dove il segmento reale è dato dalla precisione del luogo, poiché si dice che è Modena, e addirittura si indica che l’episodio è avvenuto tra i portici della città; mentre il segmento metaforico-fantastico è dato dallo shock che produce leggere di un fatto a dir poco inusuale come quello di un servo (in che senso servo?) gallonato (i galloni contrastano con la situazione servile, però) che “trascinava” (cioè dimostrava di avere potere su) due sciacalli al guinzaglio (dove la stranezza ovviamente sta sia nel fatto che sotto i portici ci fossero degli sciacalli, sia nel fatto che fossero portati al guinzaglio).
Prima di tutto bisogna vedere se ci sia una situazione in cui la condizione “servile” (termine virgolettato per indicare la condizione di chi è sottoposto, e distinguerla dal servo inteso letteralmente come quasi-schiavo), si può conciliare con i galloni.

Vengono in mente genericamente cinque scenari.
Un servo gallonato come:
– Portiere o addetto al bureau di albergo, o “maschera” in un cinema o teatro, o addetto ai controlli in un museo, e similari.– Uno che, di bassa estrazione sociale, vada in giro impettito e tronfio come un gallo perché si crede o cerca di mostrarsi importante e farsi notare.
– Un graduato di poche stellette che ha arrestato due figuri rei di sciacallaggio recalcitranti a seguirlo (ma, se così fosse si tratterebbe di manette, non di guinzaglio, e di un graduato molto sicuro di sé per avere la capacità, da solo, di trascinare due persone…)
– Un maggiordomo o custode, e come tale dipendente di una famiglia nobile e/o ricca, oppure un incaricato alla vigilanza di una qualche proprietà o di una qualche sede istituzionale.
-Infine, visto il contenuto con riferimenti velatamente politici di almeno due dei mottetti precedenti, la eventualità che anche questo mottetto prosegua in una criptica critica al fascismo, e ne rappresenti allegoricamente gli affiliati con un ruolo ufficiale nel Partito nella figura di un lacché, e quelli tra la gente che potevano approfittare della situazione politica creatasi, che vi si facevano volentieri trascinare, anche se bisogna evidenziare che “farsi volentieri trascinare” è un ossimoro con tutte le ambiguità degli ossimori.  
Dinnanzi a un simile quadro, risultando impossibile decodificare con certezza, sembrava però di poter proporre un approccio di lettura che, almeno quello, avesse una sua logica abbastanza probante.
E’ parso cioè che Montale avesse inserito una scena di primo acchito avulsa dallo svolgersi coerente del messaggio per muoversi su un piano differente da quello del racconto vero e proprio, affidandole un compito in qualche modo simile alle indicazioni di esecuzione degli spartiti musicali ( Brioso, Delicato, Allegretto, Deciso, Allegretto ma non troppo, etc.). Come se il poeta dicesse (e indipendentemente dalla effettualità del contenuto):”Ecco, quello che è il mio sentire, se dovessi renderlo con un’immagine lo renderei con questa immagine, che può anche non avere nulla di vero (di accaduto), ma che è vera nel creare lo stato d’animo che desidero pervada chi leggerà i miei versi e che veramente potrà così allinearsi col mio”.
Inevitabile a questo punto riferire testualmente, nonostante la lunghezza della citazione, cosa ci dice  Montale invalidando gran parte delle nostre supposizioni più o meno spericolate, ma giustificate dal non aver mai, fin dalla prima lettura di molti anni fa, ceduto al “vedere come va a finire” senza aver prima tentato di capire in autonomia “il finale”.
E cosa ci dice vediamolo da un suo articolo sul “Corriere della Sera” del 16 febbraio 1950  in cui, sotto le mentite spoglie di Mirco (quasi usate scherzosamente in quanto che parlasse di sé era lampante) ci svela l’arcano:

“Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo pensiero dominante, stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagniuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: Che cani sono questi? E il vecchio secco e orgoglioso: Non sono cani, sono sciacalli. (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia). Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine?
Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della scatola a sorpresa della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli,…E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento d’un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso i te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato –  è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio.
S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: “( a Modena fra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)”. Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e lontano.

Dopodiché possiamo a buon diritto affiancare ai diversi squarci di luce che si infiltrano tra le crepe della muraglia, variamente individuabili lungo il percorso poetico montaliano (la luce rara della petroliera, l’anello che non tiene, la maglia rotta nella rete, etc.), anche questo di una scena obiettivamente grottesca dato il protagonismo di due cagnuoli innocui e palesemente frutto di un’incrocio bizzarro, che rivendica di essere interpretata alla stregua dell’emblema della chiusura del reale sulla sua stessa bizzarrìa, o, al contrario, alla stregua di un assurdo che pare assurdo solo perchè è segno di un messaggio che arriva “dal passato, ma distorto e fatto labile”, come se tra il passato e il presente ci fosse il filtro di specchi deformanti, a creare consolidate concrete mostruosità.

FULVIO BALDOINO

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3 thoughts on “Commento al 6° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. In questo dieci versi di metro diseguale, si intrecciano temi ricorrenti (o, considerato il titolo musicale di questa sezione inclusa nelle “Occasioni”, diversi Leitmotiv) della poesia e della poetica montaliana, elencati con la consueta precisione dal prof. Baldoino; Leitmoyiv tutti degni di analisi e di approfondimenti. Tra questi scelgo di soffermarmi sul tema dello “schermo” costituito dalla nostra percezione della realtà esteriore ma anche, e anzi, soprattutto interiore. E’ il tema della fragilità “oggettiva” dei nostri ricordi, la cui solidità e consistenza è pari a quella dei nostri sogni a occhi aperti. Qui il poeta si trova a Modena (non sappiamo perché ma non è questo che importa), e passeggia sotto i partici di cui è ricca la città emiliana, e intanto ripensa all’amata ormai lontana disperando di poterla rivedere un giorno. Tra questi tristi pensieri irrompo un’immagine della realtà, un’immagine che appare nell’ultima strofa chiusa tra la perentesi che la isolano dal contesto rammemorante in cui è immerso il poeta, marcandone, come bene osserva Baldoino nel suo commento, l’incongruità, o meglio, l’assurdità: che cosa c’entrano i due sciacalli al guinzaglio di un servo gallonato con l’immagine dell’amata lontana? La risposta ce la fornisce il poeta stesso, nell’intervista pubblicata sul Corriere della Sera citata da Baldoino. Eppure (e pure) quella spiegazione della lettera non ci dice nulla sul piano metaforico-simbolico. Siamo sicuri che i due “cagnuoli” siano poi così innocui? Se sono due cuccioli di sciacalli non saranno un presagio di morte dell’amata o del poeta medesimo (data anche la “mostruosità” di quell’incrocio)? Una volta di più il commento del prof Baldoino ci apre prospettive inedite di lettura e interpretazione di un testo montaliano.

  2. Sì, infatti. Il dato grezzo non abbiamo motivo di non acquisirlo così come ce lo racconta il poeta. E se vogliamo una genesi di quei tre versi, l’abbiamo trovata.
    Se Montale però ha focalizzato proprio questa scena, ho l’impressione che sia perché ha voluto sottolinearci che la realtà di tutti i giorni mettendosi un po’ da parte e lasciando spazio ai suoi eventi più strani, ci offre come un aiuto per farci comprendere che sarebbe più giusto imparare a stupirci non solo degli iceberg, ma anche di ciò che agli iceberg sta sotto, e a noi sta attorno. E in modo così lampante che non vediamo più.

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